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CESARISMI E ÉTAT PROVIDENCE

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CESARISMI E ÉTAT PROVIDENCE

(pubblicato su «Fuori Collana», 2 agosto 2023)

Il cesarismo, rivisitato nel secondo dopoguerra nella sua reincarnazione gollista, ha saputo nella sua culla d'origine far buon uso innanzitutto dell'État-Providence come leva e forma essenziale di governo. Quest’ultimo, nato nel 1945 con il Sistema di Sicurezza Sociale - la Sécu, vantata e invocata da ogni francese come amata cintura di sicurezza – è passato nei decenni per straordinarie e complesse rivisitazioni, senza perdere mai l'impronta paternalistica impressa al sistema, prima ancora che nel nome, dalla sua regolazione centralistica. Oggi entrambi questi due straordinari architravi della République appaiono seriamente lesionati.

Per iniziare ad avventurarsi per capitoli divenuti oggi così roventi, bisogna risalire alla Francia del Generalissimo. È Charles De Gaulle, con la sua mano, ad avviare la Repubblica per una mutazione a fortissima caratura presidenziale, mentre liquida definitivamente l'impero coloniale. Inizia allora, nel transoceanico, tumultuosInizia allora o scardinamento dell'Union Française ereditata dalla Costituzione del 1946, a farsi intensissimo quel rimescolamento di colori e razze, lingue e religioni che muta viscere e volto delle villes transalpine e soprattutto della capitale. È sempre del Generale la mano che provvidenzialmente assicura alla Francia un palcoscenico sovranazionale adeguato ad una grandeur in netto ridimensionamento nel mondo. Con decisione sarà imboccata la strada dell'integrazione comunitaria europea a guida franco-tedesca e tenacemente serrata rispetto alle avances d'Oltre Manica. Il tutto corazzato dai tratti ambigui impressi alla singolare partecipazione all'Alleanza Atlantica e dalla ferma volontà di rimarcare il ruolo internazionale del paese anche con il conseguimento dello status di potenza nucleare. Accanto a questi galloni distintivi di grandeur, De Gaulle saprà molto sagacemente collocare al cuore del processo di integrazione comunitaria una risoluta e sostanziosa scelta per l'agricoltura, destinataria con la PAC, Politica Agricola Comunitaria, fino agli anni 70 di quasi il 70% delle risorse europee. La Francia saprà approfittarne, godendo così di una leva privilegiata per garantire pace sociale in gran parte del paese ma al contempo anche la robusta e duratura ristrutturazione di un mondo e un settore sottoposto alle acutissime tensioni di una modernizzazione epocale. Il risultato saranno campagne prese a modello nel mondo intero per l'amplissimo spettro di opportunità offerte alla Francia tutta e alla sua attrattività globale. Altre traiettorie saranno disegnate nelle città e soprattutto nella capitale da giovani generazioni figlie del dopoguerra e con negli occhi l'affaccio epocale sul mondo di fine-secolo: si arriva così al maggio francese e agli scioperi e successivi accordi di Grenelle, chiusi poi dal plebiscito delle elezioni del giugno 1968 a favore del Generale.

Quell'età aurea, non a caso ribattezzata Les Trente Glorieuses, si infrange per l'Occidente tutto con la triplice crisi - petrolio, dollaro, Club di Roma e crisi dello sviluppo - dei primi anni 70: vero e proprio spartiacque dell'epoca contemporanea. In Francia tutto si complica con la fine del gollismo: nel 1974 un esausto Pompidou muore, ponendo fine ad una discussa e movimentata eredità.

Cesarismo e État-Providence iniziano ad avventurarsi allora per inedite strade. Nel maggio 1974 è eletto Presidente della Repubblica Francese Valéry Giscard d'Estaing. Batte di misura François Mitterrand promotore e leader del Programme Commun de Gouvernement tra il Partito Socialista, il PCF e i radicali di sinistra di Robert Fabre. Giscard promuove una netta fuoruscita dal conservatorismo gollista nel campo dei diritti e delle libertà civili: revisione al ribasso della maggiore età, facilitazioni nel divorzio, depenalizzazione di una serie di reati e legalizzazione dell'aborto. unificazione degli studi medi, rafforzamento dei poteri di intervento del Parlamento ecc.. Prova, senza successo, ad abolire la pena di morte. Assieme al cancelliere tedesco Helmut Schmidt è protagonista di un vivacissimo rilancio dell'avventura europea: si pensi all'elezione diretta del Parlamento europeo o alla creazione della moneta unica ECU. L'impronta del duo franco-tedesco è fortissima anche sulla scena internazionale: nasce su loro iniziativa a Rambouillet - a fronte delle straordinarie vicessitudini USA all'indomani della sconfitta in Vietnam e della rovinosa caduta di Nixon - il Summit del G7 nel tentativo di affermare una gestione condominiale dell'egemonia occidentale. Più tormentato il capitolo economico del suo settennato, turbato dalla rottura con il post-gollista Jacques Chirac, uomo chiave del suo successo presidenziale, e soprattutto dal susseguirsi delle crisi petrolifere. Coadiuvato da Raymond Barre, primo ministro, sceglierà una linea di rigore neoliberale volta a stabilizzare il franco, ma poi trasposta anche a livello europeo nella rigida regolazione monetaria ispiratrice del Sistema Monetario Europeo - SME.

Il promesso «changement dans la continuité» che gli era valso l'elezione si impantana nelle strette del rigore economico e soprattutto di una serie di scandali per frequentazioni innominabili e misteriosi omicidi e attentati. A impiombare il suo passo provvede però soprattutto la rottura con Chirac. Arriverà così svantaggiato alla sfida presidenziale  con un Mitterrand ora rafforzato dalla primazia conquistata nel fronte di sinistra dal suo Partito socialista con le sue 110 Propositions pour la France, un vasto programma di riforme.

È svolta, profondissima: la pena di morte abolita, liberalizzazione di radio locali e legalizzazione massiva di immigrati irregolari, decentramento amministrativo, estensione dei diritti dei lavoratori nelle imprese, incremento di salario minimo e assegni familiari, introduzione dell'imposta patrimoniale, nazionalizzazione di imprese e banche primarie, settimana lavorativa di 39 ore, quinta settimana di ferie pagate, pensione a 60 anni ecc. Fortissima l'insistenza neo-keynesiana sull'intervento pubblico come leva e stimolo dello sviluppo. Il tutto però in contrasto con la politica deflattiva perseguita dalla Banca di Francia e con la cornice europea disegnata dallo SME. Il sogno di un'altra Francia si materializza concretamente ma dura poco. Sepolto dai venti contrari che spirano in tutt'Occidente. Alla guida della Federal Reserve americana c'è un granitico Paul Volker: suo lo choc impresso al dollaro e alle politiche economiche generali con il generale passaggio, intanto nei paesi OECD, degli obiettivi di politica economica generale dal perseguimento della piena occupazione alla lotta all'inflazione. In Germania nell'ottobre 1982 anche Schmidt, superstite del duo leaderistico franco-tedesco, è stato destituito a favore del democristiano Helmut Kohl: il tutto a rafforzare il rigorismo di Bundesbank e SME. Preannunciato nel giugno 1982 dalla avvertenza di una «pausa» nel perseguimento del programma di riforme, Mitterrand si produce il 21 marzo del 1983 nell'ennesima svolta cesaristica della storia francese. Adesso siamo al «tournant de la rigueur»: riduzione della spesa pubblica e di quella sociale, abbattimento del deficit delle imprese pubbliche, riduzione dei finanziamenti agli enti locali, introduzione di nuove imposte e ticket sanitari, rialzo di buona parte delle aliquote fiscali ecc. Altre scelte riguarderanno la privatizzazione di buona parte delle imprese pubbliche, deregulation dei mercati finanziari, disinvestimenti nel settore dell'edilizia pubblica.

Il governo presieduto da Pierre Mauroy si è tormentato a lungo con nette divisioni finali. Sotto l'urto di massicce fughe di capitali, di un deficit crescente nella bilancia commerciale e in quella valutaria, oltre che di continue svalutazioni del franco, l'alternativa all'allineamento neoliberale è la rottura con la CEE, con abbandono dello SME e una netta virata protezionistica. Alla fine Mitterand ha deciso per il «tournant», per quanto - rispetto a tutte le altre economia sviluppate . la Francia si sia sforzata di conservare per i due settennati di Mitterrand un orientamento espansionista in politica economica.

Le conseguenze della svolta non si faranno però attendere. Le prime forti perdite elettorali comprometteranno già immediatamente le elezioni amministrative del 1983 e le successive europee del 1984. Sul primo ministro - concepito nella piramide istituzionale della V repubblica, come un vero e proprio salvavita del presidente della Repubblica - ricadrà tutto il peso della sconfitta. E così a Pierre Mauroy succederà Laurent Fabius, alla testa ora di un governo di chiaro orientamento deflattivo e privo di ministri eletti nelle liste del PCF, ora nettamente emarginato.

Le ricadute sociali del riorientamento saranno durature e profonde. Nell'immediato però non limiteranno le straordinarie capacità manovriere del presidente che riuscirà ad assorbire anche la terribile disfatta del fronte progressista alle elezioni legislative del marzo 1986: il tutto attutito dall'introduzione dello scrutinio proporzionale in sostituzione del vigente criterio maggioritario. Nasce così, sotto l'urto della vittoria elettorale della coalizione RPR-UDF, guidata da Jacques Chirac, il primo governo di «cohabitation». Punteggiata da trovate para-costituzionali e da mille punzecchiature quell'esperienza durerà grazie soprattutto al fatto che i due dirimpettai vorranno entrambi utilizzare quel pezzo di sella - sia pure in coabitazione - come trampolino per il successivo appuntamento presidenziale. Infine Mitterrand la spunterà riuscendo a far cadere sulle spalle di Chirac soprattutto il peso della politica economica deflattiva e delle privatizzazioni. A proprio vanto potrà esibire invece tutta una serie di realizzazioni che di fatto muteranno il volto della Francia e di Parigi: Eurotunnel sotto la Manica, Géode alla Villette, Musée d'Orsay, Institute du Monde Arabe, Piramide al Louvre, Citè des Sciences a Parigi ecc., senza calcolare la continuità vantata sul terreno europeo ed internazionale, magari anche con le esplosioni atomiche a Mururoa stoppate solo successivamente. Riuscirà così l'8 maggio 1988 a farsi rieleggere per un secondo mandato contro l'eterno rivale, Chirac. Tra alterne vicende e sia pure minato fin dal 1982 da un cancro tenuto nascosto riesce a portare a termine il suo mandato, inanellando vari governi, anche di «coabitazione».

Colto di sorpresa dalla caduta del Muro, dapprima esita di fronte alla prospettiva immediatamente colta di una Germania unita. Decide poi di cavalcarla. Si fa così promotore assieme ad Helmuth Kohl di una nuova stagione dell'integrazione comunitaria, guidando il processo che a Maastricht porterà alla nascita dell'euro e dell'Unione europea. Ma la via intrapresa si rivelerà irta di ostacoli. Il no dei Danesi il 2 giugno 1992 al referendum per la ratifica del Trattato di Maastricht suonerà un campanello di allarme per tutto il continente: non è più scontato il consenso degli Europei all'integrazione comunitaria. Soprattutto per i passaggi decisivi ora richiesti dal nuovo soggetto - l'Unione europea - con tutte le sue nuove prerogative e assunzioni di sovranità. Ne nasce la crisi dello SME, con la fuoruscita di lira e sterlina. La Francia celebra intanto un secondo referendum sull’adesione all’UE, voluto fortemente da Mitterrand. Il risultato consegnerà un paese nettamente spaccato. A far passare il trattato di Maastricht provvederanno poco più di 500 mila francesi, appena l'1% dei votanti. La Republique si rivela alla prova europea un paese con profonde e inedite spaccature: tra città e campagna e nei grandi agglomerati urbani, con periferie - banlieues - marchiate da malanni profondissimi, di natura sociale, religiosa, culturale.

La divisione evidenziata dal voto referendario non è nuova. È quasi un decennio che gli osservatori più accorti denunziano l'allargamento della forbice sociale tra élites et peuple, tra i ceti abbienti e gli strati sociali più deboli, spesso etichettati come «neo-plebe». Su di esso settori del PS mitterrandiano, quali quelli capeggiati da Chevènement, hanno appuntato l'attenzione con una posizione anti-Maastricht assai diversa da quella mitterrandiana. Analisti assai attenti, quali Emmanuel Todd o Marcel Gauchet, ne hanno fatto oggetto delle loro analisi, volte ad evidenziare la crisi evidente del sistema politico francese, sottoposto ormai ad un ribaltamento di ruoli, con una destra o un centro spesso intenti alla denuncia sociale.

Jacques Chirac, fino ad allora thatcheriano dichiarato come sindaco di Parigi, proverà a divenire il più recettivo di questo nuovo clima, attingendo a queste problematiche - su ispirazione del gollista anti-europeo Philippe Séguin - per impostare la campagna per le elezioni presidenziali del 1995. E così il tema della «fracture sociale», variamente trattato e dichiarato, diverrà il leit-motiv della sua battaglia elettorale. Per lui la Francia di un tempo - «modello di mobilità sociale» - è ormai vestigia di un passato glorioso. E così nel discorso di presentazione del 17 febbraio 1995 si produce in una disarmante ricostruzione: «Sicuramente non eravamo perfetti. Ma conoscevamo un movimento ininterrotto che andava nella giusta direzione. Oggi ormai sicurezza economica e certezza del domani sono privilegi. I giovani francesi esprimono il loro sgomento. Si allarga un divario sociale di cui l'intera Nazione si fa carico. La "macchina della Francia" non funziona più. Non funziona più per tutti i francesi». Il panorama sociale complessivo è oggi altro, da quello glorioso del passato. La scena sociale ha assunto ormai i colori delle banlieues: «Nelle periferie disagiate regna un terrore morbido. Quando troppi giovani vedono solo disoccupazione o lavoretti al termine di studi incerti, finiscono per ribellarsi. Per il momento lo Stato cerca di mantenere l'ordine e l'assegno sociale di disoccupazione evita il peggio. Ma fino a quando?».
Dopo un primo turno caratterizzato soprattutto dalla divisione interna al suo stesso partito, per la discesa in campo dell'allora premier Balladur, Chirac riesce a prevalere e ad affermarsi al secondo turno contro il socialista Jospin. Diventa così nel maggio 1995, al suo terzo tentativo, Presidente della Repubblica. Si produce immediatamente in atti clamorosi: abolizione del servizio militare obbligatorio e ripresa – sia pure per poco tempo – degli esperimenti atomici a Muroroa sospesi da Mitterrand nel 1992. Più eclatante, a distanza di pochi mesi dalla scalata all’Eliseo, però, giunge l’ennesimo atto cesaristico di svolta. È il 26 ottobre 1995 e dagli schermi di «France 2» Chirac annuncia un capovolgimento nei principi ispiratori di politica economica. Prioritaria, rispetto all’espansione della spesa sociale fino ad allora preconizzata, diviene adesso la riduzione del deficit di bilancio: sarebbe questa ora la chiave per promuovere il calo dei tassi di interesse e la ripresa della crescita, con connessa promozione dell’occupazione. Netto il distanziamento ora dalle teorizzazioni di «un’altra politica» perseguita da Philippe Séguin, con connesso riavvicinamento alle posizioni sostenute dall’ex primo ministro Edouard Balladur e soprattutto dall’altro membro della diarchia europea, Helmut Kohl. Non a caso l’annuncio è stato preceduto il giorno prima da un incontro con il cancelliere tedesco: confronto concluso dall’impegno comune al rispetto dei principi ispiratori dell’UE in campo economico-monetario, ovvero rigorosa adesione ai criteri su debito pubblico e deficit.
L’annuncio non è indolore. In realtà, è solo il preambolo di un passaggio estremamente più puntuto sul piano sociale: la riforma del sistema pensionistico. I punti fondamentali della proposta avanzata dal governo Juppé: allungamento dell’età contributiva da 37,5 a 40 anni con equiparazione tra lavoratori pubblici e privati e slittamento dell’età pensionabile da 60 anni a 62 anni.
È rivolta popolare sostenuta con uno sciopero generale nei servizi pubblici di tre settimane e 6 manifestazioni oceaniche: Érik Izraelewicz saluta su «Le Monde» del 7 dicembre quel sollevamento come «la première révolte contre la mondialisation», degno prologo dell’alter-mondialismo di Seattle, Genova e Porto Alegre. Alla vigilia del Natale 1995 il governo annuncia il sostanziale ritiro della riforma. Per Chirac i contraccolpi sono durissimi. Ne esce dimidiato, profondamente delegittimato, a riprova degli effetti devastanti di atti decisionistici azzardati. Poco dopo, pressato da scadenze elettorali regionali e da incombenze europee, si acconcia a sciogliere anticipatamente il Parlamento. Andrà male. È trionfo della coalizione di sinistra capitanata da Lionel Jospin. Nasce così una nuova cohabitation che lo accompagnerà fino alla fine del primo mandato. Saranno mesi di grandi incertezze, punteggiati anche dalle prime inchieste giudiziarie su finanziamenti occulti del RPR e su atti amministrativi della sua gestione come Sindaco di Parigi. Lo scudo costituzionale steso però a riparare la figura del presidente della Repubblica eviterà a Chirac di rispondere dei suoi atti, se non al termine della sua avventura presidenziale.
Intanto il malessere sociale si è fatto sempre più acuto, soprattutto nelle periferie. Lentamente ma con costanza è qui soprattutto che si rafforza sempre più la destra del Front National capeggiata da Jean-Marie Le Pen. E sarà lui a sorpresa ad emergere al primo turno delle elezioni presidenziali del 2002 superando Jospin e piazzandosi al secondo posto come sfidante del presidente in carica. Risuonerà la diana dell’emergenza repubblicana. Saranno molti, soprattutto a sinistra, a sentire come dovere la necessità di accantonare malumori e giudizi estremamente negativi per far convergere le proprie indicazioni di voto su Chirac, che sentirà quasi come obbligo negare a Le Pen il confronto televisivo finale. Alla fine sarà lui a trionfare con oltre l’82% dei voti. 
La sua stella però non torna a brillare, anzi appare decisamente spenta. Così come è spento il governo che segue presieduto da Jean-Pierre Raffarin. Spunta invece la stella di Nicolas Paul Stéphane Sárközy de Nagy-Bócsa, più conosciuto come Nicolas Sarkozy, finalmente approdato - sia pure con la aperta contrarietà di Chirac - allo scranno di ministro degli interni su indicazione del nuovo primo ministro. Di lì a poco inizierà a rubare la scena, grazie anche alle continue apparizioni televisive, profuse a piene mani, e al ricorso continuo alla forza pubblica ad ogni stormir di foglie, soprattutto nelle banlieues o ai loro confini. E saranno proprio queste comparsate televisive a divenire casus belli di lì a qualche anno.
E che la situazione sociale e le spaccature si stiano aggravando enormemente lo prova il referendum sul progetto di Costituzione europea partorito dalla Convenzione presieduta proprio da un francese, da Valéry Giscard d'Estaing: referendum strenuamente voluto da Chirac nel tentativo di evitare, questa volta, la responsabilità di un ennesimo atto cesaristico di ratifica presidenziale. E invece andrà proprio male. Il 29 maggio 2005, con la partecipazione di oltre il 70% di francesi e in un clima incandescente, il 54% e passa degli elettori boccia «le Traité établissant une Constitution pour l'Europe». Di lì a poco segue in Olanda il no di un altro Referendum. È un colpo tremendo per il cammino dell'UE (mai assorbito del tutto). In Francia intanto la campana suona a morto per il governo Raffarin e indirettamente per lo stesso Chirac.
Subentra un nuovo governo guidato dall'eminenza grigia del presidente, ispiratore di tanti dei suoi passi, anche quelli fino ad allora disastrosi: Dominique Marie François René Galouzeau de Villepin, in breve Dominique de Villepin. Come ministro degli Interni viene riproposto l'ormai irrefrenabile Nicolas Sarkozy. Il malessere sociale testimoniato dal voto referendario soprattutto nelle periferie monta sempre più: le divisioni sociali si accrescono. Comportamenti della polizia, tensioni etniche e religiose, concentrazione di povertà ed emarginazione fanno il resto. 
Tocca proprio a Sarkozy accendere la miccia. Il 20 giugno 2005 un ragazzo è colpito da una pallottola vagante durante una sparatoria fra due gang rivali nella «Cité des 4.000», a La Courneuve. Nicolas Sarkozy accorre e dichiara di voler «nettoyer la cité au Kärcher», insomma ripulire il quartiere con la pompa idropulitrice ad alta pressione utilizzata dagli spazzini per i marciapiedi. Infausto, volgarissimo paragone replicato e peggiorato, se possibile, il 25 ottobre, ad Argenteuil, quando, con riferimento agli abitanti delle banlieues, usa la parola, «racaille», feccia. Naturalmente, attorniato da TV e media: «Non ne avete abbastanza di questa 'feccia'? On va vous en débarrasser, adesso ve ne sbarazziamo». Due giorni dopo, due adolescenti, Zyed Benna et Bouna Traoré, a  Clichy-Sous-Bois rimangono folgorati da una scarica di 20mila volt in una cabina della rete elettrica dove si sono rifugiati per sfuggire alla polizia che li stava inseguendo. 
È rivolta. A partire da   Clichy-Sous-Bois la 'feccia' insorge. Il moto si estende accanto a Montfermeil e ad altri centri del dipartimento Senna-Saint-Denis per poi dilagare in altre città: Rennes, Évreux, Rouen, Lilla, Valenciennes, Amiens, Digione, Tolosa, Pau, Marsiglia e Nizza. Durerà tre settimane circa: più di 10 mila le auto incendiate, 300 circa gli arresti. Emerge une autre France: ancor più divisa di quella effigiata dal voto referendario di qualche mese prima. 
Gran parte dei residenti di Clichy-sous-Bois e dintorni sono di prima o seconda generazione degli immigrati provenienti dalle vecchie colonie francesi. La metà circa abitanti h ameno di 25 anni. Qui risiede la più alta concentrazione di stranieri in tutta la Francia, circa il 30%: con il più alto tasso di disoccupazione, 30%, percentuale che sale al 50% tra i giovani. Di fatto queste periferie sono divenute ghetti pericolosi con tensioni religiose e etniche rispetto agli altri quartieri o alle altre cittadine. Sotto accusa i comportamenti delle forze dell'ordine sia nelle banlieues sia ai margini, magari in occasione dei controlli che provano ad arginare le ondate di giovani che nel fine settimana si riversano al centro della capitale o delle varie aree metropolitane.
Il muro che a lungo ha nascosto la realtà delle aree suburbane francesi è rotto per sempre. E Sarkozy è assunto come sommo emblema della chiusura delle istituzioni a istanze e bisogni di quest'altra Francia. Impersonifica ormai la rottura tra le due France e con il suo operato rende ancora più amaro l'abbandono di uno Chirac malato e assediato ormai dal sistema giudiziario. Con la sua rinuncia a concorrere alla possibilità di un terzo mandato, Monsieur Le President spiana però la strada proprio a lui, incoronato paradossalmente con una sorta di plebiscito dall'assemblea del partito neo-gollista UMP (Union pour le Mouvement Populaire), nato dalla fusione di RPR e UDF. Il 6 maggio 2007 diviene Presidente battendo la candidata socialista Ségolen Royal.

Attivissimo si produce in una serie di atti presidenziali che terremotano assetto ed equilibri tradizionali: promozione di donne e di esponenti socialisti al rango ministeriale o dirigenziale nel primo gabinetto Fillon, ricucitura strategica con gli USA dopo gli anni di distanza e freddezza di Chirac, proposte di riforma costituzionale, tentativo di rivedere tempi e parametri monetari imposti dai trattati di Maastricht ecc. Soprannominato «Supersarko» da amici e detrattori, prova anche a ritornare sull'eterna questione della riforma delle pensioni e della Sécu. Un primo tentativo del 2007 - teso ad allungare l'età pensionabile e a rivedere alcuni regimi speciali, soprattutto nei servizi pubblici - fallisce. Ne nasce uno sciopero clamoroso pari solo a quello del 1995 che aveva bloccato la riforma Chirac-Juppé: il tutto complicato dalla sopravvenienza della crisi finanziaria mondiale. Sarkozy ci riprova sulla revisione dell' età pensionabile e il passaggio dai 65 ai 67 anni per il conseguimento del trattamento pensionistico pieno, senza decurtazioni. È il 2010, con acque finanziarie meno agitate, e questa volta, con molta fatica, ha la meglio dopo uno sciopero generale defatigante e straordinari tumulti.

La sua figura ne esce però intaccata. Agli occhi di milioni di francesi, soprattutto nelle periferie o ai margini, impersonifica - e sullo scranno più alto - una Francia estranea, a volte nemica, armata di manganello e pronta ad impugnare la lancia del Kärcher. Si avvia così indebolito alla conclusione del suo primo mandato presidenziale. Nel 2012, al primo turno delle elezioni presidenziali - primo caso nella storia francese per un presidente uscente - esce sconfitto dal suo sfidante, il socialista François Hollande, dietro il quale arriva anche al secondo turno con il 48% circa dei voti rispetto al 51,6% raccolto dall'antagonista.   

S'apre un quinquennato molto meno sfolgorante, rispetto alle premesse e alle promesse di Sarkozy, ma non meno tumultuoso e problematico. La preoccupazione fondamentale di Hollande è quella di garantire ripresa economica ed occupazione, attraverso un'ampia riforma innanzitutto tesa a spostare il peso del prelievo fiscale sui redditi più alti, le grandi imprese e le grandi fortune. Altri capitoli una revisione di respiro ambientalista della politica energetica poggiata sul nucleare, un'ampia riforma del sistema dell'istruzione pubblica, un grande piano di lavori pubblici e di edilizia sociale. Rispetto al mondo del lavoro egli prova a riformare il mercato del lavoro, rivedendo profondamente in senso permissivo le norme su assunzioni e licenziamenti. Anch'egli si incaglia in una contestata riforma pensionistica tesa ad ammorbidire il deficit che minaccia il sistema previdenziale. La revisione però alla fine va in porto, sia pure tra varie vicessitudini, rivedendo le norme introdotte da Sarkozy in maniera più soft. Importanti i decisivi passi avanti compiuti nel campo dei diritti civili, con le scelte delle adozioni gay e con il cosiddetto «matrimonio per tutti». materie tutte contestate dagli ambienti più conservatori.

Col passare del tempo, però, varie scelte si riveleranno caduche, prive di ricadute concrete o magari annullate da sentenze della Corte costituzionale, come ad esempio nel caso della tassa straordinarie del 75% sui redditi più alti. Complice anche la crisi epocale in cui si contorce il sistema politico francese, particolarmente acuta a sinistra e nel campo del PS, cresce l'impopolarità sull'onda anche di campagne di stampa sull'incompetenza della nuova classe di governo. Ripetuti scandali di natura personale e coniugale, moltiplicati nei loro effetti dall'atroce stagione degli attentati terroristici del 2015-2016, lo conducono nel dicembre 2016 all'annuncio anticipato della rinuncia a presentarsi candidato alla scadenza elettorale del 2017.

Con Emmanuel Macron sale all'Eliseo - contro la candidata del Front National Marine Le Pen - l'ennesimo 'enarca': forse l'ultimo, visti i suoi propositi, annunciati nell'aprile 2021, di riformare l'ENA (École Normale d'Administration), fucina di quadri soprattutto della V Repubblica, magari per provare ad ammorbidire i tratti decisamente elitisti, quando non castali, attribuiti alla classe dirigente francese. Netto il cambio di passo rispetto al passato. Già socialista, fondatore successivamente, nella crisi ormai aperta del sistema politico transalpino, del movimento neoliberale La République En Marche, sceglie nettamente la «via europea» come unica possibilità aperta alla Francia innanzitutto per un ritorno alla «grandeur» di un tempo e per la riconquista di nuovi equilibri sociali. Rispetto ai suoi predecessori netta è la sua percezione dell'irreversibilità del processo di integrazione europea, a patto naturalmente di disincagliarlo decisamente dalle secche in cui è precipitato e di conquistare per la Francia un ruolo nettissimo di guida. E qui i problemi però diventano giganteschi. L'Europa non è più quella gollista a sei. E la PAC non può più esser volta a beneficio quasi esclusivo degli agricoltori francesi. L'ingresso dei paesi ad Est con le loro agricolture e le loro economie paradiso di delocalizzazioni ha creato nuovi equilibri: regioni svantaggiate, un tempo protette in paesi come Francia, Italia o Spagna, adesso si trovano sopra le medie comunitarie per tanti capitoli sociali, quali PAC o Fondo Sociale Europeo, e perciò deprivate ormai degli ombrelli protettivi di un tempo. La Brexit poi non ha facilitato le cose.

Può così accadere che i margini si rivelino alla fine straordinariamente stretti. Di qui lo scontro epocale sulla revisione prezzi dei prodotti petroliferi con la susseguente nascita dei movimento dei gilet-jaunes, di stampo neo-populista, con tanto di cahiers de doléances di gloriosa memoria e nouvelles jacqueries. O il doppio tentativo di riforma del sistema pensionistico: il primo nel 2019, poi bloccato dal Covid e il secondo andato in porto di recente, con uno strappo parlamentare e sull'onda di una dichiarazione di insostenibilità per un sistema che ha visto il rapporto tra lavoratori e pensionati passare dal 2,1 del 2000 all'1,7 del 2020.

La République macroniana, lungi dall'acquetarsi in un ritrovato cammino comunitario, si rivela scossa come non mai da un terremoto sociale permanente, con una Unione europea assediata dalla guerra in Ucraina e alle prese con una epocale rideterminazione di rapporti col mondo. Per la Francia naturalmente acuiti dagli scossoni provenienti da Territori d'Oltre Mare o dai paesi rimasti sotto la propria sfera di influenza, politica o monetaria.

L'ennesimo ammazzamento di adolescente ha infine scatenato ancora una volta le banlieues e la connessa repressione poliziesca su larghissima scala.  Ad essa Macron, nonostante i tanti proclami, non ha saputo sottrarsi. Due France inconciliabili si guatano in cagnesco, proprio come eternato 30 anni da Mathieu Kassovitz nella Haine. In tanti aguzzano la vista su queste jacqueries post-moderne, provando a penetrare oltre la coltre stesa dalle facili etichettature sulla «neoplebe».

È il caso invece di interrogarsi su ciò che in Francia appare estremizzato da una congiuntura particolarissima ma che è cronaca quotidiana in tutta Europa. Il neoliberismo tecnocratico che da tempo spadroneggia è divenuto, complice la crisi fiscale universale, incoronazione di un leaderismo corrosivo d'ogni sistema di protezione sociale. Una società sempre più ignuda si dibatte, sotto l'assedio di un immane rancore sociale, tramutando in distopia la realtà quotidiana di masse sempre più estese.

La Francia, affetta inguaribilmente da cesarismo congenito, ora ne è vittima. L'intera Europa, se persiste nel suo immobilismo, si sta affacciando su baratri similari.

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DALLE BANLEUES UN MONITO PER TUTTA LA UE

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DALLE BANLEUES UN MONITO PER TUTTA LA UE

(pubblicato sulla «Gazzetta del Mezzogiorno», 8 agosto 2023

La Francia nei giorni scorsi è stata sconvolta dalla rivolta delle banlieues. Da anni la cronaca di quel paese squaderna una scena sociale incandescente. Quando si è provato a rivedere i prezzi di benzina e derivati è stata jacquerie ed è nato il movimento dei gilet-jaunes, di stampo neo-populista: con tanto di cahiers de doléances di gloriosa memoria. Poi vi è stato il doppio tentativo di riforma del sistema pensionistico: il primo nel 2019, dapprima bloccato dal Covid; il secondo andato in porto di recente, con uno strappo parlamentare..

La République macroniana, lungi dall'acquetarsi in un ritrovato cammino comunitario, si rivela scossa come non mai da un terremoto sociale permanente, mentre l' Unione europea è assediata dalla guerra in Ucraina e alle prese con una epocale rideterminazione dei rapporti col mondo, dalla Cina agli USA. Come ne usciranno i fratelli transalpini? Assurdo pensare di rivolgersi indietro ai Trente Glorieuses, al benessere e alla crescita di un tempo, per rimpiangere quell'epoca e fantasticarne il ritorno. Da tempo siamo precipitati in un'altra età: quella dei Trente Piteuses analizzati anzitempo, già nel 1998, da Nicolas Baverez: la «Francia è oggi l'uomo malato di un'Europa decadente», in cui «la crisi economica si trasforma in crisi sociale e diviene infine crisi istituzionale».

L'ennesimo ammazzamento di adolescente ha infine scatenato ancora una volta le banlieues e la connessa repressione poliziesca su larghissima scala.  Ad essa Macron, nonostante i tanti proclami, non ha saputo sottrarsi. Due France inconciliabili si guatano in cagnesco, proprio come eternato 30 anni da Mathieu Kassovitz nel film La Haine. In tanti aguzzano la vista su queste jacqueries post-moderne, provando a penetrare oltre la coltre stesa dalle facili etichettature sulla «neoplebe».

È il caso invece di interrogarsi su ciò che in Francia appare estremizzato da una congiuntura particolarissima ma che è cronaca quotidiana in tutta Europa. Il neoliberismo tecnocratico che da tempo spadroneggia è divenuto, complice la crisi fiscale universale e la dissoluzione dei sistemi politici fondati sulla partecipazione di massa, incoronazione di un leaderismo corrosivo d'ogni sistema di protezione sociale. Una società sempre più ignuda si dibatte, sotto l'assedio di un immane rancore sociale, tramutando in distopia la realtà quotidiana di masse sempre più estese.

La Francia, affetta inguaribilmente da cesarismo congenito, ora ne è vittima. L'intera Europa, se persiste nel suo immobilismo, rischia non solo di affacciarsi su questi baratri.

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SOTTO L'URTO DELL'INTELLIGENZA ARTIFICIALE

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SOTTO L'URTO DELL'INTELLIGENZA ARTIFICIALE

(pubblicato su «Fuori Collana», 22/05/2023)

19 ottobre 1945: era ancora addensata sui cieli di Hiroshima e Nagasaki la caligine mortale sprigionata dalla fungaia d'agosto. All'altro capo del mondo Eric Arthur Blair - nom de plume George Orwell - provvedeva ad introdurci, dalle colonne di The Tribune, alle strutture e ai misteri dell'epoca avveniente. Come primo atto invitava ad archiviare l'età di «fucili, moschetti, archi e bombe a mano»: tutte «armi intrinsecamente democratiche». Hanno tenuto a battesimo «la grande era della democrazia e dell'autodeterminazione democratica». Ora con l'atomica tutto cambia: siamo all'«arma tirannica per eccellenza». D'ora in poi «solo tre Stati, in definitiva forse solo due, sono in grado di condurre una guerra su larga scala». Ormai «abbiamo davanti a noi la prospettiva di due o tre mostruosi super-stati, ciascuno in possesso di un'arma con cui milioni di persone possono essere spazzate via in pochi secondi, dividendo il mondo tra loro». In tale distopico futuro squadernato dal fungo atomico - e appena lambito magari agli occhi di Orwell da visionari quali Herbert George Welss o James Burnham - «poche persone hanno ancora preso in considerazione le sue implicazioni ideologiche: vale a dire, il tipo di visione del mondo, le credenze e la struttura sociale che probabilmente prevarrebbero in uno stato al tempo stesso invincibile e in uno stato permanente di 'guerra fredda' con i suoi vicini».

La seconda parte del Novecento, con gli incubi e i riti del bipolarismo, con crisi e conflitti devastanti attutiti e regolati dalla deterrenza,  è già tutta schizzata in queste poche righe. Di lì a poco, Orwell ne avrebbe perfezionato la visione nella magistrale distopia di 1984 e nel versetto fondativo del 'bi-pensiero' - «La guerra è pace» - effigiato sulla facciata del «Ministero della Verità».

Per decenni la cappa della deterrenza atomica ha ingabbiato il mondo con i suoi comandamenti. Dapprima anche in forme ed esiti sorprendenti. Come dimenticare i decenni della crescita sospinti paradossalmente dall'opulenza del «burro e cannoni», di sviluppo e welfare alimentati anche dalla cornucopia del «keynesismo militare» , con la spirale di spese per armamenti in continua crescita, contraddittorie portatrici di sviluppo e prosperità?

Non a caso il Novecento, come «secolo breve», termina con lo sfaldarsi del bipolarismo: caduta del Muro e collasso dell' URSS. In verità già prima il duo Keynes-Kennan - la doppia 'K' dei Trente Glorieuses, con la loro doppia 'C' di «consumo» e «contenimento» - aveva cessato la sua influenza benefica. Da tempo la Big Science nata con l'atomica e il Progetto Manhattan, aveva preso a sospingere il mondo per altri sentieri. Messa in moto ancora dalla fondamentale «mano pubblica» s'avventura ora per le vie ardite magari della «conquista della Luna» o per quelle più accidentate delle reaganiane «guerre stellari» o ancora nella epocale invenzione, ad opera della statunitense Darpa, di una rete di comunicazione «senza centro», Internet, capace di funzionare anche dopo la distruzione per mano nemica di nodi fondamentali. A dirigerla in concreto stanno però ora le ibride e complesse geometrie della regolazione neoliberale incarnata dalla mutazione del governo in governance: in luogo del 'centro' di un tempo, formalmente e gerarchicamente deputato all'esercizio del potere,  ora maglie transnazionali,  variamente intessute di pubblico e privato, indirizzano, controllano ed esercitano la sovranità. Per ondate successive nuove stagioni di innovazione tecnologica hanno iniziato a sommergerci, scomponendo il mondo e l'umanità in filamenti di DNA e sequenze di bit. A far tappa epocale l'avvento di straordinarie forme di comunicazione planetaria. Il mondo intero, compresso su schermi sempre più piccoli, ora viene letteralmente portato nelle tasche dei viandanti del XXI secolo.

Quasi parallelamente alle distopiche narrazioni di Orwell, altri ammonimenti si levavano dall'Inghilterra del secondo dopoguerra. A pronunciarli, e indirizzarli soprattutto nei confronti degli europei, era Arnold Joseph Toynbee: adesso è proprio il Vecchio Continente a «subire la lezione che attorno al 1500 ha iniziato a impartire al mondo». Ora è soprattutto l'Europa a «trovarsi minimizzata in confronto al mondo d'oltremare da essa stessa chiamato alla esistenza nella storia». La durevole spinta dell'epocale vittoria sul nazifascismo in realtà tiene a battesimo quella che Hedley Bull battezzerà «la rivolta contro l’Occidente». È iniziata l’età della decolonizzazione prolungatasi per taluni aspetti sin sulla soglia del Terzo Millennio, sino a quel 30 giugno 1997 che, con la restituzione di Hong Kong alla Cina, lascia ormai solo su granelli di Terra l’etichetta di colonia. Lo smantellamento dei grandi imperi europei stravolge la struttura profonda del mondo. Geoffrey Barraclough ricorderà che tra «il 1945 e il 1960 si rivoltarono al colonialismo e conquistarono l'indipendenza non meno di quaranta paesi, con una popolazione di 800 milioni, più di un quarto della popolazione mondiale. Non era successo mai, durante tutta la storia dell’umanità, un rovesciamento così rivoluzionario in un tempo così breve». Nel 1955 a Bandung i rappresentanti del cosiddetto Terzo Mondo impugneranno le Carte delle Nazioni Unite e dei Diritti Universali contro quelle nazioni e potenze attestate ancora in difesa di vecchie conquiste imperialistiche e nuove forme di sfruttamento. La principale creatura della II guerra mondiale, l’ONU, si trasforma sotto quell’urto prolungato, fino a divenire assemblea dominata a stragrande maggioranza da ex possedimenti coloniali: di lì lo sconvolgendo la struttura oligarchica dell’organizzazione e causandone così, fondamentalmente, la crisi..

Con straordinaria efficacia Hobsbawm ha riassunto questo complessivo, epocale mutamento sottolineando come sia divenuto «sempre più chiaro nella seconda metà del secolo breve che il Primo Mondo può vincere battaglie, ma non guerre contro il Terzo Mondo». Il primo ventennio del XXI secolo ha suonato conferma di questi assunti e le geometrie rivelate dal disporsi delle varie potenze mondiali rispetto alla guerra in corso contro l'Ucraina rivela quanto pesi l'isolamento Occidentale e come e quanto sia stata ridisegnata nel mondo l'egemonia a stelle e strisce: specie dopo Trump e il precipitoso ritiro dall'Afghanistan. Inediti equilibri si ridisegnano attorno alla nuova Via della Seta intessuta dall'autocrazia cinese mentre l'incerto cammino europeo, ulteriormente azzoppato dalla Brexit, rivela come e quanto Putin puntasse a capitalizzare su queste defaillances.

A dispetto però di queste profonde fratture, la nostra frequentazione della globalizzazione ci rivela che la storica «grande divergenza» segnalata da Kenneth Pomeranz sotto gli effetti della rivoluzione industriale si è venuta ricomponendo in una «grande convergenza», in un riequilibrio epocale di ragioni di scambio e di vita. A partire dalla fine degli anni Settanta la straordinaria crescita demografica del pianeta - dai 2,5 miliardi del 1950 agli 8 dei nostri giorni - si è accompagnata al riequilibrio delle ragioni di scambio e produzione sul pianeta: grazie soprattutto agli straordinari processi di delocalizzazione attivati dalle transnazionali e all'apertura all'investimento estero praticata dalle autocrazie, l'industria ha visto gli addetti di Giappone e paesi occidentali scendere dal 65% del 1970 all'attuale 27%. A crescere le Tigri asiatiche assieme ai giganti di India e Cina.

A guardar bene, però, è in altri segni, in altre manifestazioni che risiede una sorta di unificazione del mondo, più sottile, resistente allo sguardo, straordinariamente ambigua nelle sue manifestazioni. La «folla solitaria» che David Riesman nel 1950 vedeva agitarsi per le streets e avenues di New York o Chicago, con il suo individuo massificato, eterodiretto, 'conformato' ai gusti e alle mode del suo gruppo di riferimento, solo e disarmato nella moltitudine che agitava marciapiedi e mercati, non è più nel Terzo Millennio un segno distintivo della civiltà occidentale. Ansiosa, inquieta, irrefrenabile agita e rimescola spazi e tempi di quel 60% dell'umanità che ormai vive, ai quattro angoli del mondo, nelle megalopoli del pianeta, nelle sue megacities. Bulimica di vita e consumi allunga la sua giornata sempre più nella notte, mercificando oltre misura desideri e bisogni, a discapito magari di una accettabile socialità: il risultato è che oltre un miliardo di persone vive ormai in slums e che le aree urbane del pianeta sono costrette a fare i conti con crimine, traffico congestionatissimo, carenza di case, inquinamento, approvvigionamento energetico quando non d'acqua potabile ecc.

Il «tempo è denaro» diceva Max Weber in un'altra età con riferimento a quei tratti culturali del protestantesimo che egli vedeva come molla spirituale del capitalismo. Dov'è che questa massima non è divenuta molla quotidiana dell'agire ad ogni latitudine e per ogni cultura della Terra?

Viviamo davvero un mondo in via di de-occidentalizzazione? Oppure - a dispetto di sushi e ideogrammi dilaganti giorno e notte - stiamo facendo i conti con una occidentalizzazione perversa, con dicotomie che non spaccano il mondo per aree di influenza o dominio, ma provvedono ad ogni latitudine a segmentare l'umanità e spesso in campi contrapposti. Già molto tempo fa, Zbignew Brzezinski - l'inesausto organizzatore della Trilateral Commission, il forum per eccellenza dell'occidentalismo illuminato - aveva visto avanzare una «potenziale dicotomia nella visione mondiale e nell’identità umana che non solo non ha precedenti, ma che si pone in netto, paradossale conflitto con la compressione di spazio e tempo tipica della nostra epoca». Ora essa diviene lacerazione nella struttura della vita, nella e della umanità: «da una parte c’è chi sarà sempre più in grado di sfruttare i maggiori poteri dell’umanità di gratificarsi e di manipolarsi, dall’altra quelli per cui la vita resterà soprattutto una lotta per la sopravvivenza in un mondo essenzialmente minaccioso». Per vie assai simili ma da altro angolo visuale Alexander Zinov’ev è approdato ad una identica sottolineatura del primato occidentale e delle sue conseguenze. Come elemento distintivo del processo egli ha individuato una grande rupture, una «grande frattura», non più solo nella struttura sociale ed economica del mondo, ma nello stesso «processo dell’evoluzione»: nel corso della seconda metà del Novecento, «il processo di evoluzione incontrollato ha lasciato il posto ad una evoluzione progettata e diretta». L’Occidente, a partire dal predominio esercitato grazie a leve finanziarie, militari, mediatiche, culturali, si è costituito in «sovrastruttura» dell’umanità, capace di definire in alcune sue componenti, centrate sugli USA, «obiettivi relativi all’evoluzione umana in sé e su scala globale e di sviluppare piani per conseguirli». È questa “«sovrastruttura» che, coinvolgendo le élites del Sud e dell’Est, è in grado di esercitare l’egemonia sul mondo intero, fino a determinare le forme globali di aggregazione e vita. In stridente contrasto con l’ideale, con la parola d’ordine che sospinge l’intero processo – la più occidentale delle idee, ovvero l’«unificazione del genere umano in comunità» – la globalizzazione approda alla costituzione dell’«umanaio globale»: una sorta di formicaio costruito non attorno alla cooperazione degli «uomini formica», ma «attorno ad una lotta surrettizia e contenuta, ma nello stesso tempo ostentata e incoraggiata da tutte le conquiste della civiltà». L’«insocievole socievolezza degli uomini», che Immanuel Kant poneva a cardine e motore della società civile e dei suoi esiti cosmopolitici, è pervertita, nella visione di Zinov’ev, nel brulichio indistinto dell’individuo consumatore, «nella lotta senza quartiere degli uomini formica», dominata dalla competizione totale, dalla convinzione per cui «una società di nemici che rispettano le regole dell’inimicizia è più stabile di una società di amici che violano le regole dell’amicizia».

A esito paradossale di questi processi, perennemente sospesi nel chiacchiericcio debordante che ci isola sempre più nel maneggio quotidiano di tastiere e telecamere, è qui in Occidente che siamo costretti a constatazioni sempre più amare. Il «capitalismo cannibale» intravisto da Nancy Fraser come motore primo della globalizzazione neoliberale - «programmato per divorare le basi sociali, politiche e naturali della propria esistenza ... sempre più intento a espellere miliardi di persone dall'economia ufficiale verso zone grigie di lavoro informale» - produce proprio nelle culle originarie che lo hanno tenuto a battesimo i suoi effetti più deleteri. Si pensi agli USA: l'egemonia indiscussa conquistata nell'elettronica e nel digitale mondiali si è tramutato nel declino di interi ceti, lavorazioni e comunità, dando vita a quella che Giuseppe Maione ha bollato come una «forma tossica di polarizzazione politica» alimentata soprattutto dal degrado del lavoro: oggi, in luogo della stabilità della catena di montaggio di un tempo e dei suoi salari, imperversano burg-flipper (gira-hamburger) e stock replenishers, magazzinieri, postini, personale di pulizia, gig-work e clic-work (impiego occasionale di persone, però, il più delle volta dotati di bachelor degree, l'equivalente delle nostre lauree triennali). Ed è in queste aree che prevale l'ansia per il futuro, arroccamento, separazione, richiesta di protezione.

In Europa i processi non sono meno divisivi né meno accentuati tramonto e declino della partecipazione politica. Qui oggi sperimentiamo con particolare acutezza - ma senza mai farne veramente  tesoro - una antica lezione di Toynbee:  prima di altri abbiamo compreso che «lo stato nazionale europeo ... è un recipiente di gran lunga troppo piccolo e fragile per contenere le forze di industrialismo e democrazia. Quei vini nuovi sono stati versati e rinchiusi in bottiglie vecchie, e dunque le hanno fate scoppiare senza rimedio. A noi oggi riesce difficilmente concepibile che a costituire l'unità effettiva minima finale del sistema industriale  non siano almeno l'intera superficie utilizzabile del pianeta e tutta l'umanità. E, parimenti, sul piano politico, l'unità minima mostra oggi una tendenza ad aumentare le sue proporzioni, in accordo con l'estensione a raggio mondiale dell'attività industriale». L'incerto, claudicante cammino dell'Unione Europea testimonia con assoluta evidenza l'incapacità del Vecchio Continente a mettere davvero a frutto quanto appreso dalla storia. Il risultato è l'anomia, la crisi sempre più accentuata di istituzioni democratiche galleggianti in uno spazio pubblico invaso da nuove, tribali forme di comunicazione, con conflitti sociali che smarriscono i loro tratti collettivi, stravolgendo struttura e forma della società europea.

Sono questi i risultati paradossali di quella ormai trentennale terapia impartita al mondo dall'utopia tecnocratica delle nuove oligarchie, dei nuovi padroni dell'universo. Per Andrè Gorz si è trattato di un progetto inquietante ormai divenuto realtà amara con cui provare davvero a fare i conti: «la scienza realizza il suo progetto originario, si emancipa dal genere umano». Riecheggiando Vico, Aldo Schiavone ha intravisto in questa complessiva occidentalizzazione del mondo il coronamento di un sogno antico: l'uomo che «fa sé regola dell'universo».

Con «il passaggio nel controllo evolutivo della specie dalla natura alla mente», l’uomo di Terzo Millennio starebbe costruendo un mondo integralmente prodotto dalla propria cultura.

Oggi simili constatazioni sulle soglie raggiunte dall'umana avventura producono allarmi straordinari. Già Putin da un anno e passa ormai ci richiama a considerazioni più meste ed allarmate su questo controllo assoluto dell'uomo sul globo: non passa giorno dell'avventura ucraina che non sia punteggiato da annunci più o meno fatali sull'utilizzo dell'arma finale, sulla possibile estinzione dell'umanità per decisione di un qualche Sapiens. Alle news però dai campi di battaglia si sono da ultimo aggiunte le grida provenienti da ambienti in genere dediti ad occupazioni più soft e disincantate. È il turno, ad esempio, di Yuval Noah Harari, uno degli storici più celebrati ed ascoltati dei nostri giorni.

Da tempo il suo sguardo si è soffermato sui rischi e i pericoli riservati dai più osannati ritrovati della rivoluzione scientifica e tecnologica: in breve tempo potrebbero «estromettere miliardi di esseri umani dal mercato del lavoro, e creare una nuova, enorme classe di individui inutili, provocando sovvertimenti sociali e politici per i quali non esiste ideologia capace di controllarne le conseguenze». Oggi, di fronte all'immenso potere distruttivo celato nei meandri della nostra civiltà non «possiamo permetterci altri modelli fallimentari guerre mondiali e sanguinose rivoluzioni ... potrebbero risolversi in guerre nucleari, mostruosità geneticamente ingegnerizzate e il collasso della biosfera».

Nei giorni scorsi però il suo sguardo si è soffermato su uno dei ritrovati che ci ha fatto strabuzzare occhi e cervello: ChatGPT, quella diavoleria, quell'ultimo ritrovato dell'intelligenza artificiale piombato sulle nostre scrivanie e nei nostro smartphone, con il suo sinuante invito ad entrare in conversazione ed ascolto. Stupefatti abbiamo fatto qualche prova e siamo restati affascinati quando non letteralmente basiti. Abbiamo così anche appreso quasi immediatamente che è divenuto popolarissimo tra gli studenti, anche giovanissimi, e strumento di utilizzo immediato per la produzione di filmati, musiche, insomma nelle forme più larghe ed usuali di interazione umana.

Ed è a questo proposito che Harari ha scritto un allarmato saggio sulle colonne dell'«Economist». Egli si è e ci ha chiesto: «cosa accadrebbe una volta che un'intelligenza non umana diventa migliore dell'umano medio nel raccontare storie, comporre melodie, disegnare immagini e scrivere leggi e scritture»? Più che al mondo scolastico, musicale o cinematografico la domanda era immediatamente posta in relazione a prossimi, decisivi appuntamenti politici e istituzionali: magari la prossima corsa presidenziale americane nell'ormai vicinissimo 2024. Quale « l'impatto degli strumenti di intelligenza artificiale, AI, che possono essere realizzati per produrre in massa contenuti politici, notizie false e scritture per nuovi culti»? Di fatto l'AI è uscita dai laboratori per dilagare e coinvolgere milioni di persone in relazioni dirette, di fatto intime. Ma oggi, constata Harari, «in una battaglia politica per le menti e i cuori, l'intimità è l'arma più efficace». Ed allora cosa accade « alla società umana e alla psicologia umana mentre l'AI combatte un'altra AI in una battaglia per fingere relazioni intime con noi, che possono quindi essere utilizzate per convincerci a votare per determinati politici o acquistare determinati prodotti»? Cosa accadrà al corso della storia quando, incalza Harari,  «l'intelligenza artificiale prenderà il sopravvento sulla cultura e comincerà a produrre storie, melodie, leggi e religioni? Strumenti precedenti come la stampa e la radio hanno contribuito a diffondere le idee culturali degli esseri umani, ma non hanno mai creato nuove idee culturali proprie. L'AI è fondamentalmente diversa ...  può creare idee completamente nuove, una cultura completamente nuova».

Allarmi simili sono venuti da più parti, persino da personaggi quali Elon Musk,  che di questi sviluppi ultimi di scienza e tecnologia è uno dei diretti responsabili, o Henry Kissinger, addirittura, uno dei facitori del mondo che abitiamo. Da tempo ha preso a interrogarsi su questi nuovi orizzonti e a collaborare con quanti provano a evitare disastri. Suo l'interrogativo: cosa accade nel caso in cui «in una possibile situazione in tempo di guerra, l'intelligenza artificiale raccomandi di agire in un dato modo, considerato tremendamente poco saggio dal presidente e dai suoi consiglieri»?  Grandi orizzonti nella risposta: «fare con l'intelligenza artificiale quanto fatto con le armi nucleari: richiamare l'attenzione generale sull'impatto di questa nuova evoluzione».

Parecchio più meditati e promettenti magari i richiami di scienziati e tecnici da tempo immersi direttamente in ricerche sul campo. A tratto comune di tutte le denunce l'appello al controllo, ma soprattutto all' eguaglianza, alla necessità di garantire a tutti accesso e condizioni paritarie e chiare di utilizzo. Soprattutto di fronte al rischio che ad avvantaggiarsi di simili ritrovati siano regimi autocratici: le notizie dall'estremo oriente non sono confortanti in proposito. Lì la corsa è già iniziata sia pur rallentata dalla morsa di censura e controllo dall'alto.

A mettere urgenza -  al di là di stucchevoli interrogativi sulla reale natura di strumenti quali ChatGPT in rapporto all'intelligenza umana - è la natura della posta in gioco. È sempre Harari a rilanciare: «le armi nucleari non possono inventare armi nucleari più potenti. AI può rendere esponenzialmente più potente AI. Abbiamo appena incontrato un'intelligenza aliena, qui sulla Terra. Non ne sappiamo molto, tranne che potrebbe distruggere la nostra civiltà. Dovremmo porre fine all'utilizzo irresponsabile degli strumenti di intelligenza artificiale nella sfera pubblica e regolamentare l'AI prima che sia lei a regolare noi».

Sotto l'urto di queste epocali innovazioni l'eguaglianza cessa di essere un'aspirazione, un sogno o una cappa, secondo i vari punti di vista. Ora diventa un bisogno, il primo bisogno. Per non perdere il controllo.

P. S. Seguendo sempre i consigli di Harari, meglio precisare. Questo testo è il prodotto di un umano. Segue firma autentica non prodotta artificialmente

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INTELLIGENZA ARTIFICIALE: I NODI IRRISOLTI

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Intelligenza artificiale: i nodi irrisolti

(pubblicato sulla «Gazzetta del mezzogiorno», 11 maggio 2023)

Tempo fa Alexander Zinov’ev - autore del famoso Cime abissali - elaborò una paradossale analisi del primato occidentale e delle sue conseguenze. Ai suoi occhi la globalizzazione, piuttosto che realizzare  l’«unificazione del genere umano»,  produceva l’«umanaio globale». Egli vedeva l’«insocievole socievolezza degli uomini», posta da Kant a cardine e motore della società civile, divenire brulichio indistinto dell’individuo consumatore. Il tutto «in una lotta senza quartiere degli uomini formica», dominata dalla competizione totale, dalla convinzione per cui «una società di nemici che rispettano le regole dell’inimicizia è più stabile di una società di amici che violano le regole dell’amicizia».

Su altri versanti Andrè Gorz, noto filosofo francese, intravedeva da tempo una amara realtà: «la scienza realizza il suo progetto originario, si emancipa dal genere umano».

Oggi simili constatazioni sull'umana avventura producono allarmi straordinari. Tralasciando per un momento Putin e i suoi moniti sull'imminenza di soglie fatali, conviene prestare attenzione a Yuval Noah Harari, uno degli storici più celebrati ed ascoltati dei nostri giorni.

Da tempo egli riflette sui rischi e i pericoli della rivoluzione scientifica e tecnologica in corso. Nei giorni scorsi il suo sguardo si è soffermato su uno dei ritrovati che ci ha fatto strabuzzare occhi e cervello: ChatGPT, quella diavoleria dell'intelligenza artificiale, AI, piombata sulle nostre scrivanie e nei nostri smartphone, con il suo insinuante invito ad entrare in conversazione ed ascolto. Nel merito, si è e ci ha chiesto: «cosa accadrà quando un'intelligenza non umana diventa migliore dell'umano medio nel raccontare storie, comporre melodie, disegnare immagini e scrivere leggi e scritture»? Cosa accadrà  magari nel 2024, nell'ormai prossima corsa presidenziale americana, con il sicuro ricorso all'AI? Quale il suo impatto per «produrre in massa contenuti politici, notizie false e scritture per nuovi culti», dal momento che «in una battaglia politica per le menti e i cuori, l'intimità, il rapporto diretto diviene l'arma più efficace»?

Allarmi simili sono venuti da più parti: ad esempio, Elon Musk o Henry Kissinger, insomma alcuni dei costruttori del nostro mondo. Di quest'ultimo l'interrogativo: cosa accadrà «in tempo di guerra, se l'intelligenza artificiale raccomanda di agire in un dato modo, considerato magari poco saggio dal presidente e dai suoi consiglieri»? 

Meglio non interrogarsi sul ricorso a simili strumenti per la politica e le istituzioni italiane mentre vengono avanzate ricette quotidiane sempre più personalistiche. Preferibile ascoltare Harari: «Abbiamo appena incontrato un'intelligenza aliena, qui sulla Terra. Non ne sappiamo molto, tranne che potrebbe distruggere la nostra civiltà. Proviamo a regolamentare l'AI prima che sia lei a regolare noi».

P. S. Seguendo sempre i consigli di Harari, meglio precisare. Questo testo è il prodotto di un umano. Segue firma autentica non prodotta artificialmente

Isidoro Davide Mortellaro

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L'ITALIA E L'EUROPA: PRIMA E DOPO MAASTRICHT

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L'ITALIA E L'EUROPA: PRIMA E DOPO MAASTRICHT

(pubblicato su «Fuori Collana», 26 aprile 2023)

Assai prezioso e utile questo documentatissimo intervento di Gaetano Bucci su «Le trasformazioni dello Stato e dell'UE nella crisi della globalizzazione», pubblicato da Editoriale Scientifica. Al suo centro la «tavola di valori supremi» che per decenni come Costituzione, Carta Fondamentale, ha alimentato la vita della Repubblica, fungendo da stella polare, bussola della vita di partiti e soggetti sociali e politici: orizzonte insomma di un cambiamento possibile ed auspicabile. Al suo centro, innanzitutto, la rottura impressa dalla Costituente, originata dalla Resistenza e dall'antifascismo, a quell'universo del formalismo giuridico che, in nome di una pretesa neutralità del diritto, aveva alimentato le varie declinazioni del liberalesimo, fino alla legittimazione dello Stato totalitario. Di qui, il ruolo assolutamente centrale assegnato allo Stato,  alla rete complessiva delle istituzioni, come attori di una trasformazione tesa a rimodellare il complesso dei rapporti economici, sociali e politici per rimuovere gli «ostacoli » che «impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Assai puntuale nel breve ma documentatissimo saggio la ricostruzione degli anni d'oro del «miracolo italiano» e del ruolo allora giocato da partiti e movimenti di massa, soprattutto nella riconversione della possente macchina dell'intervento pubblico in economia ereditato dal fascismo. Essa venne rimodellata infine, sotto l'urto anche di opposti e contrapposti sistemi e universi valoriali, come rete di un capitalismo keynesiano divenuto possente servosterzo di una larghissima, sia pur tardiva, «americanizzazione» di consumi e culture. Di fatto, fu questa la seconda gamba che, assieme alla inarrestabile scelta per la Comunità Economica Europa e alla sua sapiente comunitarizzazione degli scambi, portò ad una epocale modernizzazione del paese, culla di quella straordinaria mobilitazione sociale e politica chiamata «Sessantotto». Anche questa svolta, assieme ai frutti di quell'irripetibile stagione di mobilitazione politica e riformismo istituzionale,  viene accuratamente dissezionata. Seguono gli anni della svolta: collasso del sistema di Bretton Woods, crisi petrolifera e climatica, avvento della lunga stagione neoliberista.

Qui le varie fasi e stagioni vengono accuratamente dissezionate nei loro principali caposaldi e assunti ideologici, grazie soprattutto ad un vastissimo apparato bibliografico. E così vengono richiamate le varie teorizzazioni della Trilateral o di Mont Pelerin. Scorrono figure limpide, quali quelle di Guido Carli e dell'apparato di Bankitalia, oppure decisamente più oscure e inquietanti: è il caso di Gelli e della complessa macchina della P2. Più lontani, quasi da sfondo sfocato, rimangono grandi rivolgimenti. La svolta dell'89 con la caduta dell'URSS, la fine della cosiddetta Prima Repubblica fanno da fondali di una scena su cui cala una lente forse troppo concentrata a illimpidire la vicenda nazionale italiana. E così buona parte dell'attenzione è per le ricadute di scelte maturate tutte quasi come rivolgimenti culturali e ideologici di élites dimentiche o vogliose di liberarsi delle vesti o armature tradizionali. È l'ora di Maastricht e della scelta costituzionale lì adottata per la nuova Unione Europea, foriera dei rivolgimenti epocali lì adottati rispetto al nuovo ruolo assegnato alla moneta in rapporto alla politica e alle istituzioni comuni.

Uno sguardo più largo, alle vicende complessive che segnavano quel trapasso di secolo - prima tra tutte il ritorno della guerra, con il ridisegno ad esempio di ambiti e compiti della Nato - avrebbe forse aiutato nell'inquadrare meglio quell'atto di nascita e le sue debolezze intrinseche, quelle falle che oggi - all'indomani di crisi devastanti quali quella del Covid e dell'aggressione all'Ucraina - ci costringono seriamente ad interrogarci sul futuro dell'Unione europea.

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SCRUTANDO NELLA NOTTE

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Scrutando nella notte

(pubblicato su «Pagina 21» il 22 dicembre 2022)

S’avvicina il passaggio d’anno. E non sono molte le speranze che l’avvio del 2023 si stacchi molto dalla chiusa sanguinolenta e marcescente di questo 2022. Anzi.

Eravamo abituati ad un trascorrere del tempo ritagliato su misura del nostro vissuto, di credenze e visioni alimentate dal nostro sguardo. Al massimo ci si spingeva alla dimensione del secolo, forti del nostro abituale dominio sul mondo di Europei, Occidentali. E giù allora con la litania dei secoli con cui abbiamo tenuto a battesimo il trascorrere del tempo: Medioevo, Modernità, Barocco, Illuminismo ecc…

In piena globalizzazione, più o meno neoliberista, Putin ha evocato infine lo sdoganamento possibile in Ucraina dell’arma finale, l’atomica più o meno tattica, scacciandola da quel comodo serraglio in cui la guerra fredda l’aveva rinchiusa grazie alle ferree leggi della deterrenza: accumulane tante, ma tienile ben strette. Valgono solo come minacciapena l’Olocausto finale. Ora invece, a partire dall’alba fatale del 24 febbraio ogni mossa, anche quella più naturale e obbligata a favore di un popolo martoriato quotidianamente, deve essere vagliata e interrogata. E se poi scatena…?

È notte piena sul mondo. Dall’Ucraina all’Iran, Il tutto dilatato in interrogativi a dimensione di millennio. Isaia, però, non ci dà risposte rassicuranti con il suo versetto biblico e la sua sentinella. Né possono rallegrarci le volute fantastiche della «Notte stellata» di Vincent Van Gogh. Quei gorghi si spalancarono luminescenti agli occhi del pittore dalla finestra della clinica per alienati mentali di Saint-Rémy-de-Provence. L’anno seguente si sarebbe suicidato con un colpo alla testa.

È un globo anch’esso straniato quello che ci circonda nell’ingresso in un’altra età. Per orizzontarci abbiamo bisogno di altri compassi, di un altro metro, di un’altra geometria. Magari non euclidea, non più piana, capace di guidarci in nuovi meandri, in nuove volute. Ci muoviamo ormai in un mondo post-statuale, in cui popoli, élites ed oligarchie provano, spesso invano, a ricontrollare il proprio ambito vitale, a riconquistare sovranità, magari rimescolando in formule inedite regioni, nazioni ed entità sovranazionali. Le formule di un tempo non soccorrono più né è possibile riconoscersi negli stendardi e nelle bandiere abituali. E se da un lato tempo e spazio si dilatano incontrollati, sia pure racchiusi nello smarphone che ognuno di noi porta in tasca, progressivamente si sentiamo togliere il respiro come topolini rinchiusi nella scatola di un qualche esperimento allestito dallo stregone di turno, lanciati magari in rincorse e scontri sempre più parossistici. Istituzioni e politica suonano al nostro orecchio come un accavallarsi di voci cacofonico, sempre più rattrappito nell’urlo monocorde di un sordo rancore sociale.

Sotto questo profilo, appare quanto mai istruttivo il laboratorio italiano. Come sempre, il Belpaese ha rivelato proprietà e capacità anticipatrici rispetto al Vecchio Continentee ad ogni sua realtà nazionale. È sulle nostre rive che i comandamenti del sovranazionale, della nuova Unione Europea, quella congerie di direttive e regolazioni riassunta sotto il termine onnicomprensivo austerità, hanno saputo produrre mutamenti rapidissimi quanto radicali del sistema politico. Sotto quella sferza, prima che in qualsiasi altro paese europeo, la nostra giovane Repubblica si è avventurata per una precoce quanto precaria e ininterrotta metamorfosi dei propri assetti istituzionali e politici.

Come dimenticare che all’indomani dell’ingresso nel XXI secolo, in meno di un ventennio abbiamo già accumulato più o meno infruttuosamente quattro tentativi di riforma costituzionale. Come non sottolineare soprattutto come questi complessivi mutamenti, accumulati nell’ultimo ventennio, non abbiano affatto prodotto stabilità. Tutt’altro: sono oggi tutti materia incandescente di un confronto politico e istituzionale che sta impegnando severamente, e per alcuni aspetti corrodendo, le residue energie politiche e istituzionali di un paese giunto a livelli di sfiducia e astensionismo politico finora impensabili.

Di qui il bisogno di capire, scavare nel profondo…


Per chi vuole approfondire
Isidoro Davide Mortellaro, A che punto è la notte?, edizioni la meridiana

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STORIA E GUERRA AL GALOPPO

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Storia e guerra al galoppo

(pubblicato su «Fuori collana» il 21 dicembre 2022)

Scartabellato e letto tutto d'un fiato, il volumetto “La pace è finita” solleva tanti, troppi interrogativi. Colpisce l'assenza assoluta di alcuni termini: computer, televisione, informazione, internet. Ma anche spazio, petrolio, DNA, religione. Di quale mondo parla la geopolitica di Lucio Caracciolo?

Singolare quest’ultimo libro di Lucio Caracciolo. Limpidissimo nelle sue premesse. Fin dal titolo, magari un po’ scontato: «La pace è finita». È nel sottotitolo però la chiave del volume. Si inizia riecheggiando – ma per respingerla – l’illusione di Francis Fukuyama, «Così ricomincia la storia», ma poi si approda al più sicuro – almeno per l’autore – dei lidi. A rinverdire i fasti di una geopolitica che più classica non si può: «in Europa». Il vecchio continente, il centro del mondo di un tempo, torna ad essere così la stella polare, l’asse di una ruota con pochi, essenziali raggi. Pochi ma tutti bisognosi di una decodifica storico-politica capace di liberarli del carapace depositato dall’ultimo mezzo secolo di storia.

Tenere i Russi fuori, gli Americani dentro e i Tedeschi sotto

Di lì solo può ripartire hegelianamente – ovviamente nella rilettura fornita da Alexandre Kojève – il cammino del mondo, a patto però di liberarlo delle troppe rivisitazioni o falsificazioni depositate nel tempo. Magari da quella vera e propria «antistoria» presentata come religione, sogno, regolo della vita futura: gli Stati Uniti d’Europa. Ora immaginati da qualche algido, aristocratico mentore: uno su tutti Richard Coudenhove-Kalergi. O magari da democratici antifascisti sepolti a Ventotene. Una “antistoria”, secondo Caracciolo, che non a caso alimenta ancora col verbo europeista la zoppicante parabola dell’Unione Europea, tuttora incapace di farsi soggetto politico, reale attore globale. Specie ora che i venti di guerra la sfidano direttamente.
Ancor più necessario per Caracciolo liberarsi di quell’«Antieuropa» costruita dall’«amico americano» per cullare nelle coltri dell’atlantismo quel particolare «europeismo a stelle e strisce» in cui il Vecchio Continente viene dimidiato ad ancella di giochi planetari. Operazione di disvelamento ancor più fondamentale per cogliere la vera essenza dell’«Antieuropa» americana: il suo tratto decisamente «anti-tedesco», depositato non a caso al cuore dell’Alleanza Atlantica come segreto e disvelato a limpide lettere dal primo segretario generale della Nato, lord Ismay: «tenere i Russi fuori, gli Americani dentro e i Tedeschi sotto».
«Storia e geopolitica», ma ammantate di guerra, non promettono nulla di buono. Meglio prepararsi al peggio, guardando con attenzione naturalmente ai cantoni dove s’addensano «gli incroci diretti o per procura tra le maggiori potenze ai margini della massa eurasiatica»: si chiamino essi Ucraina o Taiwan. Lì stanno i giochi assoluti tra USA, Cina e Russia. Lì si rischia davvero di perder la testa e il bandolo della matassa.
Scartabellato e letto d’un fiato, il volumetto solleva tanti, troppi interrogativi. Ma davvero c’era bisogno della svolta del «24 febbraio 2022» per denudare la magagna ideologica di Francis Fukuyama? Non s’era immediatamente strappato il velo della Pax Americana? Non si era subito rivelato particolarmente stonato quell’inno all’egemonia USA? Dal fatale 1989 ci separano ormai un paio di guerre globali, svariati conflitti, l’inabissarsi dell’impero sovietico, il mutamento di cardini del mondo dall’Atlantico al Pacifico, la fine della «Grande Divergenza», 4 trattati europei, la Brexit ecc. ecc. ecc., e stiamo ancora ad inseguire la «fine della storia»?

Il ritorno degli imperi, ma quali?

Colpisce nel ricco e fantasioso vocabolario sfoggiato dall’autore l’assenza assoluta di alcuni termini: computer, televisione, informazione, internet (figuriamoci facebook o twitter). Ma anche spazio, petrolio, DNA, religione, persino Covid riecheggia solo due volte ma tanto per ricordare una pietra miliare del nostro cammino più recente, non certo come oggetto o lente di analisi.
Qual è il mondo che anima queste pagine? Similmente ad altri autori (ad esempio Maurizio Molinari) che si sono chinati nello stesso torno di tempo a scavare nel tumulto che ci circonda, si evoca il ritorno degli imperi in dissoluzione del sogno «a stelle e strisce». Ma di quali imperi si tratta?
E qui si ha come l’impressione che il bisogno tardivo di sfatare il mito della «fine» nasca in realtà da una difficoltà reale a fare i conti con la storia e con il presente.
Ci si dilunga – e anche con molta efficacia – sulla crisi dell’impero americano, sulla guerra civile che quasi squarcia quella democrazia. Ma è davvero il frutto di una storia recente, tutta rappresa nella stagione populista incarnata da Trump? O è storia ormai antica, che da oltre mezzo secolo – dagli anni Sessanta e dalla battaglia sui diritti civili – scuote gli USA e polarizza e consuma società e sistema politico?
E Russia e Cina come arrivano ai giorni nostri? Come e quanto sono figlie di una battaglia epocale, in cui – per dirla con Yuval Noah Harari – «tra gulag e supermercato» non c’è stata alcuna partita e la battaglia è stata vinta da quest’ultimo ad occhi chiusi? Come e quanto le classi dirigenti – oligarchie? – russe e cinesi sono figlie di quella stagione? Da quali stimmate sono profondamente segnate? Suscitano sogni? E quali in giovani disoccupati o studenti di Cambridge? Ma soprattutto come si avvicinano all’imminente fusione fatale di informatica e biologia?

Taiwan e Ucraina, le micce. Ma di quali incendi?

Il pronostico è l’espulsione dal mercato del lavoro non di milioni ma di miliardi di soggetti. Ogni sistema politico – più o meno democratico o autocratico – è stato rimodellato per gestire un mondo fatto di acciaio, petrolio, schermi televisivi. Straordinario lo stress attivato dall’incrocio con il computer. Ma quale sarà l’effetto del rinculo che subiremo dall’annunciato collasso ecologico? O da una comunicazione che, nell’affratellarci ad un estraneo all’altro capo del mondo, ci rende estranei al fratello, al coniuge assorto, accanto a noi a colazione, nel suo smartphone?
Taiwan e l’Ucraina sono micce. Ma di quali incendi? Sorprendentemente tutti questi temi sono espunti dal volume. E lo stesso sguardo sul passato a volte elabora risposte poco convincenti. È il caso ad esempio di Richard Coudenhove-Kalergi, nippo-asburgico propugnatore della «Pan-Europa», ovvero – agli occhi di Caracciolo – d’ogni ‘anti-storica’ evoluzione continentale. Peccato che il nostro trascuri completamente nella sua ricostruzione il ruolo che il ‘Conte’ riuscì a conquistare, durante la sua permanenza negli USA, in ambienti e personaggi decisivi del nascente ‘Atlantismo’ – quali James William Fulbright, Allen W. Dulles, Dean Acheson – e nella costruzione dell’«American Committee for a Free and United Europe», ovvero nell’ideazione di quel complesso cammino sfociato poi nel Piano Marshall.
Come si vede le linee di demarcazione tra “Anti-Storia” e “Anti-Europa” non sono così nette. Ancor più se si scava nella terza costruzione presa di mira da Caracciolo: quella dell”«Anti-Germania». Tutta costruita «su impulso e sotto vigilanza americana». La memoria va subito al 1953 e al famoso discorso agli studenti di Amburgo tenuto da Thomas Mann, di sicuro con passati trascorsi negli USA ma di salde radici teutoniche. Suo il bivio netto disegnato per il futuro ai tedeschi: scegliere e con coraggio tra un’«Europa tedesca» e una «Germania europea».

Guasto è il mondo

Stiamo sicuramente vivendo adesso una crisi della globalizzazione ereditata dal XX secolo, neoliberale o meno che essa sia. Difficile dire però come ne usciremo. Gli sguardi sul futuro sono sempre incerti. Basti pensare al domani del video, degli schermi. La profezia di Popper sulla televisione come «cattiva maestra» non si è avverata. Oggi avanti a schermi, magari molto più piccoli, a volte minuscoli, la fanno da padroni, come pessimi attori, pollice e scrittura, per miliardi e miliardi di caratteri al secondo. E che dire poi della guerra? L’ha fatta da padrona nel passaggio di secolo, sia pure in forme insolite, senza più i massacri del 900 ma a prezzi altissimi. I Grandi hanno volutamente cercato l’asimmetria ma ha funzionato solo in parte. Le promesse di pace e democrazia hanno fallito e spesso la ritirata o il rinculo sono stati pesantissimi. Kosovo, Iraq e Afghanistan stanno lì con i loro ammonimenti epocali. Ora però in Ucraina si sfodera un’asimmetria inedita: la minaccia dell’Olocausto contro invadenze e impicci esagerati di qualche altro grande. Si aggiunge l’aggettivo ‘tattico’ ma senza molta convinzione e in maniera quasi scaramantica. Vedremo.
Intanto, crisi della globalizzazione, ritorno degli imperi? Non ci riporteranno al Novecento, come ci ha giustamente ammonito Daniel Immerwhar. Questo tragico presente ci sta proiettando in un futuro senza precedenti quanto a pericoli. Influirà anche la geografia in cui da sempre siamo immersi. Ma in forme straordinarie si farà sentire il mondo plasmato dall’uomo: la «geografia naturale», non è immutabile. Le nostre mani l’hanno mutata, riplasmata. Agghindata di opportunità e pericoli.
A ragione, Massimo Luigi Salvadori, nella sua cavalcata nel nuovo secolo, si è rifatto alla lezione di Tony Judt: «guasto è il mondo». Abbiamo attraversato secoli sulle spalle di giganti. Da tempo siamo assordati dagli strepiti di schiere di pigmei rilanciati da TG e aule parlamentari. Cresciuti nel secolo cosiddetto delle «masse» mal ci adattiamo ad un mondo lanciato sempre più in autistica cacofonia.
Di fatto sono sconvolti tutti gli abituali punti cardinali. Costa una fatica incredibile tornare ad orizzontarsi nella matassa di una storia così aggrovigliata.

Riferimenti bibliografici

L. Caracciolo, La pace è finita. Così ricomincia la storia in Europa, Feltrinelli, Milano 2022.

Y.N. Harari, 21 lezioni per il XXI secolo, Bompiani, Firenze, 2019.

D. Immerwhar, L’impero nascosto. Breve storia dei Grandi Stati Uniti d’America, Einaudi, Torino 2020.

M. Molinari, Il ritorno degli imperi. Come la guerra in Ucraina ha stravolto l’ordine globale, Rizzoli, Milano 2022.

M. L. Salvadori, Da un secolo all’altro. Profilo storico del mondo contemporaneo 1980-2022, Donzelli, Roma 2022.

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RICONQUISTARE LA PACE? OGGI VUOL DIRE RIPRENDERE IL CONTROLLO

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Riconquistare la pace? Oggi vuol dire riprendere il controllo

(pubblicato sulla «Gazzetta del Mezzogiorno» del 5 novembre 2022)

 

«Sporca», «tattica», strategica»: tutti termini  che continuano ogni notte a rimbombarci in testa  mentre il sonno tarda ad avvolgerci. I TG su quasi ogni rete ce li cuciono addosso ossessivi, assieme ad altri ormai divenuti d'uso comune: «bomba», «atomica», «nucleare». Da quando Putin il  21 febbraio ha dato inizio all'aggressione in Ucraina, brandendo l'arsenale nucleare russo e  la minaccia di possibili «conseguenze che il mondo non ha mai visto sinora», quell'incubo si è dilatato. Negli ultimi giorni è divenuto un martellamento continuo, E via con le puntuali minacce di tattiche, volta a volta dissuasive o definitive, o con gli allarmi, più o meno calcolati, diramati da Shoigu sui preparativi ucraini di «Dirty Bomb». 

L'altro ieri si sono aggiunti i nuovi scenari disegnati dalla improvvisa pubblicazione della nuova «2022 National Defence Strategy» americana: un documento assai ricco, diviso questa volta in ben tre sezioni, con i due ultimi due capitoli dedicati alle rivisitazioni della «dottrina nucleare» e a quella «missilistica». La novità è che ora gli Stati Uniti non contemplano più solo la pura «deterrenza» come orizzonte per un possibile ricorso al nucleare: ovvero non più soltanto ed esclusivamente in risposta ad un possibile attacco atomico, ma anche in presenza di minacce indefinite, condotte con altre armi ma dai prevedibili effetti devastanti. Non è una novità assoluta. È già accaduto in risposta all'11 settembre con la sciagurata dichiarazione di «guerra al terrorismo» e la proclamazione della «guerra preventiva».

Ieri come oggi la fa da padrona l'indeterminatezza, l'incertezza. Incerto è il fronte contro o verso il quale vengono branditi simili annunci. Esterno o interno? Si pensa a terrorizzare o a rassicurare e magari blandire? Shoigu vuole intimorire Zelensky o prova a rassicurare, magari tenere a bada Ramzan Kadyrov con i suoi ceceni? E qual è l'obiettivo di Biden? Bloccare sul nascere le tentazioni o la disperazione di Putin?  Lanciare messaggi agli Europei? O ancora provare a riguadagnare terreno e voti nel Congresso e nella competizione di mid-term ormai imminente?

A spaventare è il fatto che, da tempo, le guerre moderne si dichiarano facilmente ma si chiudono solo a fatica e dopo convulsioni infinite. Ancor più terrorizza l'impotenza della politica, la sua afasia. La parola è riconquistata solo entro scenari estremi: volti a seminare panico nel fronte nemico o a vellicare fiducia nelle proprie fila o tra alleati.

A dispetto delle ricorrenti narrazioni sul ritorno della politica, degli imperi, delle potenze rispetto ai mercati, alla globalizzazione, mai come adesso i sovrani del mondo si rivelano a qualsiasi latitudine tragicamente impotenti, incapaci di trovar soluzioni al di fuori di minacce e mortali bagliori.

Più sottile scorre - appena appena visibile - entro questa mortifera assuefazione all'impotenza della politica la percezione di una lenta, impalpabile metamorfosi della sovranità. In realtà, lo Stato, il pubblico sta inesorabilmente perdendo terreno. Inarrestabile - sospinto ovunque da politiche comunque denominate: democratiche o dispotiche - il privato conquista spazi e territori. 

Nei giorni scorsi abbiamo scoperto le virtù di una rete satellitare privata, la StarLink di Elon Musk, con il vantaggio strategico finora concesso al campo occidentale e all'Ucraina. Oggi sempre Musk sospende sulla campagna elettorale americana la conquista dell'universo Twitter. Ci ricordiamo allora che la Nasa deve venire a patti con lui o con Jeff Bezos per programmare i prossimi passi nello spazio.

Né le cose mutano in campo cinese o russo. Uno straordinario lavorio storico-politologico ha messo in campo le categorie di «oligarchia», «società incivile» o «oikocrazia» per descrive l'epocale muta di pelle e di scheletro intervenuta nelle società post-sovietiche o post-maoiste.

Imporre, riconquistare la pace è processo quanto mai duro e faticoso oggi. Soprattutto perché significa riprendere, riconquistare controllo. 

 

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TRAVOLTA DALLE CHIACCHIERE

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TRAVOLTA DALLE CHIACCHIERE ALL’ITALIA ELETTORALE MANCANO LE GRANDI DOMANDE

(pubblicato sulla «Gazzetta del Mezzogiorno» del 9 agosto 2022

«S'ode a destra uno squillo di tromba/a sinistra risponde uno squillo»: son versi famosi. Con essi Alessandro Manzoni dipingeva a fosche tinte la storica italica attitudine allo scontro fratricida. Non possiamo perciò che rilanciare oggi questo severissimo ammonimento mentre, a tratti sgomenti, veniamo catapultati nello scontro a più livelli che anima questa incredibile campagna elettorale.

E pensare che adesso è divenuto problematico persino scegliere il posto sulla scheda, in un qualche schieramento. 

Alla faccia del bipolarismo tanto invocato, non è più così immediato o naturale lo star «di qua o di là». Il larghissimo allineamento di un tempo dietro l'«unto della BCE», Mario Draghi, si è dissolto in un novello «campo di Agramante», un labirinto rissosissimo di aspiranti condottieri. Fantastica poi la storica giravolta di una destra che oggi eleva inni a entità o vincoli sovranazionali per anni o forse decenni deprecati come atti di servile accondiscendenza, dimentichi magari di averli già riconosciuti addirittura in ratifica di trattati in altre stagioni della vita politica nazionale.

Grande insomma è la confusione sotto il cielo, illuminata a tratti da una cronaca politica tutta rappresa nelle cifre infinite del baratto di listino e collegio, in questa o quella promessa di sconto fiscale o di ennesimo bonus. Quando non nella litania antica sull'emergenza immigrati. Naturalmente a far da corona a questo o quel mercimonio, più o meno riconosciuto, promesse di ripristino di una vita politica luminosa, risplendente di equità fiscale, magari tutta flat, e trasparenza assolute. Insomma, un ritorno -  corretto magari con un pizzico di presidenzialismo - a quell'età dell'oro di un sistema politico seppellito indecorosamente all'indomani del terremoto in Irpinia dalle epocali esternazioni di Sandro Pertini e Enrico Berlinguer. 

Sommesse, ma martellanti e con rimbombi inquietanti, altre news fanno da corona e monito alla cronaca politica rutilante, troppo spesso dimentica del mondo circostante. I ventenni che domani augurabilmente non ascolteranno le sirene dell'astensione, impugnando alle urne scheda e matita, avranno quarant'anni nel 2040. L'Istat ci ha appena ammonito, nel suo rapporto annuale, che, per scelta soprattutto di costoro, avremo allora un 39% circa delle famiglie costituite da una sola persona, rispetto all'attuale 11% circa. Un aumento esponenziale destinato a riverberarsi in forme incredibili nell'intero corpo sociale, con moltiplicazioni di costi e problemi. A mutare e in forma drammatica quella cellula - la famiglia - che ancor oggi costituisce ad ogni latitudine l'abc del linguaggio politico. Così come a mutare le generazioni: quelle anziane in ampliamento continuo, quelle più giovani sempre più sottili. 

All'interno di queste la presenza insopprimibile di immigrati. Già oggi gli stranieri, con cittadinanza acquisita o meno, sotto i 18 anni rappresentano il 20% della popolazione immigrata. Per gli italiani stiamo sotto il 16%. Il loro ingresso ha mutato la scuola in forme radicali. Con buona pace dei Salvini e delle Meloni di turno. L'insieme della popolazione scolastica straniera in Italia nel 2019-20 superava già il milione di persone, il 12,6%. 

Chi tra cinque anni raccoglierà nei campi - e in quali condizioni? - mele, ciliegie, pomodori? Chi salirà sui ponteggi dei palazzi da costruire con o senza superbonus? Per non parlare di vacanze sulla neve o su spiagge in continua erosione. O delle atomiche affidate alle cure degli aeroporti di Aviano e Ghedi, in spregio magari ai trattati a suo tempo firmati contro la proliferazione nucleare.

Invano - per chi voglia avventurarsi in questa impresa - si può cercare un qualche riferimento a questi mondi complicati, i più vari tra loro, nel chiacchiericcio quotidiano che ci travolge. E verrebbe da dichiarare morta ogni speranza per chi ancora oggi auspica o anela a una qualche rinascita di sistema politico.

In realtà le grandi speranze nascono sempre da grandi domande e rovelli. Le cronache più recenti non ce ne hanno fatti mancare. A far difetto sono state finora - a dispetto di tutte le proclamate emergenze - voglia e capacità di interrogarsi davvero. Senza illusorie e fuorvianti palle di vetro. O sondaggi.

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LA CADUTA DI DRAGHI

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LA CADUTA DI DRAGHI

E QUELLA «NOTTE»  CHE ANCORA NON PASSA 

(pubblicato sulla «Gazzetta del Mezzogiorno» del 1° agosto 2022)

«Whatever it takes»: «Tutto ciò che è necessario». Siamo a  10 anni da quel 26 luglio 2012 in cui Mario Draghi a Londra di fronte alla platea della Global Investment Conference piantò il paletto di una nuova BCE al cuore dell'UE e al comando dell'euro. Nel quasi anniversario di quel giorno fatale non gli è riuscito a Roma di rinnovare i fasti di un annuncio che allora gli guadagnò fiducia e attenzione incondizionate in Europa e nel mondo. 

Cosa è successo qui da noi? Ha perso smalto il novello Cincinnato? Cinismi e egoismi di una Roma immutabile? 

Ormai una inedita stagione  elettorale si è spalancata sotto i piedi del paese. S’addensano timori e domande. Che effetto avranno caldo e ombrelloni? E un Covid mai domo e mutante? E quali equilibri politici usciranno dalle urne? Dobbiamo temere cataclismi? In molti - e giustamente - temono per la nostra Costituzione. Tanti gli annunci di modifiche già depositati: il presidenzialismo nel tempo ha guadagnato consensi anche su lidi inaspettati. 

Val la pena allora di fare un po' di luce nel buio che s'addensa sul nostro futuro, in questa notte che non passa della democrazia repubblicana, aggrovigliata da tempo attorno a troppi nodi gordiani. Tanti avevano intravisto in Draghi il nuovo Alessandro. La delusione è pari solo al peso delle aspettative mancate.

Non molti ricordano che quel luminoso «whatever» era stato preceduto - e reso magari possibile - dalla ben più prosaica e assai discussa decisione assunta dalla quasi totalità degli stati UE con la firma sul Fiscal Compact e sui suoi obblighi: rientro dal debito pubblico e pareggio di bilancio. L'Italia pronta al passo con ratifica e introduzione dell'obbligo in Costituzione tra il maggio e il luglio di quel fatale 2012 ad opera di un altro governo 'tecnico': quello di Mario Monti. La svolta di Draghi intervenne perciò in un quadro europeo terremotato fin dal 2008 in modo radicale - spread a livelli altissimi in molti paesi, Grecia a rischio default, euroscetticismo montante - ma entro una cornice costituzionale che paradossalmente aveva confermato e rafforzato i principi fondativi dei trattati UE: lotta all'inflazione, debito sotto controllo ecc. È entro questo generale quadro costituzionale - con queste sostanziose rassicurazioni del partito e degli Stati del 'rigore' - che Draghi realizza la svolta e l'approfondisce di lì a qualche anno con l'inaugurazione del Quantitative Easing: una politica monetaria espansiva già adottata in momenti di crisi, e con esiti incerti. In particolare, dal Giappone, fin dagli anni 90, e negli USA in risposta alla voragine del 2008.

Covid e aggressione russa all'Ucraina hanno fatto il resto. La spesa pubblica ha galoppato, trainando anche una discreta ripresa in tanti paesi. L'effetto è stato quello di un aumento di debito e disavanzo pubblici, sia pure mitigati a fine 2021. Ormai la metà circa degli stati UE si fa beffe del tetto del 60%. Si tratta dei paesi con popolazione e peso economico più rilevanti. Di qui il tentativo di ricondurre il tutto sotto controllo, nell'intento di frenare le divergenze più accentuate, con il rialzo dei tassi da parte della BCE e il varo di uno scudo anti-spread.

Il mutamento più significativo però è intervenuto nello spirito pubblico, nell' humus di fondo, e nella cabina di regia. Il rafforzamento e l'ulteriore allargamento della Nato anche a paesi tradizionalmente neutrali, hanno tolto vento alle vele del sovranismo più marcato. La stessa deriva populista ha notevolmente corretto la rotta, sia pure tra mille ambiguità. La regia generale però è divenuta sempre più elitaria, appannaggio di tecnocrazie ed esecutivi. La marginalizzazione dei parlamenti sempre più accentuata.

La manifestazione più evidente della deriva in atto è nell'astensione elettorale alle stelle e nel fossato sempre più profondo tra rappresentati e rappresentanti. Con il risultato che ormai si sono accumulati mutamenti epocali nelle istituzioni cui noi europei deleghiamo cura dell'esistente e progettazione del futuro. Nato e UE sono ormai ben altro da quelle riprogettate nel biennio fatale 1989-1991. Le abbiamo rifatte ab imis a colpi di revisioni sotto traccia del Concetto strategico atlantico, ora allargato persino alla Cina, e gestione delle emergenze globali. Il tutto senza mai passare per le dovute ratifiche parlamentari o anche elettorali. È anche sotto l'urto di queste novità che i partiti in Italia hanno deciso di rompere e riconquistare una parziale libertà di manovra, prima che Draghi, in serrato dialogo con i vertici comunitari e atlantici, rideterminasse ulteriormente le agende future.

Ma sarà questo sistema politico, sia pure interrogato in emergenza e profondità dal corpo elettorale, capace di rispondere positivamente, di riallacciare un dialogo serrato con cittadini e corpi sociali organizzati? Ci sia permesso di esprimere un serio dubbio. 

Anche il più semplice e sprovveduto dei cittadini avverte sulla pelle il morso di innovazioni e mutamenti che hanno ormai sconvolto i termini essenziali della civiltà umana. Conviviamo quotidianamente con la minaccia della 'bomba', abbiamo la vita invasa, riscritta dai social, passeggiamo con il mondo il tasca grazie al cellulare. Ma per questi "politici-senza-partito" nulla è mutato rispetto ai primi del Novecento. Siamo ancora allo scontro tra «Strapaese» e «Stracittà». 

 

Isidoro Davide Mortellaro

docente di Storia delle relazioni internazionali

Università di Bari «Aldo Moro»