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LACRIMONI SENZA STORIA

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LACRIMONI SENZA STORIA

Che mondo strano quello che si rivela in un qualsiasi paesino d'Italia o del mondo all'indomani di una sconfitta della nazionale di calcio. O meglio fin troppo limpido e trasparente. L'universo dell'informazione ufficiale fa il pieno naturalmente delle solite cose. Tuttologi che sproloquiano su Conte, la formazione e magari l'arbitraggio. E così è avanti a ogni bar o circolo o ritrovo. Quelli della vita vera in comune.

Muto e silente, assente del tutto, quel mondo variegato che in un piccolo paese - a rimorchio dei social network - è solito animare il dibattito (?) con la pubblicazione sui vari siti cittadini di note e veline le più varie. Su tutto e anche sul calcio o meglio sul tifo pagine intere, traboccanti di foto e aggettivi. Su esplosioni (non solo di gioia) e caroselli (a volte, vandalici) della tifoseria scatenata.

Ieri sera tornando a casa ho incrociato qualche bambino o ragazzetto, a rimorchio dei genitori, con bandiera ripiegata in spalla e lacrimoni mal dissimulati. Nessuno che si sia preso la briga di immortalarli e raccontarli all'indomani come meritavano. La sconfitta non esiste per questo mondo. Il loro racconto è solo per i vincenti, per chi magari approda di straforo alla trasmissione di successo. Il giorno dopo, quando in genere scompare dal video, nulla. 

Tutto per chi appare. Per gli invisibili, i perdenti, quel bambino coi lucciconi, niente.

Non è un bel racconto della vita. Quella vera

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Comunicare e tradurre

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Comunicare e tradurre

 

Impazza la discussione all'indomani delle elezioni amministrative e del referendum inglese. E le varie tesi vengono brandite come clave sulle teste altrui. Non a caso negli USA, sul Washington Post (tradotto in Italia da Il Post) analizzando il successo di Trump, viene rilanciata una vecchia tesi sulla democrazia e sul pericolo di lasciarla in mano agli ignoranti. Nulla di nuovo sotto il sole: se ne discute da sempre, già nella "Costituzione degli Ateniesi". 

A renderla ancora più drammatica oggi è il nostro essere esposti quotidianamente al mondo e immersi in una discussione invasiva, diretta e permanente che fa giustizia in radice di ogni forma di comunicazione e traduzione. Un tempo assorbivamo il mondo intanto con il filtro di una vita condivisa con altri in fabbrica o a scuola, nel quartiere, col partito, il sindacato. Lì assieme agli altri traducevamo quello che non capivamo subito. Ora reagiamo di viscere immersi nella solitudine liquida del web.

Non possiamo pensare di resuscitare il vecchio mondo. Nessuno è capace di rimettere nel tubetto il dentifricio schizzato fuori. Possiamo e dobbiamo creare nuovi luoghi e forme di condivisione e traduzione. Una sfida cui in molti finora si sono sottratti o che è stata accettata solo a parole

 

Devono votare anche gli ignoranti?

di David Harsanyi - The Washington Post

Un giornalista americano propone un esame di educazione civica per gli elettori, perché una democrazia non informata è "il preludio a una farsa o a una tragedia"

 

Il Washington Post ha ospitato questa proposta – raro caso in cui la abusata definizione di “provocazione” ha davvero senso – di David Harsanyi, condirettore della rivista online The Federalist e autore di frequenti posizioni originali, con attenzioni particolari alla crisi dei sistemi democratici. Il suo articolo ha ricevuto molte reazioni di protesta dai lettori, ma tratta un tema che è diventato molto presente nei paesi occidentali negli ultimi anni, quello del calo di corrispondenza tra i principi democratici e la qualità dei governi eletti.

Mai come oggi tantissime persone assai poco informate prendono decisioni che hanno ripercussioni su tutti quanti. Basta studiare la pochezza dell’attuale campagna presidenziale americana per capire come il problema più urgente nella politica degli Stati Uniti non sia l’influenza delle grandi aziende, dei sindacati, dei media e nemmeno quella dei soldi. Il problema principale siete voi, gli elettori americani. Eliminando i milioni di elettori irresponsabili che non si prendono il disturbo di imparare i meccanismi più basilari della Costituzione, o le proposte e la storia del loro candidato preferito, forse potremmo riuscire ad attenuare le conseguenze della sconsideratezza del loro voto.

Non dico che dovremmo erigere delle barriere fisiche per limitare l’accesso al voto. Continuiamo pure a costruire seggi, ad assumere altre persone per lavorarci, a facilitare il processo di registrazione, a spedire più schede elettorali ai cittadini anziani e a produrre più annunci pubblicitari per incoraggiare il voto e a implorare i giovani apatici di adempiere al loro dovere civico. Allo stesso tempo, però, ricordiamoci che andare a votare per il candidato che ha fatto gli spot elettorali che ci sono piaciuti di più è uno dei compiti più sopravvalutati in una democrazia. Se non avete idea di cosa stia succedendo, anche sottrarre noialtri alla vostra ignoranza è un dovere civico. Purtroppo non ci possiamo fidare di voi. Se il voto è un rito consacrato della democrazia, come spesso sostengono i progressisti, è giusto che la società abbia delle pretese minime su chi vi partecipa; e se la cittadinanza è un valore sacro, come sostengono i conservatori, allora si può pretendere da un potenziale elettore lo stesso livello di informazione di un potenziale cittadino. Introduciamo un test per gli elettori: l’esame di educazione civica usato per ottenere la cittadinanza andrebbe benissimo. Quanti dei rumorosi sostenitori dei due principali candidati alle presidenziali americane supererebbero l’esame? Questi sono alcuni dei quesiti dell’esame di cittadinanza, che si dividono tra facili e facili in modo imbarazzante:

Se il presidente e il vice presidente non possono più rimanere in carica, chi diventa presidente?

Cita tre dei tredici stati originari degli Stati Uniti

Cita un diritto o una libertà sancita dal Primo Emendamento.

Cos’è la libertà di culto?

Sono moderatamente fiducioso del fatto che almeno la maggioranza dell’elettorato sarebbe in grado di superare il test, anche se non potrei dire altrettanto della maggioranza dei candidati alla presidenza. Di sicuro, dovrebbe essere un gioco da ragazzi per quei cittadini che sono così coinvolti nella campagna elettorale dai tappezzare le loro auto di adesivi e partecipare ai comizi dei loro candidati preferiti.

Ma forse sono troppo ottimista. Quando qualche anno fa Newsweek aveva chiesto a mille elettori americani di fare l’esame per la cittadinanza, circa il 30 per cento non era stato in grado di dire chi fosse il vicepresidente degli Stati Uniti; oltre il 60 per cento non conosceva la durata del mandato di un senatore; il 43 per cento non sapeva che i primi dieci emendamenti della Costituzione americana sono conosciuti come la Dichiarazione dei Diritti; solo il 30 per cento sapeva che la Costituzione è la legge suprema degli Stati Uniti. Grazie a un altro studio, condotto dall’Annenberg Public Policy Center, abbiamo scoperto che solo il 36 per cento del campione intervistato è stato capace di citare tutti e tre i poteri del governo americano. Queste sono le persone che eleggono chi definisce la struttura fondamentale dell’ordinamento giudiziario degli Stati Uniti, e spesso le nostre vite.

A dirla tutta l’elettorato probabilmente non è meno ignorante oggi di quanto lo fosse 50 o 100 anni fa. La differenza è che oggi il nostro accesso alle informazioni è illimitato. Come scrisse James Madison, il quarto presidente della storia degli Stati Uniti: «Un governo popolare, quando il popolo non sia informato o non disponga dei mezzi per acquisire informazioni, può essere solo il preludio a una farsa o a una tragedia, e forse a entrambe». Informarsi sulle caratteristiche fondamentali della nostra repubblica e sulle posizioni dei candidati, poi, è una questione di qualche secondo, letteralmente. Se rinunciate al potere dell’informazione non siete nella posizione di poter dire al resto di noi come vivere le nostre vite. Non votate.

Alcuni di voi mi accuseranno di fare dell’ottuso elitismo: ma è il contrario. A differenza delle molte persone che dipendono dagli elettori ignoranti per esercitare e salvaguardare il proprio potere, mi rifiuto di credere che la classe lavoratrice o i cittadini meno abbienti siano meno capaci di capire il significato della Costituzione o i tratti principali del sistema di governo rispetto allo sprezzante un per cento della popolazione. Ne sono convinto nonostante la scuola pubblica spesso non sia in grado di insegnare agli studenti le basi dell’educazione civica: è ancora una nostra responsabilità, come elettori.

Ovviamente non dobbiamo dimenticarci di brutte storie come le tasse elettorali e gli altri metodi discriminatori usati dagli americani per negare ai cittadini neri il diritto di voto. Qualsiasi tentativo di migliorare la qualità dell’elettorato dovrebbe fare in modo che il voto venga inibito alle persone ignoranti di ogni etnia, credo, genere, orientamento sessuale e contesto socioeconomico. Per il bene delle nostre istituzioni democratiche.

© 2016 – The Washington Post



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CARNEFICI INCONSAPEVOLI, MA VOLENTEROSI

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CARNEFICI INCONSAPEVOLI, MA VOLENTEROSI

Matteo Renzi è sicuramente un volenteroso allievo della Trilateral Commission: una organizzazione nient’affatto segreta, appena ospitata a Roma per uno dei suoi meeting annuali. Le sue ricette sono ampiamente pubblicizzate e il loro successo globale testimonia la sapienza con cui essa amministra e promuove il suo particolare soft-power: una traduzione postmoderna della gramsciana ‘egemonia’.
Le parole d’ordine renziane attingono direttamente al cuore dell’insegnamento trilateralista: la democrazia soffre di sovraccarico di domande, scaricate sulle assemblee elettive da movimenti, lobbies e dalla doppia crisi del sistema economico e del welfare. A lungo andare si alimenta paralisi e delegittimazione, amplificate dal degrado decennale della politica. Se ne esce con una profonda semplificazione, mirata a dare centralità a esecutivi e tecnocrazie raccordati a livello europeo. 
Rispetto a questo disegno, giunto a riscrivere Costituzione e legge elettorale, ormai pronte per un nuovo referendum, buona parte del fronte referendario assemblato il 17 aprile rischia di rimanere subalterna, quando non complice, più o meno inconsapevole, più o meno volenterosa. In primo luogo, in virtù di una concezione della politica ridotta a taglio del nodo gordiano: un bel sì e no a transizioni epocali quali quelle di un nuovo modo di vivere, consumare, produrre. Il tutto poi scaricato dai fronti più disparati contro Renzi, demoniaca incarnazione dei mali peggiori del Belpaese. Di quanti spin-doctor avrebbe avuto bisogno il premier per ottenere un risultato analogo, per esser vissuto dalla Nazione tutta, prima ancora di una malaugurata incoronazione referendaria, come leader, uomo solo al comando?
Il tutto, infine, in nome di un incerto e vago regionalismo, odierna terra di conquista dei peggiori demagoghi e bersaglio di una profonda e diffusa sfiducia. Tanto più ampia e radicale, perchè frutto del fallimento verticale di quel federalismo fino a ieri invocato come panacea di tutti i mali.
Nella volata al prossimo referendum rischiano di essere molti e diffusi i carnefici inconsapevoli - ma volenterosi, appassionati e zelanti – della democrazia italiana.

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Attenti alle fascine accumulate. Rischiano di infuocarsi altrove

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Attenti alle fascine accumulate. Rischiano di infuocarsi altrove

Sono andato a votare SI con la mia testa. E perciò  - nonostante un quesito mal posto e peggio maneggiato - seguendo quello che penso in generale sull’impegno civico e politico, sul futuro di questo mondo e di questo paese: più puliti, liberi, partecipati.

Sobbalzo però, ora all’indomani del voto. Soprattutto, di fronte alle considerazioni di chi vede in quel 31% di votanti la formazione di un blocco sociale e politico tutto spendibile per future battaglie referendarie. Intanto, per quella autunnale nel referendum confermativo sulla riforma costituzionale. 

Tra quei votanti e a sospingerli ci sono state e ci sono forze assai disparate, spesso collocate su opposte trincee.  Per intenderci, chi vuole accoglienza immediata per gli immigrati e chi vuole sparargli subito addosso, magari in mare. Nè a far da collante può esserci l’antirenzismo declinato nelle salse più varie. Anche da chi, finora, si è distinto sempre e dovunque, novello Attila, per una pratica del potere che fa terra bruciata di ogni luogo frequentato e d’ogni sua istituzione o istanza. In quel fronte referendario che ha deposto la scheda nell’urna ci sono anche tanti che, dalle sponde più disparate, alimentano una pratica della democrazia breve, corta, tutta decisione. Critica o nemica, magari, della mediazione politica, di ogni pratica politica alimentata dal metabolismo sociale, culturale, da partecipazione e impegno quotidiani, dalla vita.

Attenzione. Nell’illusione di aver apprestato le fascine per un grande fuoco referendario in difesa della Costituzione - sostanzialmente antirenziano - si corre il rischio di bruciarsi non solamente le mani. Se si continua sull’onda fin qui mal cavalcata, si può scoprire all’improvviso di trovare gran parte delle truppe ammassate - e intanto molti loro condottieri - attorno ad un altro falò, gia tutto apprestato da chi proclama che è troppo tempo che in questo paese non si decide, che semplificare, cancellare un po’ di casta, costringerla al bianco e nero del governo o dell’opposizione non può che farci bene. Insomma, che è l’ora di cambiare.

Attenzione agli umori reali del 31% che ha votato. E naturalmente anche ai silenzi eloquenti dell’altro 69%.

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Di regioni, nazioni e nuovi principati

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“Di regioni, nazioni e nuovi principati”

Bari 19 dicembre 2014

Intervento al convegno su

Stati, regioni e nazioni nell’Unione Europea”

 

«Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia»[1].

Ossessivi questi versi rimbombano in testa mentre qui, tra noi, si distendono e accavallano i racconti dei tumulti che da qualche tempo colorano l’Europa, ne macchiano e agitano cuore e angoli remoti.  E il rimbombo diviene ancor più assordante a fronte della constatazione che ormai, in tanti dei casi qui sottoposti alla nostra attenzione, la realtà ha ragione anche della fantasia più sfrenata.

In queste pagine, grazie ad una messe di analisi che difficilmente trovano audience nel nostro paese o nei circoli dell’europeismo più blasonato, ci siamo avventurati per le geometrie non euclidee del post-statuale, in quelle volute in cui popoli e élites provano a riconquistare sovranità, riconfigurando, accavallando in forme inedite regioni, nazioni e unioni sovranazionali. Il più delle volte si è costretti a stringere le pupille, nel tentativo di aguzzare la vista, provare a distinguere nella marea di soggetti che sembrano farsi avanti, affollarsi, fin quasi a sommergerci. La prima impressione è quella di una moltiplicazione di nuove figure costituenti, di un far massa che preme e rompe le vecchie mura, i recinti tradizionali.

In realtà, ad uno sguardo più attento, ad una valutazione più distaccata e alta non sfugge come questi movimenti improvvisi e disordinati siano spesso il prodotto di una scena che in realtà si rattrappisce, a somiglianza della famosa scatola sperimentale che stringe le sue pareti su topolini costretti a subire una progressiva restrizione dello spazio vitale e lanciati perciò per rincorse e scontri sempre più parossistici. All’occhio dell’osservatore più disincantato non sfuggirà il quadro di insieme: un deserto sempre più ampio avanza e si allarga a contornare queste oasi affollate. Così come all’orecchio più allenato non sfugge il progressivo arrochirsi delle voci che di lì si levano, la loro costante, inevitabile mutazione in grida disperate. Eccola la nota dominante: l’accavallarsi di voci, spesso cacofonico e convulso, ma sempre vario e mutevole, ha da tempo lasciato spazio ad un urlo monocorde, ad una politica rattrappita attorno ad un diffuso, lacerante rancore sociale.

Altri osservatori, altri critici, dotati magari di sonde più acute e smaliziate, vorranno o potranno scorgere nei mutamenti sempre più rapidi della scena sociale e politica europea le mosse convulse di un ceto politico onnivoro, attento alla manutenzione di regole e ambienti funzionali soprattutto alla manutenzione e alla perpetuazione nel XXI secolo della «clase discutidora» eternata un tempo da Donoso Cortés. Sotto questo profilo analitico, appare quanto mai istruttivo il laboratorio italiano. Come sempre, il Belpaese ha rivelato proprietà e capacità anticipatrici rispetto al Vecchio Continente e ad ogni sua realtà nazionale. È sulle nostre rive che i comandamenti della nuova Unione europea – quella congerie di direttive e regolazioni riassunta sotto il termine onnicomprensivo ‘austerità’ - hanno saputo produrre mutamenti rapidissimi quanto radicali del sistema politico. Sotto quella sferza, prima che in qualsiasi altro paese europeo, la nostra giovane Repubblica si è avventurata per una precoce quanto precaria e ininterrotta metamorfosi dei propri assetti istituzionali e politici. Come dimenticare che in meno di un ventennio abbiamo già accumulato più o meno infruttuosamente tre tentativi di riforma costituzionale: in primis, la precaria e avventurosa riforma del Titolo V della Costituzione e dei rapporti tra Stato centrale e Regioni, promossa e imposta dal centro-sinistra; successivamente quella ancor più radicale, per il suo impatto istituzionale, voluta dal centro-destra e definitivamente bocciata dagli Italiani con il referendum del giugno 2006; infine quella del 2012 sul pareggio di bilancio, in omaggio ai dettami europei di politica economica e monetaria. Come non sottolineare soprattutto come questi complessivi mutamenti, accumulati nell’ultimo ventennio, non abbiano affatto prodotto stabilità. Tutt’altro: sono oggi tutti materia incandescente di un confronto politico e istituzionale che sta impegnando severamente, e per alcuni aspetti corrodendo, le residue energie politiche e istituzionali di un paese giunto a livelli di sfiducia e astensionismo politico finora impensabili. 

Da tempo e da più parti, con l’impiego delle chiavi interpretative più varie, si insiste per provare ad orizzontarsi e inquadrare queste convulsioni, sulla corsa a ricollocarsi nel mondo indotta dallo spaesamento prodotto dai processi di globalizzazione. Le coordinate geografiche abituali non bastano più a ridar nome alle cose e ai processi, a recuperare ed esercitare soggettività, identità. Né soccorrono le vecchie appartenenze: troppi vessilli ammainati frettolosamente o improvvidamente agitati. Vi è bisogno di una nuova più puntuale ricognizione del terreno. Né si può cedere alla tentazione semplicistica, oggi fin troppo abusata, di ricorrere alla strumentazione più semplice per provare – magari illudendosi - a ridare una parvenza d’ordine al tumulto che ci contorna. Il palmo della mano, la falcata del passo, il colore della pelle o del nostro credo non ci aiutano più, nemmeno in quel ‘locale’, ossessivamente praticato ma oggi irrimediabilmente dilatato e screziato da un mondo divenuto vita quotidiana.

Servirà allora un ricorso più sorvegliato alla categoria di globalizzazione per evitare di limitarsi alla semplice evocazione di un ‘nonluogo’[2]. Intanto per ricollocarsi in un tempo preciso, non prefato più da un indistinto ‘post’ buono a tutti gli usi: sia esso post-moderno, post-novecentesco o, più generalmente, post-89. La caduta del Muro ha davvero fatto epoca e come tale ha bisogno ormai d’esser distanziata così come l’illusione allora fatale che la storia fosse finita. Di lì è iniziato piuttosto un nuovo galoppo da cui siamo ancora strattonati disordinatamente. E perciò abbiamo ancor più bisogno di partire nell’epoca nostra, sezionare, per orizzontarci. E provare così a riconoscere il tempo nuovo in cui siamo stati scagliati dall’11 settembre e dalla successiva guerra al terrorismo allora proclamata con tanto di corollari sulla «esportazione della democrazia». Per provare magari a contornare il fallimento dell’unilateralismo USA, la rovinosa crisi dell’egemonia a stelle e strisce causata da quegli atti e i nuovi attori e processi attivati da quelle scelte. Per questa via, magari, riusciremo a collocarci meglio sulla mappa del mondo di Terzo Millennio da tempo avviato ad una radicale rivisitazione dei rapporti di forza, non più segnati dal dominio unilaterale sul globo imposto per oltre tre secoli dall’Occidente capitalistico.

Con l’aiuto di queste ultime prospezioni analitiche potremo magari illimpidire lo sguardo su alcune delle pagine più discusse della presidenza Obama e su qualcuno dei mutamenti che stanno scuotendo il terreno su cui poggiano i nostri piedi. Su tre di essi converrà, in particolare, appuntare l’attenzione: un riequilibrio complessivo sta intervenendo nel metabolismo di un globo unificato dall’Europa conquistatrice ma ora rimodellato dal ritorno sulla scena dell’Asia e dei suoi giganti; gli USA non dipendono più dal petrolio come per il passato, quel passato che portava Franklin Delano Roosevelt, di ritorno da Yalta, all’incontro fatale con i Saud o il Presidente Carter a proclamare nel 1980 il Golfo Persico zona di «vitale interesse per gli USA»[3]; più che mai oggi il mondo non è più abitato in forma esclusiva ed omogenea dallo Stato-nazione e dai suoi multipli o sottoinsiemi. Il globo come cipolla rivela ad ispezioni accurate varie stratificazioni. Il suo metabolismo denuncia reti e flussi sempre più intricati. Prima ancora degli studi pioneristici di Saskia Sassen sulla città globale e sulle sue reti[4], la fantascienza e la letteratura cyberpunk ci avevano introdotto al mondo ridisegnato attorno allo Sprawl[5], la città diffusa ridisegnata dalle reti e dai flussi di merci e comunicazioni che stringono il globo. Già nel 2007 le Nazioni unite segnalavano il sorpasso della popolazione rurale da parte di quella urbana, divenuta nel 2014 il 53% del totale. Accostando la lente a questa mutazione, si può scoprire che le cosiddette ‘megacittà” con oltre 10 milioni di abitanti - appena 2 nel 1950 - sono cresciute a 10 nel 1990 e 28 nel 2014; le 21 città che nel 1990 vantavano tra i 5 e i 10 milioni di abitanti sono raddoppiate a 43 nel 2014, mentre le ‘piccole’ città collocate tra 1 e 5 milioni di abitanti sono passate da 239 a 415. Sulle coste cinesi tra il 2007 e il 2010 tre città – una per anno – hanno raggiunto lo status di megacittà con oltre 10 milioni di abitanti[6].

Di fronte a questi sviluppi è quanto mai illusorio e fuorviante ostinarsi nel disegnare la parabola complessiva del neoliberalismo, egemone indubbio del nostro tempo, come una resa – più o meno ordinata - o, peggio, una rotta - magari rovinosa - della politica rispetto al mercato e al suo potere sovraordinante. Converrà ancor oggi mettere a frutto la lezione, la strumentazione analitica che in un’altra età Antonio Gramsci proponeva per la comprensione del capitalismo novecentesco e degli immensi processi di socializza­zio­ne  attivati dalla deflagrazione del primo conflitto mondiale e dalla Grande Crisi. Egli allora sottolineava che «anche il liberismo è una “regolamentazione” di carattere statale, introdotto e mantenuto per via legislativa e coercitiva: è un fatto di volontà consapevole dei propri fini e non l’espressione spontanea, automatica del fatto economico. Pertanto il liberismo è un programma politico, destinato a mutare, in quanto trionfa, il programma dirigente di uno Stato e il programma economico dello Stato stesso»[7]. Nella costanza di questa lezione, immutata rispetto ai vari ‘neo’ che hanno provato a complicarla, i mutamenti che si sono prodotti hanno solo confermato le intuizioni allora messe a frutto sulla distinzione solo metodica, affatto organica, da osservare rispetto alle categorie di Stato e società civile. Colpisce piuttosto l’unicità di accenti con cui – rispetto a Gramsci ma a distanza di tempo e da ben altre sponde culturali e politiche – un pensatore come Michel Foucault ha indirizzato la sua ricerca su neoliberismo e biopolitica: «nel regime del liberalismo la libertà non è un dato, un ambito già costituito che si tratterebbe semplicemente di rispettare; se lo è, lo è solo parzialmente, regionalmente, in questo o quell’ambito particolare ecc. La libertà è qualcosa che si fabbrica in ogni istante. Il liberalismo, pertanto, non è di per sé accettazione della libertà, ma è ciò che si propone di fabbricare la libertà in ogni istante, suscitarla e produrla, con ovviamente [tutto l’insieme] di costrizioni, di problemi di costo che questa fabbricazione comporta»[8].

Sarebbe davvero illusorio nel mondo di terzo millennio provare a rintracciare l’equivalente binomio di società civile e Stato, uno Stato mondiale che sia forma della società civile globale. Questa rimane ‘informale’. Non conosce governo globale, mentre concretamente derubrica Stati e governi a maglie e nodi particolari della propria rete. Si dibatterà a lungo se questa assenza o carenza sia un segnale di imperfezione e incompiutezza o forma di una politica che nel multinazionale o globale è più o meno destinata o condannata a complicarsi, ad abbandonare  la geometria piana euclidea della statualità, per avventurarsi su costruzioni multilivello, post-moderne o neomedievali che siano. Il globo occupato dallo Sprawl ha abbandonato da tempo le geometrie piane dell’ordine di Westphalia, abitato dall’onnipotenza di Stato e politica e dalle loro ordinate movenze. Il governo – ovvero la configurazione eminentemente istituzionale della sovranità - sempre più ha dovuto cedere spazio alla governance, ovvero a quella «struttura di regole, istituzioni e pratiche che – secondo i rapporti sullo sviluppo umano delle Nazioni Unite[9] -  stabiliscono limiti sui comportamenti di individui, organizzazioni e società e che sovraintendono all’evoluzione della società, dell’economia e dell’ambiente». Oggi le maglie e i flussi transnazionali, le commistioni di pubblico e privato, il fitto reticolo di istituzioni sovranazionali hanno trasformato la sovranità nell’esercizio di un potere condiviso da molti, spesso esercitato a più livelli, attraverso meccanismi di controllo e di indirizzo o tramite procedure negoziali, crescentemente segnato dal protagonismo su scala regionale – ovvero continentale – di uno o più attori, e progressivamente influenzato da soggetti transnazionali o da una grande varietà di gruppi di pressione e di organizzazioni non governative. Entro questa nuova geometria dei poteri, immersa nelle dinamiche che muovono queste reti, la vita di ognuno è costretta a misurarsi con l’invadenza sempre più quotidiana e stringente del mondo, col fatto che ai «rapporti interni di uno Stato-nazione si intrecciano i rapporti internazionali, creando nuove combinazioni originali e storicamente concrete», col fatto magari che «una ideologia, nata in un paese piú sviluppato, si diffonde in paesi meno sviluppati, incidendo nel gioco locale delle combinazioni». Bisogna allora saper fare i conti fino in fondo con il mondo attuale e le sue dinamiche e complicazioni. Da tempo la scena mondiale ha smesso di assomigliare, per dirla con John W. Burton[10], ad un liscio bigliardo su cui, come palle, corrono solo gli Stati, cozzando e interagendo reciprocamente secondo precise e predeterminate traiettorie, nella assoluta impenetrabilità dei corpi postulata dalla fisica e dalla diplomazia classiche. Ora il bigliardo della globalizzazione è diventato molto più affollato e complicato e non contempla più la legge sovrana per cui due corpi solidi non possono occupare contemporaneamente la medesima porzione dello spazio. Lo Stato non ha più a proteggerlo e schermarlo la vecchia corazza: adesso politica interna e politica estera comunicano e si intrecciano. Il metabolismo della comunità non rimane più sigillato entro i confini nazionali.  Né la statualità nazionale ha saputo conservarsi come organizzatrice unica della vita civile a livello sovranazionale. Una miriade di altri soggetti – economici, civili, religiosi quando non criminali - adesso influisce, spinge o frena. Si moltiplicano pressioni e interazioni che rendono sempre più improbabili e improponibili cadute e assalti repentini.

L’uomo di terzo millennio vive – soffre - da tempo un nuovo “Ellenismo”. Come ha notato Marco d’Eramo, già in un’altra età dopo Alessandro il Macedone, «il mondo mediterraneo apparve improvvisamente troppo grande per gli strumenti tecnici della democrazia di quell’epoca, troppo sterminato per essere amministrato dai meccanismi della polis … L’individuo fu confrontato a una economia-mondo, a una organizzazione sociale e politica che non era più alla sua misura. Non era più credibile l’orgoglio del sofista Protagora: “L’uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono per quel che sono e di quelle che non sono per quel che sono”. Tutto si fece smisurato: le vite dei singoli diventavano percorsi caotici all’interno di un “mondo complesso”»[11]. Ai giorni nostri questo spaesamento ha ormai assunto tratti patologici, volta a volta e nei più diversi contesti mutato in agorafobia, paura dei grandi spazi, o subìto come minaccia, pericolo. Il cartiglio «Hic sunt leones» ora spunta ad ogni pie’ sospinto. Il mondo ci si rivela privo d’ogni metro o compasso: senza più «né cosmospolis»[12]. La ricerca di vie di fuga, approdi sicuri, e anche di isolamento, recinti, muri protettivi, si fa sempre più spasmodica. A mano a mano che l’urto delle comunicazioni realizza quel miracolo già intravisto da Marx, «l’annullamento dello spazio per mezzo del tempo»[13], siamo trascinati, confusi in una «modernità come incessante, sempre più turbinoso, vortice dei corpi e delle merci, oltre che delle parole e delle immagini»[14].

Come è stato efficacemente sottolineato, «tutte le identità collettive sono rimescolate dal faccia a faccia brutale dell’individuo e del pianeta: per riprendere il titolo di un libro, razza, classe e nazione sono sempre state identità ambigue»[15]. Lungi dall’appiattirsi sotto la livella della globalizzazione, il rullo compressore dell’americanizzazione, l’identità diviene proprio a contatto con quei solventi una ricerca incessante, rovello quotidiano, tizzone ardente. Essa però si rivela anche nella sua evidente storicità un costrutto, un artifizio: «al meglio, una costruzione culturale, una costruzione politica o ideologica, ovvero una costruzione storica»[16]. Sezionata dalla lente dell’analista rivela la sua dimensione processuale, duale: «l’identità di ogni organismo, individuale o collettivo, è fatta di una negoziazione perpetua tra continuità e mutamento (tra fedeltà e innovazione), e tra se stesso e il suo ambiente, tra l’interno e l’esterno, tra il sé e gli altri. Nel loro caso, questa doppia negoziazione tra il tempo e lo spazio è essa stessa moltiplicata»[17].

Il tema, non nuovo, ha conosciuto nel tempo analisi approfondite che ci hanno rivelato segreti e pulsioni dei meccanismi che nel tempo hanno presieduto all’«invenzione della tradizione» o alla promozione delle «comunità immaginate»[18]. A sospingere da sempre questo motore di innovazione politica sta – in particolare nella tradizione occidentale, fin dalla creazione della polis[19] – quell’attore individuato come immaginazione costituente: «una facoltà, ma nel senso kantiano del termine; è trascendentale, costituisce il nostro mondo invece di esserne il lievito o il demone. Soltanto … questo trascendentale è storico, perché le culture si susseguono e non si assomigliano. Gli uomini non trovano la verità: essi la costruiscono come costruiscono la loro storia, ambedue secondo la loro utilità»[20]. Ai nostri giorni - più che in ogni altra epoca, in omaggio proprio allo straordinario potere di manipolazione e artificializzazione del globo che l’umanità rivela ogni giorno - «questa verità è figlia dell’immaginazione. L’autenticità delle nostre credenze non si misura a seconda della verità del loro contenuto … siamo noi a costruire le nostre verità e non è ‘la’ realtà che ci porta a credere. Poiché essa è figlia dell’immaginazione costituente della nostra tribù»[21].

Nella polis del V secolo Clistene con la sua riforma – con la sua particolarissima immaginazione costituente - seppe trasformare le tribù in popolo, in comunità politica. Da allora quel miracolo, quell’artifizio si è perpetuato più volte innovando ogni volta nel composto, nella miscela irripetibile di ogni patto politico, poi sedimentata – nei tempi a noi più vicini – in patti e carte costituzionali: un giuramento per il futuro di una comunità, i suoi propositi, i suoi programmi per il mondo a venire. Oggi, nel mondo, nell’Europa di Terzo Millennio, assistiamo – come qui del resto è ampiamente documentato – ad una moltiplicazione di soggetti e piani costituenti. Perché questa esplosione? E soprattutto in che rapporto essa sta – se c’è rapporto – con la mutazione d’ambiente e intima che avviene in e attorno a quel motore costituente? Cosa accade all’immaginazione, quando il suo tempo non scorre e si innalza più sicuro innanzi, ma si incurva, quando gli orizzonti si oscurano? Anzi, quando il futuro più che farsi incerto assume sempre più le fattezze dell’incubo, quando si disegna peggiore per gli eredi di quello ereditato dai nostri progenitori.

A far da discrimine nel mutamento dei tempi e da contorno alle eccitazioni dei nuovi costituenti c’è l’avvento, la massiccia, inarrestabile marcia del vuoto. Là dove prima vi erano strade e piazze colme di popolo, ora dominano rarefazione e abbandono. Sezioni e urne elettorali un tempo piene sono sempre più disdegnate da iscritti e elettori in libera uscita. Paradossale la tendenza rivelata dai più recenti trend elettorali nel Belpaese: l’«inedita topografia dell’astensionismo», la sua «rivoluzione geografica». La partecipazione al voto sul territorio nazionale ormai rovescia in forme spesso clamorose la graduatoria che eravamo abituati a rilevare, con un Nord con le sue virtuose, altissime percentuali di votanti, di contro a Mezzogiorno e Isole, abituali fanalini di coda. Adesso «sono proprio le aree del Nord, e con esse le regioni rosse, quelle in cui con maggiore evidenza gli argini si sono rotti, e si sono verificate le più massicce ‘fuoriuscite’ di elettori»[22]. Più in generale, in tutta Europa il comportamento elettorale rivela che è in profondo rimescolamento quella genealogia della azione collettiva e della politica individuata da Albert Hirschman ormai quasi mezzo secolo fa[23]. A farla da padrone ai giorni nostri, a convincere i più, la maggioranza spesso, è proprio la defezione, l’exit, l’abbandono del terreno di gioco: l’astensione. Di contro, lealtà e protesta divengono prerogativa di minoranze massicce le une contro le altre ferocemente armate, tenute assieme e sospinte – spesso in ibride combinazioni - dalle nuove miscele di leaderismo e populismo.

Fatichiamo a comprendere questi nuovi sommovimenti. Le nostre vedute sono ancora tutte traboccanti di quella ribellione delle masse che ha dato colore e spessore ad un’età, cosicché fatichiamo a cogliere il cambio di stagione intervenuto alla svolta di secolo con la rivolta delle élites[24]. Ma è con questi drammatici cambi di passo, con le divaricazioni sottostanti che bisogna fare i conti se si vuole riagguantare il bandolo della matassa, ricominciare a tessere tela. Intanto mettendo sotto la lente dell’osservazione le diseguaglianze, fonte primaria dello scasso di politica e democrazia.

Credit Suisse e, sulle sue piste, Oxfam International hanno evidenziato il picco toccato dalle diseguaglianza globali: a fine 2014 l’1% più ricco dell’umanità controlla ormai  quasi la metà, per la precisione il 48%, della ricchezza globale[25]. A ridosso di questa divaricazione planetaria, una immensa bibliografia prova da tempo a misurare ed apprezzare, per ogni angolo del mondo, repliche e inflessioni particolari di questa ferrea, quasi inarrestabile deriva[26]. Di fatto non c’è paese al mondo che abbia saputo o voluto contrastarla, semmai emergono casi particolari – ad esempio, per l’Italia – in cui assieme all’ampliarsi delle diseguaglianze è andato di pari passo un innalzamento straordinario dei livelli di povertà, il più ampio tra tutti i paesi dell’UE nel primo decennio del secolo, con conseguenze devastanti in termini di disagio  sociale e mutamento dello spirito pubblico[27].

Anche in  questo caso un pensiero che viene da lontano può far da bussola. In questo caso è Aristotele con il suo ammonimento sulle origini stesse della stasis, della guerra civile come dissoluzione della polis: «la ribellione nasce ovunque dalla diseguaglianza». Con impareggiabile maestria il suo scalpello mostrava già come nel mondo antico un irriducibile contrasto opponesse i pochi, oligoi, i migliori, beltistoi, i ben nati, gennaioi, la gente per bene, chrestoi, ai molti, polloi, gli inferiori, cheirones, il popolino, ochlos, la canaglia, poneroi. Il punto è che a rendere inarrestabile il conflitto non era solo la dinamica sociale. A pesare in maniera decisiva – egli statuiva – era «la ricerca di eguaglianza» attivata dall’integrale sottomissione della polis e dei suoi equilibri alla volontà degli uomini che la popolano e che la animano, alla loro capacità di imporre o di accordarsi attorno a regole e leggi: l’isonomia, l’uguaglianza di fronte alla legge[28]. Già allora si individuava un solco incolmabile tra democrazia e ricchezza dei pochi. Il XXI secolo ora fa emergere nuovi aristoi, forti non solo di immense, abituali ricchezze ma di un inedito controllo sulla natura e sul globo. La tentazione allora diviene fortissima per provare a tradurre diseguaglianze e gerarchie generate dalla globalizzazione neoliberista in una nuova oligarchia. Fatto sta che sono proprio scienza e comunicazione, le potenze unificatrici del globo, a rendere oltre misura intollerabili le divisioni del mondo odierno e a rinverdire drammaticamente l’ammonimento di Aristotele. Contrariamente ai tanti miti propalati dalle più diffuse e fortunate utopie tecnocratiche, la tecnologia non acqueta il mondo. Non lo addormenta né smussa asperità o contrasti. All’indomani del II conflitto mondiale, quando si apriva una nuova pagina della nostra storia, Arnold Toynbee annotava con straordinaria lungimiranza che «mentre prima, la ineguale distribuzione dei beni di questo mondo fra una minoranza di privilegiati e una maggioranza sprovvista di privilegi era considerata un male inevitabile, oggi le ultime invenzioni tecniche del mondo occidentale l’hanno fatta diventare una intollerabile ingiustizia». L’hanno elevata al rango di «una enormità morale, poiché ha finito di essere una necessità pratica»[29], ha smesso di esistere come espressione dei limiti imposti dalla scarsezza dei mezzi o dalla natura matrigna.

Oggi, quando moneta e vita ormai si dissolvono e vengono ricomposte nei flussi di bits e nei codici di finanza e biotecnologia regolati e controllati da un pugno di aziende, queste pulsioni e tendenze stanno venendo a punti di tensione insopportabile. Soprattutto qui in Europa dove da oltre un ventennio - mentre ci si sforza di stare al passo, se non alla testa della corsa universale verso la «società della conoscenza» - si prova a modellare e completare il più ambizioso degli artifizi: con il forcipe dell’euro estrarre dall’utero dell’Unione Europea, nata a Maastricht sulle rovine del Muro, il demos europeo. Inchiodato da un ventennio ai precetti e ai comandamenti dell’austerità, quel progetto, dopo l’incrocio con la crisi finanziaria internazionale, appare mutarsi in incubo. La ricerca del demos lentamente ma inesorabilmente ha attivato sì l’immaginazione costituente, ma sempre più spesso, assieme ad essa, anche demoni. A mano a mano che il tessuto delle democrazie europee, lo stato sociale, quel sostrato unificante di una civiltà, di un comune sentire di gran parte dell’Europa comunitaria è stato sottoposto ai morsi della crisi e della regolazione neoliberista dettata dall’UE, speranza e fiducia hanno lasciato il campo a sconforto e disillusione. Ne è vivida testimonianza il mutar di tono e d’accenti della pubblicistica che sempre più copiosa s’affolla a commentare ogni passaggio della vicenda comunitaria ed europea. Là dove nei titoli che accompagnavano l’albeggiare di Maastricht e dell’euro campeggiavano un tempo apertura al futuro e fiducia nel controllo del pianeta e del secolo nuovo, oggi dominano chiusure ed espressioni cupe quali «colpo di Stato» e «collasso», «fallimento» e «tramonto» o «Titanic», quando non addirittura evocazioni infernali: si pensi al «mostro» - per quanto «buono» - di Enzensberger o al «risveglio dei demoni» di Pisani-Ferry[30]. La scalata disinvolta del XXI secolo ha lasciato posto all’assedio del «mondo grande e terribile», alla chiusura claustrofobica di chi si rinserra a difesa del mondo di ieri, preda di pulsioni identitarie, quando non xenofobe,  e di un sordo «sciovinismo da benessere»[31].

Demos e demoni si frammischiano e sospingono a vicenda nella ricerca di spazio e legittimazione. I sommovimenti, vari e convulsi, in genere, trovano un terreno fertile nelle regioni ricche di un aggregato nazionale. A minimo comune denominatore vi è quasi sempre la richiesta di un federalismo spinto che, in nome di un presunto europeismo, vuole eguaglianza e promozione di opportunità per le parti più ricche di Europa. Di qui un ruolo sempre più centrale delle metropoli, di distretti e centri direzionali. Lo Sprawl della letteratura cyberpunk si vendica, mimando lo Stato e supponendo sovranità, rotonde e piene, che non esistono più nel mondo reale.

Cosa poi accade quando si paga un tributo così alto alla ricchezza come motore e principio costituente? Come si farà a negare allo stesso principio di mutarsi in regolo ordinatore di tutte le dinamiche, interne ed esterne, dell’area? Ad arrivar primi saranno sempre e soltanto i ricchi, i più dotati. Che magari per ora provano a maneggiare ricchezze straordinarie, senza accorgersi magari del rischio che esse possono tramutarsi in monocolture rischiose. Si pensi oggi al peso del petrolio del Nord nel dibattito e nelle dinamiche dell’indipendentismo scozzese. Lo scenario in poco tempo è stato terremotato dalle volute del prezzo crollato a livelli che possono renderne persino anti-economica l’estrazione: il supporto di una piena sovranità all’improvviso è apparso traballante e azzardato, una rischiosa prigione, di fronte alla prospettiva che anche la dismissione di pozzi debba abbisognare di investimenti.

Improvvisamente, e ad ogni latitudine, sotto i colpi della crisi fiscale dello Stato causata dallo stallo della crescita, il federalismo è stato investito da una clamorosa delegittimazione esistenziale e di prospettiva. Sembrava – in Italia soprattutto, con il corollario della riforma del Titolo V della Costituzione - la chiave di ingresso alla governabilità del XXI secolo. Doveva alleggerire la pressione fiscale e garantire una spesa pubblica ottimale. Si è rivelato un calvario. Ha inacidito i contribuenti. Deluso gli utenti. Arricchito corrotti e criminali. Adesso spesso lascia il campo al più radicale dei sogni o degli incubi: la flat tax.

Il risultato fondamentale di questa epocale spaccatura è un reciproco e vicendevole ritrarsi nelle proprie sfere di cittadini ed élites, di gente comune e governanti, fino al costituirsi di due mondi contrapposti: «c’è allora un mondo dei cittadini … e un mondo di politici e di partiti, con interazioni tra le due sfere in calo radicale. I cittadini mutano da partecipanti in spettatori, mentre le élites conquistano spazi sempre più estesi nei quali poter perseguire i loro particolari interessi. Il risultato è l’inizio di una nuova forma di democrazia, in cui i cittadini stanno a casa mentre i partiti continuano a governare»[32]. Osservata dall’alto, da un osservatorio sovranazionale, questa progressiva divaricazione si rivela come una radicale evaporazione di Stato e democrazia. Di fatto, il potere si sposta verso l’alto e altrove (l’Europa, le istituzioni sovranazionali). Alla fine non rimane che arrendersi all’amara constatazione di un potere sovranazionale, l’Unione europea, che risucchia tutte le politiche, senza però conquistare la politica o un popolo, un demos. Sul campo rimangono Stati alle prese con una politica senza politiche[33]. La si etichetti con Colin Crouch postdemocrazia[34] o con Mair politica senza popolo, assistiamo al passaggio ad una democrazia senza partiti, in cui il partito politico non è più casa del cittadino né abito del leader. Crollano i livelli di partecipazione politica così come l’affluenza alle urne. Muta drammaticamente la fedeltà dell’elettore. Ovunque in Europa i sistemi politici sono in crisi profonda, ovunque vanno in frantumi le tradizionali coordinate bipartitiche che un tempo reggevano il sistema (la stessa Germania, icona della stabilità, ha visto i suoi due tradizionali partiti dell’alternanza, SPD e CDU, passare dal 90% a poco più del 56% delle preferenze elettorali nel 2009). Ovunque la politica incrocia e subisce l’onnipotenza della comunicazione diventando spesso -  a fronte dell’immediatezza, delle urgenze di quest’ultima – incomunicabilità, disperazione. Nella sfera onnipotente della comunicazione la politica come strumento della partecipazione finisce sotto osservazione come pezzo, segmento di un mondo più largo e disteso – la vita - in cui finiamo con l’osservare la politica come una sfera estranea alla nostra esperienza complessiva: qualcosa che riguarda la governabilità, di esclusiva pertinenza delle élites. E’ così che alla fine rimangono sul terreno partiti senza militanti, in un «processo di inesorabile ritiro dei partiti dal campo della società civile verso quello del governo e dello Stato»[35]. Da agenti della rappresentanza si mutano o pervertono in agenzie della governabilità.

In Europa più che altrove questo processo sta conoscendo le sue evoluzioni più radicali. Qui più che altrove nel mondo la governance – nei suoi molteplici tentacoli e nelle sue mille declinazioni – è divenuta una calamita inesorabile. Si pensi al Belgio e alla crisi di governo durata per anni: non vi sono state conseguenze drammatiche. Quasi nessuno si è accorto dell’assenza di un governo appesi di fatto al paracadute della governance sovranazionale.

Qui più che altrove una straordinaria immaginazione costituente prova ad edificare e conquistare un popolo europeo, segando allo stesso tempo, con le politiche di austerità, il ramo di quello stato sociale europeo su cui da decenni poggia una reale, possibile identità europea. Perché meravigliarsi se, marchiando lo Stato sociale europeo come ruggine, eurosclerosi, immediatamente il percorso di «una unione sempre più stretta tra i popoli d’Europa» si è popolato di ostacoli e sommovimenti, se già l’annuncio dell’euro ed i primi referendum si mutarono in crisi dello SME, se il tentativo di rinsaldare il rapporto tra il mondo del lavoro e l’UE con il Piano Delors e il trattato di Amsterdam ha poi dato vita al Patto di Stabilità, se diritti e poteri conquistati con il Trattato di Lisbona pervertono nei nuovi lacci costituzionali del pareggio di bilancio.

In questa inesorabile – almeno finora – evaporazione del politico, sembrano emergere due risultati, due prodotti su cui converrà tener desta l’attenzione: «società incivile» e «bipensiero». 

Con la prima espressione intendiamo quell’insieme di modificazioni strutturali che, nei complessivi processi di deregulation, consegnano a nuove, inedite e a volte innominabili combinazioni di pubblico e privato, uno straordinario potere di condizionamento della vita civile e politica. Che si parli delle moderne oligarchie, figlie di decisioni politiche, o di mafie e poteri criminali capaci di espandersi ora ben al di là degli originari distretti, in forza dei nuovi meccanismi di governance, siamo di fronte a fenomeni modernissimi non più catalogabili sotto le tradizioni etichette della perversione corruttrice. Su di essi vale la pena di dirigere uno sguardo continuo e specifico.

E così anche per il «bipensiero» o «doublethink» eternato da Eric Arthur Blair (alias George Orwell) nel suo 1984: «Il bipensiero è l’anima del Socing, perché l’azione fondamentale del Partito consiste nel fare uso di una forma consapevole di inganno, conservando al tempo stesso quella fermezza di intenti che si accompagna alla più totale sincerità. Raccontare deliberatamente menzogne ed allo stesso tempo crederci davvero, dimenticare ogni atto che nel frattempo sia divenuto sconveniente e poi, una volta che ciò si renda di nuovo necessario, richiamarlo in vita dall'oblìo per tutto il tempo che serva, negare l'esistenza di una realtà oggettiva e al tempo stesso prendere atto di quella stessa realtà che si nega, tutto ciò è assolutamente indispensabile. Perfino quando si usa la parola bipensiero si cancella questa consapevolezza, e così via, all’infinito, con la menzogna in costante posizione di vantaggio rispetto alla verità»[36].

Converrà tenere a mente queste parole nell’osservare la politica e le sue epocali mutazioni.

 



[1] W. Shakespeare, Amleto, atto I, scena V; traduzione di Goffredo Raponi, LiberLiber.

[2] M. Augé, Non-Lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité, Paris, Seuil, 1992; trad. it. Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Milano, Elèuthera, 1996

[3] Per uno sguardo d’assieme, cfr. D. Yergin, The Prize: The Epic Quest for Oil, Money  and Power, New York, Free Press, 1991, tr. it. Il premio. L’epica corsa al petrolio, al potere, al denaro, Milano, Sperling & Kupfer, 1991.

[4] Tra tutti basta citare Cities in a World Economy, Thousands Oaks, Pine Forge Press, 1994 tr. it. Le città nell’economia globale, il Mulino, Bologna 2010.

[5] Vero e proprio fondale della trilogia cyberpunk di William Gibson: Neuromante, Count Zero e Monna Lisa Cyberpunk.

[6] Urban World. Cities and the Rise of the Consuming Class, McKinsey Global Institute, june 2012.

[7] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Torino, Einaudi, 1975, vol. III, pp. 1589-90.

[8] M. Foucault, Naissance du biopolitique. Cours au Collège de France 1978-1979, Paris, Seuil-Gallimard, 2004, tr. it.: Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Milano, Feltrinelli 2005, p. 67.

[9] In particolare, UNPD, Human Development Report 1999, Oxford, Oxford University Press, 1999, tr, it. Rapporto sullo sviluppo umano: vol. 10, La globalizzazione, Milano, Rosenberg & Sellier, 1999, p. 51.

[11] M. d’Eramo, Lo sciamano in elicottero. Per una storia del presente, Milano, Feltrinelli, 1999, p. 210.

[12] P. Hassner, La terreur et l’empire. La violence et la paix II, Paris, Éditions du Seuil, 2003, p. 352.

[13] K: Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie, Berlin, Dietz Verlag, 1953, tr. it. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Firenze, La Nuova Italia, 1970, vol. II, p. 160.

[14] D’Eramo, op.cit., p. 154.

[15] Hassner, op. cit., p. 51, che cita in proposito l’opera di E. Balibar – E. Wallerstein, Race, class, nation: les identités ambiguès, Paris, La Découverte, 1988, tr. it. Razza nazione classe. Le identità ambigue, Roma, Edizioni associate, 1991.

[16] Jean-François Bayart, L’illusione identitaire, Paris, Fayard, 1966, posiz. 69.

[17] Hassner, op: cit., p.51.

[18] Valgano per tutti i riferimenti a E. J. Hobsbawm, Nations and Nationalism since 1870, tr. it. Nazioni e nazionalismo dal 1780. Programma, mito, realtà, Torino, Einaudi, 1991; E. J. Hobsbawm- T. Ranger (eds.), The Invention of Tradition, Cambridge, Cambridge University Press, 1983, tr. it.  L’invenzione della tradizione, Torino, Einaudi, 1987; P. Anderson, Imagined Communities, London-New York, Verso, 1983, tr. it. Comunità immaginate. Origini e diffusione del nazionalismo, Roma, manifestolibri, 1996.

[19] Cfr. in generale C. Meier, Die Entstehung des Politischen bei den Griechen, Frankfurt am Mein, Suhrkamp Verlag, 1980, tr. it.  La nascita della categoria del politico in Grecia, Bologna, il Mulino, 1988, in particolare le pagine dedicate alla riforma di Clistene.

[20] P. Veyne, Les Grecs ont-ils cru à leurs mythes?, Paris, Éditions du Seuil, 1983, tr. it. I Greci hanno creduto ai loro miti?, Bologna, il Mulino, 1984, p. 32.

[21] Ivi, p. 187.

[22] Una puntuale ricognizione in M. Revelli, Finale di partito, Torino, Einaudi, 2013, posiz. 158.

[23] A. O. Hirschman, Exit, Voice and Loyalty. Responses to Decline in Firms, Organizations and States, Cambridge MA., Harvard University Press, 1970, tr. it. Lealtà, defezione, protesta. Rimedi alla crisi delle imprese, , dei pariti e dello Stato, Milano, Bompiani, 1982.

[24] Quasi scontati i richiami a J. Ortega y Gasset, La rebelión de las masas, Madrid, Ediciones de la Revista de Occidente, 1930, tr. it. La ribellione delle masse, Bologna, il Mulino, 1962 e 1984, e Ch. Lasch, The Revolt of the Elites  and the Betrayal of Democracy, New York-London,  W. W. Norton & Co., 1995, tr. it. La ribellione delle élites. Il tradimento della democrazia, Milano, Feltrinelli, 1995.

[25] Credit Suisse Research Institute, Global Wealth Databook 2014, october 2014 e Oxfam International, Wealth: Gaving It All and Wantin More, january 2015.

[26] Tra tutti, B. Milanovic, Worlds Apart. Measuring International and Global Inequality, Princeton University Press, 2005, tr. it. Mondi divisi. Analisi della diseguaglianza globale, Milano, Bruno Mondadori, 2007; U. Beck, Die Neuvermessung der Ungleichheit unter den Menschen, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 2008, tr. it. Disuguaglianza senza confini, Roma-Bari, Laterza, 2011, T. Piketty, Le capital au XXI siècle, Paris, Éditions du Seuil,  2013, tr. it. Il capitale nel XXI secolo, Milano, Bompiani, 2014.

[27] M. Revelli, Poveri, noi, Torino, Einaudi, 2010, pp. 25-34.

[28] Aristotele, Politica, Roma-Bari, Laterza, 1993, pp. 85-6, 153.

[29] A. J. Toynbee, Civilization on Trial, New York, Oxford University Press, 1948, tr. it. Civiltà al paragone, Milano, Bompiani, 1983, pp. 39-41

[30] Tra tutti cfr. H. M. Enzensberger, Sanftes Monster Brüssel oder Die Entmündigung Europas, Berlin, Suhrkamp Verlag, 2011 tr. it. Il mostro buono di Bruxelles, ovvero l’Europa sotto tutela, Torino, Einaudi, 2013;  J. Pisani-Ferry, Le Reveil des Démons. La crisi de l’euro et comment nous en sortir, Paris, Fayard, .

[31] L’espressione di Elmar Altvater fu coniata di fronte alle prime manifestazioni di chiusura identitaria e intolleranza nel 1993 nell’Europa del Centro-Nord: «il Manifesto», 30 maggio 1993.

[32] P. Mair, Ruling the Void. The Hollowing-Out of Western Democracy, London and New York, Verso, 2013, posiz. 1453.

[33] V. A. Schmidt, Democracy in Europe. The EU and National Politics, Oxford, Oxford University Press, 2006, p. 51 (citato in S. Goulard - M. Monti, De la Démocratie in Europe, Paris, Flammarion, 2012, tr. it. La democrazia in Europa. Guardare lontano, Milano, Rizzoli, 1992, p. 51).

[34] C. Crouch, Postdemocrazia, Roma-Bari, Laterza, 2003

[35] .Mair, op. cit., posiz. 1253.

[36] Milano, Mondadori, 1950, posiz. 3263.

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A carissimo prezzo

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A carissimo prezzo

Sostituire al “Sol dell’avvenire” un’Europa corazzata di austerità sta costando carissimo da oltre vent’anni alla sinistra, in tutte le sue formule e famiglie. Dalla Danimarca viene l’ultima conferma. La terra del più avanzato riformismo si scopre insidiata da mille paure. E soprattutto rivela che la riscoperta della “sovranità nazionale” è un farmaco molto più velenoso del male che dovrebbe curare

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Colpi di Stato?

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Pubblicato su «Sbilanciamoci» con il titolo Unione Europea, colpo di stato? il 25 febbraio 2014 (http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/Unione-europea-colpo-di-stato-22609)

 

 

 

 

 

Una bella novità

«L’acqua che non ha fatto in cielo sta». Con questa levantina versione del “tutti i nodi vengono al pettine”, da tempo ci si dispone al diluvio che da destra s’addensa sulle urne europee. Larga fa presa una rassegnata e fatalistica aspettativa: il voto certificherà un divorzio profondo tra Unione europea, istituzioni e grandi settori della società europea.

Ci fu un tempo in cui la collera dei più s’apriva alla speranza e la nutriva, alimentava ricerca di verità, provava a marchiare il futuro. Anche in giorni a noi più vicini, però, si è potuto salutare movimenti vogliosi di riplasmare la globalizzazione, contrastare, come «seconda superpotenza», l’unilateralismo della folle guerra al terrorismo e magari riaffermare regolazioni condivise dell’umano consorzio e dei suoi beni. Da tempo, invece, viviamo un mondo sfrangiato da folate di collera e rancore sociale: generazioni precarie s’accalcano in sequenza, frammiste a ceti medi smagriti, denudati dei paramenti abituali, del welfare che fu. Come mercurio scosso schizzano e s’aggrovigliano senza sosta. Sul web o in raduni selvaggi, su piazze punteggiate da forconi, Bonnetts Rouges o svastiche dalle fogge più varie. A dar tono una comune intonazione passatista: si impugna e reinventa un passato immaginario come balsamo e colla per i cocci di vita e lavoro. Per tutt’Europa un nuovo nazionalismo, dalle forti venature populiste, riorienta a destra tanto le nostalgie dell’«età dell’Oro» occidentale, quanto a Est la ricerca di ripari dal nuovo protagonismo russo. Per fortuna, a sinistra la percezione realistica dei pericoli s’accompagna questa volta a un elemento di novità. Di fatto, prevale una volontà larga a non esitare più dubbiosi di fronte all’Europa, a riconoscerla finalmente come il campo su cui, senza più indugi, si è chiamati ad una prova senza appello: in uno, conquistare la ridefinizione di una sinistra moderna e il riorientamento dell’Unione europea, una sua radicale correzione di rotta. Questo il valore della convergenza attorno alla candidatura di Alexis Tsipras di settori e movimenti magari uniti occasionalmente rispetto a battaglie come il No al trattato costituzionale, ma finora profondamente divisi quanto agli orientamenti di fondo: politica sovranazionale o ritorno allo Stato nazione, eurobond o uscita dall’euro, denuncia unilaterale del debito, fronte dei paesi mediterranei versus Europa germania ecc. Inquieta però che questa discontinuità sia segnata da un dato culturale molto insistito: la diffusione, l’uso di chiavi, categorie analitiche della più recente vicenda europea dal taglio cupo e radicale, quali “colpo di stato”, “manomissione”, “rottura” della legalità costituzionale, “morte” o “fine della democrazia” ecc. Il tutto entro orizzonti cospiratori e paracomplottistici, teatro di oligarchie e troike aduse al segreto, in stile Gruppo Bilderberg o Trilateral Commission (soliti in verità a esternare, come soft power, ogni minimo pensiero).

 

Cupi orizzonti

Basta allineare in sequenza – limitandosi ai soli libri, più o meno recenti – titoli e autori: il «colpo di Stato di Gallino si rispecchia nella «dittatura» della Magli. Con meno enfasi i maestri più blasonati della cultura europea – da Beck a Bauman a Habermas – insistono sulla «crisi» epocale. Altri, come Enrico Letta, si chiedono se non sia finita «l’avventura europea», mentre Heisbourg decreta «la fine del sogno». Alcuni più radicali indicano rendez-vous fatali: «collasso» per Bifo, «fallimento» per Amoroso. Bellofiore scorge la «barbarie che avanza», Bini Smaghi vede l’Europa «morire d’austerità». Altri pronosticano approdi definitivi: Klotta e Jamet l’«ultima chance», Bagnai un «tramonto», Giacché il «Titanic». Su fondali più cupi, Pisani- Ferry parla di «risveglio dei demoni». Lapidario Erzensberger addita il «mostro di Bruxelles», sia pure «buono».

Tutti temi e titoli adeguati all’ «inverno del nostro scontento»: un’età in cui l’umanità e il mondo sono tornati a spaccarsi per diseguaglianze così radicali da mettere in discussione ormai – non solo di fatto, ma in linea di principio – esistenza e funzionamento della democrazia. Val la pena, en passant, di evidenziare il radicale mutamento di clima rispetto all’alba dell’Unione Europea. Quando Maastricht diveniva un termine d’uso comune, altri erano i titoli dedicati all’Europa e all’UE in fasce. Derrida annunciava il debutto sulla scena del nuovo soggetto: «Oggi l’Europa»; Dastoli e Vilella didascalici spiegavano «la nuova Europa». Morin e altri un generale mutamento d’epoca e spazi con «L’Europa nell’era planetaria». Gadamer si raccoglieva, per meglio delinearne il futuro, sull’«eredità dell’Europa», mentre Dahrendorf, Furet e Geremek si soffermavano sul suo DNA: «la democrazia in Europa». Non v’erano dubbi allora sulla giostra della storia e sul suo senso di marcia.

Qualche interrogativo sorge invece sull’apparato analitico che oggi sorregge il dibattito sulle sorti dell’Europa e della sinistra. Giorni fa, su «Sbilanciamoci», per rappresentare alcuni tratti dell’integrazione europea e l’egemonia del neoliberalismo, si è evocato un «nuovo totalitarismo» (Valentino Parlato), mentre uno studioso attentissimo e acuto come Ferrajoli, riecheggiando altri suoi scritti e le indicazioni di un costituzionalista insigne quale Giuseppe Guarino, ha parlato -in merito a «fiscal compact» e «pareggio di bilancio» come nuovo principio costituzionale -di diritto comunitario «violato nei suoi fondamenti sia sul piano delle forme che su quello dei contenuti». Le parole – come si dice? – sono pietre, anche in tempi in cui il loro uso comune quando non corrivo (dalle parti di Grillo & Co. o di forconi), rischia di ingenerare confusioni o di portare altra legna ai roghi del rancore. Termini come «colpo di Stato», «totalitarismo» o «mostro» non lasciano dubbi sul modo per combatterli: il costituzionalismo dei moderni impone di ‘resistere’ e ‘rovesciarli’. Come si fa a individuare in una UE siffatta il nuovo terreno su cui promuovere aggregazione e nascita di una moderna sinistra europea?

Intanto, val la pena di chiedersi se questi termini descrivano in modo adeguato gli sviluppi del mondo, a partire almeno dal 1989: in particolare, quelli intervenuti sul Vecchio Continente nell’ultimo ventennio con la nascita dell’UE. Per restare all’Europa, siamo in presenza di un corpo sovranazionale di regole – i trattati di Maastricht, in parte ereditati dalla CEE -riscritto fruttuosamente da ben tre conferenze intergovernative, una Carta dei diritti, una Costituzione mancata, qualche turno di elezioni europee, svariati referendum popolari e infiniti processi statuali di ratifica, per gran parte promossi e gestiti da governi di centro-sinistra, divenuti a metà del ventennio ampiamente maggioritari in Europa. Luciano Gallino li riassume tutti, fin dalla nascita dell’UE ma soprattutto rispetto alle risposte alla crisi della finanza globale ultima, con l’espressione «colpo di Stato di banche e governi». In verità, nel suo mirino è l’irresistibile ascesa dell’egemonia neoliberale. Egli ne ritraccia la genesi – con qualche ragione – nel 1971. Di capitale importanza, vera e propria pietra miliare, sarebbe stato il Powell Memorandum, dal cognome del suo estensore, un consulente della Camera di Commercio USA, divenuto poi giudice della Corte suprema. Lì in nuce erano già i principi sviluppati poi dalle schiere di think tank neoliberali nella promozione universale di una egemonia che avrebbe permesso la successione di colpi di stato e/o di mano delle oligarchie bancarie e di governo. Forse un filo analitico troppo esile per allineare gli sconvolgimenti del mondo dal 1971 in poi: dal Vietnam alla crisi dell’impero americano, dalle scelte di Nixon sugli obblighi di Bretton Woods all’«arricchitevi tutti» di Deng, caduta del Muro e dell’URSS, nascita dell’UE, crisi del debito, crisi finanziaria ecc. Magari la storia del nostro neoliberalismo è anche più complessa e antica. Basti pensare alle proposte che già nel 1938 una imponente schiera di studiosi dibatteva a Parigi con il «colloquio Walter Lippman». O magari alla successiva iniziativa di Mont Pelerin e ai fasti dell’ordoliberalismo e dell’economia sociale di mercato tedesca.

 

«Una scelta fraudolenta»?

Se vedute così vaste scontano una eccessiva semplificazione, converrà magari esaminare il crivello con cui un costituzionalista acutissimo, quale Giuseppe Gaurino, ha sottoposto trattati e regolamenti ad un esame serrato e fortunato, condiviso poi da tanti e divenuto, nel novembre 2013 su giornali come “Il Foglio”, una vera e propria campagna: «Un golpe chiamato euro». La sua tesi -articolata, diffusa in più scritti ma soprattutto nel volume «Salvare l’Europa, salvare l’euro», Passigli 2013 -ha un cuore preciso. A danno dell’Europa si è perpetrato un «colpo di Stato», precisando che questa espressione viene usata «quando si modifica in aspetti fondamentali il sistema costituzionale di uno stato con violazione delle norme costituzionali vigenti». Il bisturi affonda sicuro: «un oscuro colpo di stato ... realizzato non con la forza ma con fraudolenta astuzia: attraverso la fraudolenta adozione da parte del Consiglio europeo di un regolamento, il 1466 del 7 luglio 1997, che ha sottratto agli stati la funzione esclusiva da esercitarsi singolarmente e come gruppo di promuovere lo sviluppo dell’UE e della zona con le proprie politiche economiche». In generale, egli osserva che «all’obiettivo dello sviluppo è sostituito un risultato consistente nella parità del bilancio a medio termine», un mantra divenuto poi ossessivo con decisioni e regolamenti quali il fiscal compact o la règle d’or del «pareggio di bilancio»: vere e proprie tagliole anche per i margini di movimento permessi dai trattati, per la stessa soglia di deficit pubblico al 3% del PIL. Ad aggiungere suspence vi è poi l’affermazione che «le persone fisiche, alle quali far risalire l’attuazione del golpe e dei mezzi fraudolenti per realizzarlo sono ignote. Non si conosce né chi ne sia stato l’ideatore, né il nome dell’estensore materiale del testo del regolamento». In realtà, in altra sede (risposta all’on. Morganti del 22-2-2013), il professor Guarino ha ben rappresentato la lunga catena decisionale allora intervenuta, tipica della procedura cosiddetta di codecisione: «Il lungo percorso della procedura (vi avevano partecipato la Commissione, il Consiglio, il Parlamento europeo, di nuovo il Consiglio) si era protratto per circa otto mesi». La precisazione chiarisce molto. Il regolamento in questione in realtà attuava una risoluzione adottata dal Consiglio europeo pochi giorni prima, ovvero il 16 e 17 giugno 1997. Non un Consiglio qualsiasi. Riunito ad Amsterdam aveva varato la revisione di Maastricht nota come Trattati di Amsterdam, accompagnata dalla risoluzione relativa al cosiddetto «Patto di stabilità e di crescita». Una decisione oscura e fraudolenta? Se ne discute per iniziativa dei tedeschi da oltre due anni. Kohl e Waigel, il ministro delle Finanze, avevano fatto notare che a Maastricht erano nate le regole per far nascere l’euro e definire i paesi rispettosi dei parametri su debito, deficit ecc. degni di partecipare all’impresa. Ma, partito l’euro e definiti i partecipanti, quale linea si sarebbe seguita? Si sarebbe tornati al lassismo di bilancio? Di qui il bisogno di un patto per sorvegliare e coordinare le politiche economiche.

La proposta è sul tavolo in accese discussioni da due anni. In Francia è al centro della campagna elettorale vinta dai socialisti. Jospin prova subito a proporre al Partito del socialismo europeo, riunito a Malmö il 5-7 giugno di farsi protagonista al Consiglio di Amsterdam, previsto per la settimana successiva, di una moratoria sul patto di stabilità. E’ bene ricordare che in quella primavera sinistra e centro-sinistra hanno conquistato 12 paesi dei 15 allora membri dell’UE. Ma il PSE con mille distinguo lascia soli i socialisti francesi (paradossale risultato della prima ed unica volta in cui un partito politico europeo si è riunito a congresso attorno ad un tema specifico e stringente di vita dell’UE: altro che atto oscuro e fraudolento). Jospin conquisterà nelle conclusioni di Amsterdam che la risoluzione, riscritta come «patto di stabilità e crescita» e di fatto composta di divieti imperativi, sia accompagnata da un’altra risoluzione su «occupazione, competitività e crescita», piena sola di ottativi e auspici. Di lì a poco anche Schröder arricchirà il palmares socialdemocratico europeo. Come sia andata a finire con le riforme del Welfare tedesco in omaggio alla stabilità è scritto nel DNA di Angela Merkel e della nuova Grosse Koalition.

Perché etichettare con la sigla di «colpo di Stato» un processo simile, concluso poi da ratifiche puntuali dei trattati, con risoluzioni e protocolli allegati, ad opera di tutti i parlamenti (nel caso specifico, Amsterdam sarà ratificato in Italia anche dal PRC in genere attestato sul diniego a trattati e costituzioni europee)? Vale la pena di notare nel merito che la procedura del patto di stabilità è di fatto attuativa degli articoli dei Trattati relativi al coordinamento delle politiche economiche. Insomma, un primo passo per delineare una politica economica comune, una tegola di quel tetto politico che ancora manca all’UE in forme compiutamente democratiche. Sicuramente non piace l’ intonazione ancor più rigorista delle prescrizioni sul limite del deficit al 3%, ma su questo punto ha avuto facilmente partita vinta Barroso nella sua risposta a Guarino quando ha evidenziato che si tratta di una garanzia preventiva rispetto al limite del 3% (e sicuramente pensava alla decisione informale di Germania e Francia del 2005, entrambe colte in fallo sui criteri di stabilità, che sospesero temporaneamente validità e sanzioni del «patto» con una discrezionalità ad altri negata). Schierarsi contro l’austerità è sacrosanto. Che lo si faccia in controtendenza rispetto al bisogno di conquistare una reale sovranità condivisa e sovranazionale non porta in alcun luogo.

 

Un vizio d’ origine

Più in generale, se il punto reale in discussione riguarda il fatto che si sarebbe «sottratta agli stati la funzione esclusiva da esercitarsi singolarmente e come gruppo di promuovere lo sviluppo dell’UE e della zona con le proprie politiche economiche», bisogna allora convenire che non si tratta di un fraudolento trabocchetto o incidente di percorso del 1997. Questo vulnus è congenito, istitutivo dell’UE. Unica al mondo su scala sovranazionale, ha scelto il comandamento esclusivo di vincolarsi -come è scritto nei «principi» di Maastricht -«ad una politica economica condotta conformemente al principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza» e ad «una politica monetaria e di cambio ... con l’obiettivo principale di mantenere la stabilità dei prezzi». Lungo questo dettato i trattati europei – qui ancora unici al mondo -da allora fanno esplicita proibizione di tutta una serie di strumenti di politica economica – facilitazioni creditizie o accesso privilegiato al credito per qualsiasi soggetto pubblico ecc. – fondativi non del lassismo di stato, ma di quell’ embedded liberalism, il liberalismo regolato di ispirazione keynesiana, colonna portante dei Trente Glorieuses, l’età aurea dello sviluppo occidentale. Come coesistono questi divieti – da Maastricht in poi riproposti in ogni carta e per ogni dove – e i principi del costituzionalismo antifascista, propri di fatto di ogni costituzione europea e limpidamente squadernati dall’art. 3 della nostra Costituzione repubblicana: «la Repubblica rimuove gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della vita umana»? Come si fa a «rimuovere», quando il nuovo costituente europeo impone di usare solo e soltanto i mezzi e le logiche del mercato? Di un mercato che, con i suoi imperativi, in genere produce gli «ostacoli di ordine economico e sociale» in questione?

I risultati di questo dualismo costituzionale – risolto il più delle volte e per principio a favore della regolazione sovranazionale, come rivela anche la sentenza ultima di Karlsruhe – sono gli acidi ovunque corrosivi di welfare e democrazia, l’ottusità di una austerità che punta a ridurre i numeratori dei rapporti relativi a deficit e debito con politiche volte invece a schiacciare i denominatori. Il «patto di stabilità» e i suoi derivati – six plus, fiscal compact, pareggio di bilancio – non sono un parto di stupidità, come già disse Prodi, né il colpo di Stato (o di sonno) del dibattito odierno. Sono figli legittimi – aspidi allevati in seno -di una Unione che funzionalisticamente ha provato a fare della moneta e dei suoi imperativi neoliberali il motore immobile di una «integrazione sempre più stretta» Quei serpenti, nutriti dall’eurocrazia con le sue regole, avvelenano oggi l’Europa col loro morso e un livoroso antieuropeismo di massa. Da quella moneta così concepita è partito un immenso processo decostituente che, nello smontaggio dello Stato sociale, stravolge le democrazie europee. In nessun luogo più limpidamente che in Europa la postdemocrazia si rivela portato non di un semplice assalto delle multinazionali alla politica e alla democrazia, ma nuova, oligarchica regolazione della società, decostruzione elitaria della modernità a più livelli, negli equilibri segnati da nuove abissali diseguaglianze. Il neoliberismo, ancor più rispetto al passato, non ha a suo tratto distintivo il rifiuto dello Stato e della politica, ma la loro domesticazione a elemento di regolazione e ottimizzazione del mercato, di ulteriore mercificazione della vita. Perciò, soprattutto in Europa, non basta solo un cambio di politica economica (che pur permette di respirare) dal momento che quest’ultima significa anche istituzioni, regolazioni sovranazionali ordinate giuridicamente in vincoli mutualistici, ma pur sempre soggetti a diseguaglianze strutturali. Non c’è Palazzo di Inverno da conquistare né una unica stanza dei bottoni. Altro che casematte di gramsciana memoria. Nella nostra Europa l’azione più che mai si afferma per piani multipli e interconnessi. Per praticare e riscrivere le regole del gioco la sinistra non può attestarsi su letture crolliste e strumentali del politico – i comitati d’affari di Bruxelles e Strasburgo ecc. – o su consolatorie visioni della moltitudine, naturalmente disposta a rete nell’Unione, portatrice naturale con i suoi sussulti di nuove regolazioni del comune.

Il mondo e l’Europa riplasmati in quasi mezzo secolo dal neoliberismo sono ad una impasse che produce ormai mostri. La sinistra, i soggetti sopravvissuti alla rottura del 1989 o nati con essa non sono riusciti finora a prendere nemmeno le misure – soprattutto in Europa -di questa mutazione, Di qui spiazzamento e marginalità. Riconquisteranno un regolo utile solo liberandosi – e per davvero -dalla giacobina tentazione di scorciatoie e capri espiatori, balsamo d’ogni impotenza. Più che mai ne va della propria salute e sopravvivenza.

Isidoro Davide Mortellaro

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Illuminazioni

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Ieri su un bus a Parigi. Salgo e, come al solito, preferisco mettermi in piedi in un angolo. Con la coda dell’occhio noto nell’apposito spazio riservato  - e in Italia? - una carrozzina, anzi una motoretta per invalidi. Non è delle solite. Un po’ chiassosa, giallo sole, giovanile. C’è una ragazza: piccola, con una grande frangetta, stampelle in grembo. Noto distrattamente che usa lo specchietto retrovisore per truccarsi. E’ un’operazione lunga e accurata, intervallata da velocissimi messaggi sul telefonino. Mi colpisce la naturalezza, la disinvoltura, la calma con cui le sue mani si muovono. Ci sono posti liberi di fronte e allora mi siedo. Voglio osservare senza dare nell’occhio, senza divenire molesto.

Dapprima è il phard, lento, insistito. Passa al rossetto. E’ il turno di ciglia e sopracciglia. Tutto con grande precisione. Estrae i vari astucci e pennellino da una borsa appesa al manubrio, lato sinistro. Controlla con cura il risultato nello specchietto. Ritocca,  riguarda finché non è soddisfatta. A destra c’è un’altra busta appesa al manubrio, trasparente. E’ gonfia di una bella bottiglia di champagne e una scatola. Sembrano dolci. Spiegano tutto. Soprattutto perché è così assorta, così lontana da chi la circonda.

Arriva la fermata. Devo scendere. Mi alzo ma devo cederle il passo. Scende anche lei. Lo fa in retromarcia verso la porta, con la naturalezza di una lunga abitudine. Sfreccia nella folla su Boulevard Saint-Michel e mi distanzia. Negli occhi mi resta impressa la scritta incisa sul sedile: “À bientôt, j'espère”.

Ho gli occhi umidi. Mai vista tanta voglia di vivere, tanta ricerca di gioia e futuro.

 

Una nota forse inutile: “À bientôt, j'espère” è anche il titolo - divenuto modo di dire - di un famoso film del ’68 operaio francese in cui si lottava non solo per il salario ma per un’altra forma di vita

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Senza padri né maestri

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Senza padri né maestri

Titolo azzeccato di un bel libro pubblicato anni fa sui giovani e i loro mondi. Oggi s’attaglia bene alla condizione di quest’Italia e di noi tutti, da tempo incapaci di sbrogliare la matassa in cui, industriosamente e con una qualche voluttà, ci siamo avvolti

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Il bersaglio ideale

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Il bersaglio ideale

 Renzi l’ha scelto con cura. Tempestare di freccette Massimo D’Alema serve a più scopi. Niente di meglio di uno della vecchia ditta, un ‘comunista’, per coprirsi a destra e nel centrosinistra allargato nessuno più di lui ha seminato il ‘massimo’ di rancori a antipatie.  Tenerlo nel mirino di qui all’8 dicembre permette accrediti e incassi a più sportelli: un atout straordinario per l’OPA lanciata da Renzi sul PD.