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EOLO E L'ATOMICA

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Eolo e l’atomica

Pubblicato il 28 marzo 2022 su «pagina21.eu» Rivista della Fondazione Giuseppe Di Vagno

Le cronache dell’epoca ci dicono che fu assai elaborata la ricerca di un emblema per la nascente NATO-OTAN, quando all’indomani della guerra di Corea si volle dar vita all’organizzazione militare fondata sul Trattato del Nord Atlantico firmato due anni prima, nel 1949. Dopo varie ricerche e proposte solo nell’ottobre del 1953 si giunse infine – su indicazione di Lord Ismay, primo segretario dell’organizzazione – all’immagine stilizzata di una rosa dei venti o bussola: l’ideale per orizzontarsi nella ricerca della pace. Tutto racchiuso entro un cerchio utile a garantire l’unità dei vari firmatari del patto.

Insomma, un emblema, uno strumento per tempi assai tempestosi, per mantenere la rotta tra marosi e burrasche. Un aggeggio di cui si sente un gran bisogno oggi, mentre infuria una guerra in cui si fa ormai giornaliero ricorso alla minaccia dell’atomica o d’altre armi assai micidiali. Ne son piene le prime di giornali e social-network, così come i lanci di TG e talk show. E senza più nemmeno la faccia di Putin, moltiplicato sugli schermi di tutto il mondo al momento degli annunci fatali alla nazione russa. Da tempo ogni sera vediamo moltiplicarsi sugli schermi nubi o funghi malefici. Turbano ormai le serate di ognuno. Le mutano in incubi popolati dalle immagini quotidiane di morti e rovine. L’altro ieri, in prima serata, Vladimir Solovyov, intrattenitore principe di Rossya 1, ha sollazzato il pubblico con il ricorso alla minaccia dell’arma fatale. E così si è prodotto in un annuncio mortifero: «I Polacchi debbono sapere che in trenta secondi non resterebbe più nulla di Varsavia».

Immediate le reazioni in ogni parte del globo e da ogni versante. Dalle colonne del Corriere della Sera passando a quelle del New York Times, per Le Monde o il Washington Post o per la celebrata, prestigiosissima, Foreign Affairs, uno solo l’interrogativo sospeso sulla testa del mondo: Rethinkink the Unthinkable? Ripensare l’Impensabile?

E giù con i richiami fatali alla mutua distruzione dell’umanità. Conditi ora dalle molteplici enumerazioni di ben altre fatali occorrenze. Che succede nel caso si usi – come sembra già accaduto e per più volte – il fosforo bianco? E se si fa ricorso ad altri composti chimici? Qualcuno potrebbe utilizzare armi batteriologiche? E se queste sfuggissero da questo o quel laboratorio?

Attenzione, i russi sono stremati. La situazione sta loro sfuggendo di mano. Può darsi anche la possibilità che, nel tentativo di trovare una rapida via d’uscita, una scorciatoia, azzardino mosse estreme. Se provano infine a passar parola all’atomica? Non quelle micidiali proiettate all’altro lato del mondo dai vettori intercontinentali. Magari si sgancia qualche bomba tattica: un multiplo modesto – per dir così – dei funghi sbocciati su Hiroshima o Nagasaki.

E via alla giostra su giornali e TV: la parola passa subito agli esperti.

Vi è bisogno di orizzontarsi seriamente. È l’ora delle stellette, degli strateghi d’ogni indirizzo e cultura. Il lettore comune fa fatica a destreggiarsi con cartine e mappe complicate, sigle astruse. Poi all’improvviso cade la menzione per qualche venticello fatale. E allora anche il termine più astruso, più strambo – spill-over – si illimpidisce e rivela i suoi risvolti mostruosi. Che succede e dove se nell’attimo fatale in cui si sgancia un composto chimico, batteriologico o atomico – tattico, per carità – su qualche angolo di Ucraina, il vento spira da Ovest?  E se non è Tramontana, con strascichi sul Mar Nero, ma Libeccio? O Ponente? Tutto rischia di tornare indietro, di rivoltarsi contro, verso la casa di chi ha sganciato?

Allora anche il lettore, lo spettatore meno acculturato comprende, trasale o rabbrividisce. Alle nostre latitudini, noi pugliesi ne abbiamo già fatto esperienza. Abbiamo già conosciuto questi venti e questi annunci col disastro di Chernobyl. Vietato andare sulla Murgia a raccogliere funghi. Niente cardoncelli, per ora. In Francia si si ricorda ancora dello scandalo e dei brutti quarti d’ora rimediati allora da Chirac e Sarkozy per colpa dei servizi metereologici nazionali. Sicuri avevano annunciato che la nube radioattiva non aveva valicato Alpi e alture francesi. Ancora oggi grava il peso delle accuse e dei dubbi del tempo.

Non vi sarebbe spazio adesso se non per malinconici o mesti sorrisi. Solo che a turbare ora i nostri sonni stanno news assai inquietanti. A infoltire il chiacchiericcio atomico usuale ci si sono messi i dispacci provenienti dai retrobottega strategici dei meetings di Nato, UE e G7. Ci dicono che si sta pensando di modificare i paragrafi dei documenti relativi alla cosiddetta postura strategica.

Insomma, quali risposte bisogna brandire nel caso qualche malaugurata nube chimica, radioattiva o atomica superi il confine ucraino e raggiunga terre atlantiche? In Polonia o sul Baltico? La risposta sembra vaga. Perciò assai inquietante: «Ogni utilizzo da parte russa di armi chimiche o biologiche sarebbe inaccettabile e provocherebbe severe risposte […] Stiamo accelerando la trasformazione della Nato rispetto ad una situazione strategica più pericolosa […] rafforzando la nostra capacità di deterrenza»: queste le parole adoperate nel comunicato ufficiale pubblicato ieri alla fine del vertice NATO. Insomma, adesso non è più solo Putin a minacciare il ricorso a misure estreme. Lo si contempla ormai da ogni versante.

E allora affiora inevitabile interrogarsi sul tempo che viviamo, su questo XXI secolo.

Siamo ancora in un mondo governato dalla Carta delle Nazioni Unite. La nostra bussola è ancora quel comandamento supremo lì solennizzato: «salvare le future generazioni dal flagello della guerra»? E noi in Italia, come ci muoviamo? Non ci riconosciamo forse anche noi in quel Trattato di non proliferazione nucleare firmato nel 1968 e finora ratificato da quasi 190 stati sovrani? Non ci siamo forse anche noi impegnati (in base all’articolo II) a non accettare il trasferimento sul nostro suolo di qualsiasi arma nucleare? E perché mai ospitiamo nelle basi di Aviano e Ghedi tra 70 e 90 atomiche cosiddette tattiche, marchiate a «stelle e strisce», nell’ambito del programma di condivisione della deterrenza nucleare NATO? E perché mai – assieme a tutte le potenze atomiche e a quella aderenti alla Nato e poche altre – anche noi Italiani non abbiamo ancora firmato il Trattato per la proibizione delle armi nuclearisottoscritto invece già da 129 nazioni e 7 organizzazioni internazionali, entrato in vigore il 22 gennaio 2021? È forse così che rispettiamo quel «ripudio della guerra» sancito nell’art. 11 della nostra Carta fondamentale?

Sarebbe forse il caso, ancora una volta, anche noi di imparare dall’UcrainaI suoi abitanti sono tutti, sia pure con lingue e culture diverse e qualche volta contrapposte, sotto fuoco e ceneri micidialiSarebbe veramente assurdo se questa catastrofe fosse la risposta alla decisione presa dai governanti ucraini che nel 1991 rinunciarono, con l’aiuto logistico e finanziario degli USA, a migliaia di ogive e vettori nucleari allora ceduti alla Russia di Eltsin o utilizzati come combustibile nelle varie centrali atomiche nazionali. È il caso di non dimenticare mai che quel micidiale armamentario ereditato dalla dissoluzione dell’URSS costituiva allora il terzo arsenale atomico del mondo per numero di testate e potenza. Ancor oggi farebbe dell’Ucraina un pilastro della deterrenza globale.

Una lezione che dovremmo saper far fruttare soprattutto oggi, quando venti di tempesta chiudono con nubi minacciose ogni orizzonte.

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ATOMICA E ROSA DEI VENTI

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ATOMICA E ROSA DEI VENTI

(pubblicato sulla «Gazzetta del Mezzogiorno» del 27 marzo 2022 con il titolo: «Atomica e Rosa dei Venti. L'Italia dai "due volti". Sull'incubo nucleare»)

 L’atomica riempie le prime di giornali e social-network, così come i lanci di TG e talk show. Ora anche senza più la faccia o gli annunci fatali di Putin. Nubi e funghi malefici turbano ormai le serate di ognuno, mutandole in incubi. L’altro ieri, in prima serata, Vladimir Solovyov, intrattenitore principe di “Rossya 1”, ha sollazzato il pubblico con la minaccia dell’arma fatale. Testuale: «I Polacchi debbono sapere che in trenta secondi non resterebbe più nulla di Varsavia». 

E così tra ieri e oggi è stata tutta una fioritura ferale. Dal “Corriere della Sera”, al “New York Times”,  passando per “Le Monde”, “Washington Post” o la paludata, prestigiosissima, “Foreign Affairs”, uno solo l’interrogativo sospeso sulla testa del mondo: “Rethinkink the Unthinkable”? “Ripensare l’Impensabile”? Ritorna l’incubo  della mutua distruzione dell’umanità? E giù con l’enumerazione delle varie possibilità. Che succede nel caso si usi – come sembra già accaduto – il fosforo bianco? O altri composti chimici? O magari armi batteriologiche diffuse o sfuggite da questo o quel laboratorio?  Ma se poi, invece, la parola passa all’atomica? Non alle ogive proiettate all’altro lato del mondo dai vettori intercontinentali. Magari alle cosiddette “tattiche”: multipli modesti – per dir così – dei funghi sbocciati su Hiroshima o Nagasaki … E via con la parola agli esperti, agli strateghi d’ogni indirizzo e cultura. 

Il lettore comune si destreggia a fatica con cartine e mappe complicate, sigle astruse. Finché poi non si finisce col far menzione di qualche venticello fatale. E allora anche il termine più strambo – “spill-over” – si illimpidisce e rivela i suoi risvolti mostruosi. Che succede e dove se nell’attimo fatale in cui si sgancia un composto chimico, batteriologico o atomico – “tattico”, per carità – su qualche angolo di Ucraina, il vento spira da Ovest?  E se non è Tramontana, con strascichi sul Mar Nero, ma Libeccio? Tutto rischia di tornare a casa di chi ha sganciato?

Allora anche il lettore meno acculturato comprende e rabbrividisce. Alle nostre latitudini abbiamo già conosciuto queste ventate col disastro di Chernobyl. Vietato andar per funghi sulla Murgia allora. E poveretti quei francesi che si fidarono dei loro servizi metereologici, sicuri che la nube radioattiva non sarebbe arrivata sulle alture francesi. Chirac e Sarkozy portano ancora il peso delle accuse e dei dubbi del tempo.

Materia tutta per malinconici e mesti sorrisi, se non fosse per le news odierne. In risposta allo slargarsi del chiacchiericcio atomico, giunge notizia che nel retrobottega strategico dei meetings di Nato, UE e G7 si sarebbe messo mano alla cosiddetta “postura strategica”. Insomma, come rispondere se qualche malaugurata nube chimica, radioattiva o atomica supera il confine ucraino e raggiunge terre “atlantiche”? Polacche o baltiche che siano? Vaga la risposta. Perciò assai inquietante: “Ogni utilizzo da parte russa di armi chimiche o biologiche sarebbe inaccettabile e provocherebbe severe risposte … Stiamo accelerando la trasformazione della Nato rispetto ad una situazione strategica più pericolosa … rafforzando la nostra capacità di deterrenza»: si legge nel comunicato ufficiale NATO di ieri. Insomma, il ricorso a misure estreme ora è contemplato da ogni versante. 

Ma siamo ancora in un mondo governato da una Carta delle Nazioni Unite e dal suo comandamento supremo di «salvare le future generazioni dal flagello della guerra»? E in Italia? Come mai da firmatari del Trattato di non proliferazione nucleare (1968) siamo impegnati (articolo II) a non accettare il trasferimento sul nostro suolo di qualsiasi arma nucleare, ma invece ospitiamo nelle basi di Aviano e Ghedi tra 70 e 90 atomiche cosiddette “tattiche”, nell’ambito del programma di condivisione della deterrenza nucleare NATO? E perché mai – assieme a tutte le potenze atomiche e a quella aderenti alla Nato e poche altre – anche noi Italiani non abbiamo ancora firmato il Trattato per la proibizione delle armi nucleari, sottoscritto invece già da 129 nazioni e 7 organizzazioni internazionali, e entrato in vigore il 22 gennaio 2021? Così rispettiamo quel «ripudio della guerra» solennizzato nell’art. 11 della nostra Carta fondamentale?

Sarebbe forse il caso, ancora una volta, di imparare dall’Ucraina. Ora sotto fuoco e ceneri micidiali. Forse in risposta alla decisione presa nel 1991 rinunciando a favore della Russia di Eltsin – è il caso di non dimenticarlo mai – a migliaia di atomiche allora ereditate dalla dissoluzione dell’URSS? Il terzo arsenale atomico del mondo: a quel tempo e ancor oggi.

Una lezione fondamentale per il mondo tutto, soprattutto oggi, mentre venti di tempesta chiudono con nubi minacciose ogni orizzonte.

 

Isidoro Davide Mortellaro

docente di Storia delle relazioni internazionali 

Università di Bari “Aldo Moro”

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LA GUERRA SULLA PELLE

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La guerra sulla pelle

Pubblicato il 6 marzo 2022 su «pagina21.eu» Rivista della Fondazione Giuseppe Di Vagno

 

Prologo
«Nell’epoca dell’innovazione, nell’epoca dell’elettricità indossiamo l’umanità come una seconda pelle». Così Marshall McLuhan, di fronte all’apparecchio televisivo, spalancando gli occhi sulle rivolte dei neri nei ghetti delle metropoli americane. L’inventore della metafora del «villaggio globale» affondava così la lente consegnandoci una coscienza molto meno bucolica del mondo «grande e terribile» ormai vissuto come casa. E pensare che allora non c’era Internet, né i social network. Tanto meno quegli smartphone con cui ci portiamo e compulsiamo il «mondo in tasca» in ogni istante del giorno e della notte.

Da giorni l’Ucraina danza dolente nei nostri occhi sotto le scie abbacinanti dell’attacco russo. L’angoscia per una «terza guerra mondiale» cresce e con essa interrogativi – magari inconfessabili, un po’ più egoistici – sul nostro futuro immediato.

C’è già stata una prima volta. Qualche decennio fa a memoria dei più anziani: Cuba1962. Un altro mondo, un’altra età. Già allora alta si levò la voce di un Papa, ad ammonire, a suscitare speranza. Allora Giovanni XXIIIOggi Papa BergoglioFrancesco I.

L’impensabile
A far la differenza ci si è messa invece la pandemia. Per due anni e passa ci ha flagellato con la devastazione della vita quotidiana esposta alle incursioni del globale. Nulla però rispetto ad oggi. Ancora qualche giorno fa non avevamo piena coscienza di come il tempo potesse finire terremotato dall’incalzare degli eventi e della cronaca. Il pieno di benzina diviene incubo per il portafogli così come lo sguardo che si fa ansioso nella ricerca rassicurante di pane e pasta sullo scaffale del supermercato. La finanza era un tempo un mondo impenetrabile, abitato da sigle misteriche. Oggi con i suoi prime e subprime squaderna, sotto il fuoco delle sanzioni, tutto il suo potere nell’angoscia con cui aspettiamo al bancomat la risposta fatale al ticchettio del nostro PIN: non è che adesso mancano risposte e soldi come in Russia? Rimbalzano anche qui le sanzioni?

Herman Khan, lo stratega della Rand Corporation che ispirò a Stanley Kubrick il personaggio del Dottor Stranamore, sosteneva già nel titolo della sua opera più famosa che, per sopravvivere e vincere nell’età nuclearebisognava «pensare l’impensabile»: Tkinking the Unthinkable. Ciò che non credevamo di poter nemmeno immaginare oggi è divenuto cronaca, assillo continuo.

D’ora in ora e da giorni l’angoscia sale. E con essa interrogativi capitali. Da quando il 21 febbraioscorso Vladimir Putin ci ha sorpreso con un discorso memorabile: ««L’Ucraina non è solo un paese vicino per noi. È parte inalienabile della nostra storia, cultura e spazio spirituale. Questi sono i nostri compagni, le persone a noi più care». Sono giorni però che su questi compagni di strada e di sangue la Russia fa piovere bombe. È guerra, guerra dichiarata tra Stati o stasis, come dicevano i Greci, «guerra civile», guerra tra fratelli?

Putin in realtà ha deciso di impugnare le armi non contro nemici giurati: per quanto dipinti come guerrafondai, magari «drogati e nazisti», nelle sue parole. Sta facendo a pezzi le viscere profonde della «Grande Madre Russia». Una guerra civile che sospende il mondo su un baratro indicibile: «la Russia moderna anche dopo il crollo dell’URSS resta una potenza mondiale, con un proprio arsenale nucleare e altro ancora (nuovi tipi di armi) […] Chiunque tenti di ostacolarci, e ancor di più di creare minacce per il nostro Paese, per il nostro popolo, deve sapere che la risposta della Russia arriverà immediatamente e porterà a conseguenze che non avete mai visto nella storia». Con queste parole, nel suo secondo discorso del 24 febbraio alla nazione e al mondo, Putin sospinge il pianeta sull’orlo di un precipizio mai varcato.

 Un mondo nuovo
Di qui il nostro bisogno di orientarci, di tornare ad inquadrare il nostro presente, la nostra collocazione nel mondo e nello spazio. A far tappa l’89 sicuramente: la caduta del Muro di Berlino. Quell’evento giunse come un vero e proprio cataclisma sul blocco socialista aggregato attorno all’URSS. Eppure, quello scossone era iniziato altrove. Proprio nella Cina di Tienanmen. Solo che già dieci anni prima Deng Xiaoping, con l’apertura delle «zone economiche speciali» e le «quattro modernizzazioni», aveva trasformato la Cina nel retrobottega, nell’officina del mondo intero. Forte di quei legami aveva potuto reprimere il grido dei giovani che chiedevano in piazza libertà e apertura.

Altra la vicenda in Russia, giunta esausta e stremata a quel tornante storico. E là dove tutto era iniziato tutto finì all’indomani del cataclisma provocato nel mondo dagli strappi inferti dall’Iraqdi Saddam al tessuto internazionale. La risposta allora fu unitaria, sia pure sotto il segno arrembante e guerresco dell’unilateralismo americano. La tela fu risarcita grazie alla mobilitazione globale, ma anche al prezzo di una nuova guerra fortemente voluta dagli USA.

A far la differenza le scelte di Gorbaciov in Europa e nel Golfo: le sue aperture alla riunificazione tedesca, lo sguardo fisso sulla pace durante tutta la guerra del Golfo. Si apriva una pagina nuova. L’Europa intera pensò che era il momento di muoversi per strade inedite, dall’Atlantico agli Urali. Nasceva l’Unione europea. Per la prima volta nella storia un impero provava a non suscitare guerre o terremoti pur vedendo messa in discussione la sua stessa esistenza.

Al G7 di Londra del 1991, aperto finalmente all’URSS, Gorbaciov chiese aiuto per una inedita transizione: la sua mano tesa però non fu stretta da alcuno. I Grandi lasciavano cadere ogni prospettiva di collaborazione nel domani indeterminato di un futuro mutamento di sistema. In risposta arriverà il Golpe di Agosto con un complessivo rivoluzionamento di uomini e regimi.

Archiviata la mutazione cui Gorbaciov – sia pure domando a stento le prime spinte separatiste – stava  dando corso con il referendum sulla conservazione dell’URSS e la successiva creazione dell’“Unione degli Stati sovrani”, Eltsin accantonerà Gorbaciov e l’Unione Sovietica. Vi riuscirà, grazie alla scelta di gran parte della nomenklatura sovietica di salvarsi, magari mettendosi in affari, provando a perpetuarsi in «oligarchia».

Nasce allora la CSIComunità degli Stati Indipendenticon l’esclusione di LettoniaLituania ed Estonia che sul Baltico riconquistano a distanza di oltre mezzo secolo l’indipendenza. Nascono allora Federazione RussaUcraina e Bielorussia: figlie di un parto plurigemellare attivato dalla dissoluzione dell’URSS in CSI. Successiva l’associazione alla Confederazione delle altre 9 repubbliche (compresa quella caduca della Georgia). Gemmate – per reciproco riconoscimento e in sovrana autonomia – da un unico grembo con grandi comuni tradizioni ma marchiate anche da odi insanabili. A testimoniarlo sta ancor oggi, in particolare per l’Ucraina, l’Holodomor, con i suoi milioni di morti. Sta lì a dividere e contrapporre, soprattutto lacerare, nei racconti di nonni e genitori, memoria e vita di chi abita quelle terre.

Vale allora la pena di osservare come all’indomani della nascita della CSI, l’Ucraina – similmente a Bielorussia e Kazakistan – rinunci ai propri arsenali atomici per renderli alla Federazione Russa o disfarsene: ereditati dall’URSS (con circa 4300 testate nucleari, ovvero il 16% circa del complesso delle atomiche sovietiche) le avrebbero permesso oggi, se avesse voluto, di ergersi tra i Grandi della Terra con pollice sul bottone rosso della distruzione totale.

Ignavia europea e atlantismo calamitoso
In Europa intanto scoppiava, lungamente covato, il bubbone jugoslavodegenerato ben presto in guerra civile. Ad alimentarlo soprattutto divisioni e egoismi degli europei, incapaci a Maastricht di andare oltre la prefigurazione di una Europa neoliberale, orientata dalla moneta unica, ma orba di una visione del mondo e di una strumentazione di sicurezza comune. L’ignavia europea avrebbe permesso di lì a qualche anno, costellato di massacri e barbarie etniche, di dare pieno riconoscimento alla profezia-promessa lanciata dal segretario di Stato americano, James A. Baker III, all’indomani della caduta del Muro: «Gli USA sono e rimarranno una potenza europea». Saranno i loro bombardamenti, prima in Bosnia e poi in Kosovo, a mettere fine a quei massacri ma anche a dare nuovo lustro all’Alleanza Atlantica e al suo cuore militare, la Nato, proprio nel cuore della nuova Europa.

 Sull’onda di una inedita teorizzazione dei «diritti umani», unilateralmente rivisitati alla luce dell’ineludibile «dovere di ingerenza umanitaria», l’Alleanza atlantica all’indomani della «guerra celeste» in Kosovo riscriveva surrettiziamente i propri trattati istitutivi modificando la propria postura strategica. Il postulato della difesa dall’attacco esterno veniva latamente reinterpretato in base alle nuove onnipresenti minacce potenzialmente rappresentate per ognuno dalla permanente permeabilità ai flussi e ai processi di interdipendenza globale.

Nasceva così nel cuore d’Europa, accanto e in sovrapposizione alle permanenti carenze strategiche dell’UE, l’attrattore potentissimo della Nato. Una calamita, amministrata con grande sapienza dagli USA e con somma negligenza dagli europei. A potenziarla ulteriormente provvedevano l’ingresso del mondo nel Terzo Millennio sospinto dal vento di una storia che si voleva alla «fine» e dal bagliore fatale dell’11 settembre. Come dimenticare l’articolo 5 dell’Alleanza atlantica con il suo obbligo assoluto della mutua difesa? Mai invocato nella vicenda della più fortunata alleanza della storia umana, capace di piegare il «male assoluto» del comunismo, ma attuato a parti invertite con gli Europei in soccorso degli USA colpiti dal nuovo terrorismo globale.

È da lì, da quella porta di fuoco che la Nato entra nel XXI secolo e si espande in un vortice di allargamenti continui. Avevano cominciato PoloniaRepubblica Ceca ed Ungheria nel marzo 1999, ma è dopo l’11 settembre e l’apertura del fronte afghano che i movimenti si fanno convulsi e continui fino ad inglobare altre 11 repubbliche tutte ad Est, tutte allevate e cresciute nell’universo o sotto il controllo sovietico. Un mondo intero ripudia il vecchio controllore per cercare sicurezza nell’entità diabolicamente esecrata per quasi mezzo secolo. Il tutto senza inaugurare grandi basi militari, se non postazioni per la difesa missilistica specie dopo l’11 settembre: un tema assai controverso vissuto dai Russi come minaccia.

Adesso tutte le potenze neutrali del Nord stanno chiedendo di essere ammesse alla Nato: Svezia e Finlandia (questa addirittura con la richiesta di un referendum). La Svizzera ha condiviso con le altre le sanzioni alla Federazione Russa.

Le profferte e le effusioni dei vari MAP, Membership Action Plan, nei confronti di Bosnia ed Erzegovina, Georgia o Ucraina hanno animato la cronaca più recente (senza dimenticare che concretamente nei confronti dell’Ucraina domande e inviti si sono finora risolti nel riscontro da parte occidentale di alcuni impedimenti nel processo di democratizzazione delle istituzioni ucraine: incompleta garanzia del controllo civile sulle forze armate, scarsa presenza di civili all’interno dei ministeri chiave ecc.).

Né è possibile dimenticare le strane – a guardarle oggi – liaisons tenute a battesimo soprattutto dall’11 settembre tra Russia e Alleanza Atlantica: proprio allora vede la nascita il Russia-Nato Council, con le sue molteplici forme di cooperazione nella guerra afghana: una cornice ancora più ampia entro cui hanno trovato una sistemazione più organica i rapporti a lungo intessuti tra Nato e Russia fin dal 1991 all’interno del North Atlantic Cooperation Council, vieppiù rafforzati nel 1994 dal programma Partnership for Peace.

Val la pena di ricordare che tutte queste forme di cooperazione e reciproco riconoscimento non sono mai state revocate da parte russa, anche in momenti di estrema tensione: ad esempio, quando nell’aprile 2014 la Nato all’unanimità decise di sospendere ogni pratica cooperazione con la Federazione Russa in risposta all’annessione della Crimea. C’è voluto l’incidente nell’ottobre 2021, con cui la Nato ha espulso dal quartier generale di Bruxelles otto ufficiali russi accusati di spionaggio, perché la Russia si decidesse ad ordinare la chiusura della dipendenza Nato di Mosca.

Perché la guerra?
Ma allora perché? Perché questa escalation?

La risposta è forse nei processi che hanno sconvolto e rifatto questo immenso paese dopo l’inabissamento dell’URSS. Nella curva spaventosa in discesa del suo PIL, negli anni di Eltsin, a malapena ma in forme sbilenche e a fatica messa all’insù da Putin: un Paese oggi di 140 milioni di abitanti, ma con indici produttivi inferiori a quelli italiani, inflazionati da gas e petrolio, ma fortemente penalizzati dalle importazioni nelle alte tecnologie.

La risposta è forse in una demografia sconvolta dalla mancanza di futuro e prospettive, destinata secondo le prospezioni più accreditate ala condanna di 132 milioni di abitanti nel 2050 rispetto agli attuali 144 o ai 149 del 1991.

In crescita e in maniera stanno sicuramente le spese militari, giunte ad oltre il 4% del PIL. Lì forse un segno della ricerca affannosa per conservare uno spazio e un ruolo rimessi duramente in discussione da un pianeta in subbuglio, dall’ascesa della Cina e dell’India.

Perché? Perché allora questo mutamento così repentino?
Cosa resta del leader da tanti acclamato fino a pochi giorni fa per la sua visione degli equilibri mondiali, per la sua capacità di riportare la Russia a nuovi fasti globali?

Ben poco. Soprattutto perché questa guerra nell’immediato rischia di avere effetti devastanti. E non solo in Ucraina. Il pericolo vero è per la stessa Russia. Come reggere ad una impresa e ad una possibile occupazione militare ben più dure e devastanti di quelle in Afghanistan? E senza calcolare l’effetto delle sanzioni. Sui russi stessi prima ancora che sull’Europa e sul mondo?

Che fare allora? E con quali mezzi.

A guardarsi attorno si è assaliti dallo sconforto. Quando ci si volge all’ONU si trova sicuramente un consesso ancora capace di far udire la sua voce. E lo ha anche fatto con la sua Assemblea generale. Fatto sta che in materia di pace e sicurezza internazionale sovrano è il Consiglio di Sicurezza. E lì pesa imperioso il sicuro no della Federazione Russa, il cosiddetto «potere di veto». Non si va molto lontani dal verosimile se si pensa che all’unisono – e sia pure in forme diverse – USA e Cina ne approfitterannoL’interrogativo forte, ma pieno di speranza, volge all’Europa. Può molto. Ma lo farà? Riuscirà? Invierà aiuti, sicuramente. Ma come?

Che la storia fosse alla «fine» si rivela oggi veramente una favola dei tempi andati. Siamo trascinati ormai in un galoppo cupo e sfrenato.

L’unica sicurezza, oggi più che mai, è il no alla guerraLì vi è il primo dovere di ognuno.

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UNA BATTAGLIA SUICIDA

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(Pubblicato sulla «Gazzetta del Mezzogiorno» del 5 marzo 2022 con il titolo "Una battaglia sudicia. Il pericolo vero è per la stessa Russia")

UN ATTACCO SUICIDA

Vladimir Putin ha deciso di muover guerra all’Ucraina, definita comunque «parte della nostra storia … con compagni e persone a noi più care».  Non a nemici giurati, perciò, ma alle viscere profonde della «Grande Madre Russia». Una guerra civile che sospende il mondo su un baratro indicibile: « la Russia moderna … resta una potenza mondiale, con un proprio arsenale nucleare….Chiunque ci ostacoli deve sapere che la risposta della Russia arriverà immediatamente e porterà a conseguenze mai viste nella storia». Così Putin sospinge il pianeta sull’orlo dell’impensabile.

Per i più anziani già visto una volta sola. Cuba, ottobre 1962: crisi dei missili. Allora come oggi alta la voce del Pontefice. Ieri di Giovanni XXIII. Oggi di Francesco I. A far la differenza rispetto alla TV di allora Internet. E assieme ad essa finanza e globalizzazione con ansia e timori nella vita quotidiana di ognuno: prezzi impazziti, rifornimenti interrotti.

Putin vuole la «smilitarizzazione e la denazificazione dell’Ucraina», nonché «assicurare alla giustizia coloro che hanno commesso crimini sanguinosi contro i civili».  Come farlo senza «l’occupazione - e con la forza – dei territori ucraini» non è dato sapere.

Siamo entrati nel III millennio sospinti dal vento di una storia che si voleva alla «fine» e dal fatale bagliore dell’11 settembre. Con l’URSS che aveva trovato in Afghanistan il proprio «Vietnam» e il preannuncio della propria fine. Ma anche nel sogno dell’egemonia «a stelle e strisce», condita spesso da inaccettabili unilateralismi: guerra in Kosovo come nel Golfo e in Iraq, fino alla seconda tragedia afghana. Ogni «guerra celeste» si è rivelata un boomerang, fatta di occupazioni, tragedie, rinculi devastanti. 

La Russia e l’Ucraina sono, assieme ad altre realtà statuali, figlie di un parto plurigemellare: nate dall’URSS e dalla sua dissoluzione in CSI. Gemmate – per reciproco riconoscimento e in sovrana autonomia - da un unico grembo con comuni tradizioni ma marchiate anche da odi insanabili. L’ Holodomor, con i suoi milioni di morti, lacera ancor oggi, nei racconti di nonni e genitori, memoria e vita di chi abita quelle terre.

All’indomani della nascita della CSI l’Ucraina nel 1992 rinuncia unilateralmente alle proprie atomiche ereditate dall’URSS (3900 testate, il 14% dell’intero arsenale sovietico) e le rende alla Russia per dismissione. Avrebbe potuto oggi sedere tra i “Grandi» col pollice sul bottone rosso della distruzione totale. Ha da anni chiesto, come tutte le realtà fuoruscite dall’orbita o dalla dissoluzione sovietiche, l’adesione all’Alleanza Atlantica o alla Nato. Una richiesta finora non accolta. Fanno ancora ostacolo per gli occidentali alcuni impedimenti nella democratizzazione delle istituzioni ucraine: incompleta garanzia del controllo civile sulle forze armate, pochi civili all’interno dei ministeri chiave ecc.

Eppure per Putin questo paese – con la ventilata appartenenza all’Alleanza atlantica o alla Nato – rappresenta una grave minaccia. Tale da imporre una guerra con effetti sconvolgenti in Europa e nel mondo. Cosa resta del leader da tanti acclamato fino a pochi giorni fa per la sua visione del mondo, per la capacità di riportare la Russia a nuovi fasti globali? Ben poco. Soprattutto perché questa guerra rischia di avere effetti devastanti non solo in Ucraina. 

Il pericolo vero è per la stessa Russia. Un paese con oltre 140 milioni di abitanti ma con un PIL inferiore a quello italiano. Come reggere ad una occupazione militare ben più devastante di quella afghana? E senza calcolare l’effetto delle sanzioni. Sui russi stessi prima ancora che sull’Europa e sul mondo.

Che la storia fosse alla «fine» è davvero una favola dei tempi andati. Siamo trascinati ormai in un galoppo cupo e sfrenato. Oggi più che mai il no alla guerra si rivela il primo dovere.

 

Isidoro Davide Mortellaro

docente di Storia delle relazioni internazionali

Università di Bari

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Tra diritti umani e Washington Consensus

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Isidoro Davide Mortellaro

TRA DIRITTI UMANI E “WASHINGTON CONSENSUS”: EVOLUZIONI E AVVENTURE DEL POTERE SOVRANAZIONALE (1971-1989)

In «Ricerche Storiche», Anno XLVII, n. 2, maggio-agosto 2017, pp. 54-66

Le memorie divise d’Europa dal 1945 a oggi

a cura di

Carlo Spagnolo e Luigi Masella

 

 

            Premessa

 

Con «Washington Consensus», viene in genere inteso il processo istituzionale, politico e culturale attraverso cui è stato promosso e alimentato il consenso al decalogo di regolazione economica e finanziaria proposto, in origine, dal Fondo Monetario Internazionale e dalla World Bank, a fine anni 80, come cura alla esplosione del debito estero in America Latina. Col passare del tempo, l’espressione si è sempre più slargata, fino a comprendere latamente l’insieme delle politiche economiche neoliberali o addirittura il complesso di mutazioni divenute cuore e motore di quel salto di civiltà battezzato, al passaggio di secolo e millennio, come ‘globalizzazione’[1].

In queste righe si seguirà un’altra strada, Con quell’etichetta si proverà a descrivere il nuovo ciclo di egemonia a stelle e strisce che ha colorato il mondo a partire dalla rottura di Bretton Woods e che, passando per la fine del bipolarismo, ha presieduto allo sviluppo di nuove sedi e forme della regolazione politica sovranazionale, di nuove forme di soggettività e coscienza planetaria. Al cuore di quest’altra chiave analitica vi è il rifiuto di ogni economicistica riduzione dei processi di globalizzazione all’imperio crescente del mercato internazionale, nuovo dominus della vita globale. Il mondo di Terzo Millennio non è il prodotto meccanico del ritrarsi della politica rispetto all’economia predicato dalla vulgata liberale. A sospingerlo ed animarlo coi nuovi fantasmagorici artifizi prodotti dal rimescolio di bit e atomi, di informatica e biotecnologia, vi è piuttosto il discorde dialogo intrattenuto dalle élites delle economie sviluppate, in particolare nord-americane, con la coscienza planetaria gemmata dagli anni Sessanta e la multiforme teorizzazione dei diritti umani. A regolarne il passo hanno provveduto nuove sedi politiche e istituzionali, sempre più rapprese in forme oligarchiche, ma capaci di sguardi lunghi, da tempo fissi sul Pacifico. E’ su quel cardine che ora il mondo si sta riassestando attraverso una epocale ritessitura delle reti del lavoro e della comunicazione.  E’ un passo nel futuro che ridetermina pesi e grandezze, angosce e speranze di una umanità sempre più sospinta da un comune destino.

 

 

 

Spazi, sguardi, soggetti nuovi

 

L’esercizio della memoria è attività di per sé mutevole, soggetta agli accidenti in cui siamo impigliati e ancor più alle sfide che ci si stagliano contro. È allora che siamo costretti a far ricorso a tutte le nostre risorse, a mobilitare ogni conoscenza dell’ostacolo che dobbiamo superare o aggirare. Di qui il ripensamento su quando, come e dove abbiamo preso a frequentarlo e conoscerlo, a saggiarne caratteristiche e asperità.

Val la pena, allora, di interrogarsi su quando il mondo, il globo tutto, il sovranazionale, ha preso a imporsi nella nostra vita quotidiana con la cogenza con cui oggi lo riconosciamo – e subiamo. Insomma, di chiedersi da quando - volenti o nolenti - lo sentiamo cornice d’ogni nostra esperienza e al contempo acido corrosivo di ogni vecchio, abituale riparo.

Nell’esercizio della memoria cui oggi siamo chiamati il pensiero va allora immediato a Earthrise: a quel «sorgere della Terra» impresso in foto il 24 dicembre 1968, vigilia di Natale, da William Anders mentre in orbita lunare, assieme a Frank Borman e Michael Collins, completava la missione Apollo 8. Quell’immagine allora invase ogni teleschermo. Da allora campeggia su ogni manuale di geografia, marchia qualsiasi evocazione della globalizzazione. Sarà Marshall McLuhan a tematizzare retrospettivamente la svolta, la cesura: quell’inquadratura ebbe su di noi «un impatto enorme. Eravamo, per così dire, ‘dentro’ e ‘fuori’ allo stesso tempo. Eravamo sulla Terra e sulla Luna contemporaneamente. Fu la nostra percezione individuale di quell’evento a dargli significato»[2].

A partire dalla conquista di un inusuale punto d’osservazione, un nuovo sguardo prospettico ridispone il mondo entro un ordine inedito. Una plastica immagine di cosmica interdipendenza condensa la repentina accelerazione impressa a fine anni Sessanta alla compressione del globo in «villaggio globale». Faccia a faccia col futuro rappreso nel video vediamo spazio e tempo restringersi fino ad annullarsi.

Raccolti e riuniti come umanità di fronte allo schermo televisivo siamo costretti a riscoprirci e riconoscerci racchiusi tutti nel tondo della Terra[3]. Quasi come specchio la TV ci costringe a rimirare quel globo come immagine riflessa di noi stessi, ipertecnologica rivisitazione del mito di Narciso. Solo allora abbiamo finalmente percezione piena del cammino compiuto, cominciamo a riconoscere i processi di globalizzazione come figli del nostro potere di manipolazione del globo, dell’umanissima crescente capacità di ridurlo a cosmico artificio, irretirlo, manipolarlo entro reti, volute sempre più fitte, veloci, cogenti. A mutare, però, non sono solo le modalità in cui ora percepiamo spazio e tempo. E’ in quel momento che scopriamo anche – sempre con McLuhan - che l’innovazione, l’elettricità, «riunendo con repentina implosione tutte le funzioni sociali e politiche, ha intensificato in misura straordinaria la consapevolezza della responsabilità umana». È solo allora che riusciamo davvero a comprendere latitudine e profondità raggiunte dall’azione umana, quanto e come essa possa interagire e mutare la scena globale: «è questa componente centripeta che modifica la posizione dei negri, degli adolescenti e via dicendo. Non è più possibile contenere politicamente questi gruppi sociali entro limiti determinati; essi sono ora, grazie ai media elettrici, coinvolti nella nostra stessa vita, come noi nella loro. È l’età dell’angoscia dovuta a un processo d’accentramento che impone partecipazione e impegno, indipendentemente da qualsiasi specifico ‘punto di vista’»[4].

A distanza di tempo, un’altra lente ha sottolineato quel passaggio di fine anni Sessanta – l’assunzione del «villaggio globale», dell’«astronave Terra» come categorie analitiche - come un punto nodale per l’emersione di uno sguardo unitario sull’avventura umana, un primo passo per l’affermazione della tematica dei «diritti umani». Secondo Barbara J. Keys «le fotografie della Terra dallo spazio che lo facevano rassomigliare ad una minuscola biglia blu rafforzarono la sensazione che il pianeta fosse ormai un unico soggetto. “Tu non guardi più giù al mondo da Americano» disse un astronauta dell’Apollo X «ma come un essere umano”». In uno con quella vista d’insieme sulla Terra sembrava maturare «una coscienza globale immediata, una intensa insoddisfazione per lo stato di cose esistenti e la spinta a far qualcosa in proposito.  Legata alle crescenti conoscenze sull’Olocausto, quella percezione dell’interdipendenza aiutò in generale il convincimento che l’ingiustizia nei luoghi più remoti fosse divenuta insopportabile e che il silenzio di fronte alla prepotenza dovesse essere considerato complicità»[5].

Illuminanti e di straordinaria preveggenza si rivelano perciò oggi le annotazioni con cui Hannah Arendt, commentando in quel fatale 1968 pensiero e avventura di Karl Jaspers[6], annotava come «l’umanità», vissuta sempre come «concetto» o come «ideale», fosse ormai «divenuta questione di scottante attualità» sulla base non già di «sogni degli umanisti», «ragionamento dei filosofi» o sviluppo di «eventi politici». Bensì in forza dello «sviluppo tecnico del mondo occidentale». Di fatto ormai «per la prima volta nella storia tutti i popoli della terra hanno un presente condiviso: non c’è evento della minima importanza nella storia di un paese che possa rimanere ai margini nella storia di un altro. Ogni paese è diventato il vicino diretto di ogni altro paese, ed ogni uomo rimane impressionato  da eventi che accadono  nella parte opposta del globo». Al tempo stesso la Arendt sottolineava che «questo reale presente comune non si fonda su un passato comune e non garantisce affatto un futuro comune». In realtà, a conferma della potenza costituente di tecnica e scienza, «allo stato dei fatti il simbolo più potente dell’unità del genere umano» è rappresentato dalla sia pur «remota possibilità che le armi atomiche usate da un paese secondo la saggezza politica di qualcuno possano in definitiva segnare la fine del genere umano sulla terra»[7].

L’esame del mondo nuovo disegnato dalle capriole astronautiche riguadagna una terrestre ma apocalittica dimensione con la minaccia del fungo, sospeso da Hiroshima in poi sul destino dell’uomo e quotidianamente brandito, agito nel gioco della deterrenza bipolare, divenuta cornice prima della politica mondiale. È dentro questi orizzonti che muove i suoi primi passi l’umanità intesa come soggetto, rivendicazione di un universo di diritti. A metterla in cammino, darle faccia provvedono le gambe e i volti di una nuova generazione. Hannah Arendt battezza i giovani del Sessantotto, della contestazione giovanile, «quelli che sentono  il «ticchettio». A scendere in piazza è «la prima generazione che cresce all’ombra della bomba atomica … affatto sicura di avere un futuro», dal momento che il futuro assomiglia a «una bomba a orologeria sepolta, ma che fa sentire il suo ticchettio nel presente»[8].

Ecco, a far da pendant epocale alle orbite e alla svolta disegnate dalle missioni Apollo vi sono sommovimenti ben più corposi, “assalti al cielo” più partecipati e diretti di quelli intravisti in tv. Dispongono sul terreno il primo movimento globale, «il primo, esplicito anticipo della globalizzazione»[9]. In critica empatia con i volteggi lunari, movimenti di nuovo tipo, ondate di protagonismo giovanile affollano piazze e strade, animano e scuotono le città del mondo, il globo intero. Hanno cominciato anni prima, negli USA a Port Huron, nel fuoco della battaglia per i diritti civili, e continuato dopo, con la crisi di Cuba, con l’opposizione e il boicottaggio della guerra in Vietnam, a prendere atto della «presenza inesorabile della Guerra Fredda, simbolizzata dalla presenza della Bomba», e del fatto che «la nostra potrebbe essere l’ultima generazione a fare esperimenti con la vita»[10]. Vivono appieno le contraddizioni del mondo e come altri mai riconoscono quel presente condiviso che scandisce ora il tempo quotidiano dell’umanità. Sanno, sentono – per dirla ancora una volta con McLuhan – che «nell’era elettrica abbiamo come pelle l’intera umanità»[11].

Sui banchi della scuola che sottopongono a critica corrosiva hanno imparato ad ascoltare e interrogare questo sensorio planetario con l’abbecedario appreso alla scuola dell’atomica, dell’Olocausto e della cortina di ferro. Non si rassegnano ad un futuro sospeso all’ombra del fungo, condannato ad un silenzio finale. Nasce lì – come anche dalle lotte per i diritti civili - la pratica di un nuovo pacifismo e del costituirsi in immediata rappresentanza dell’umanità minacciata dalla bomba. Dalle letture sui campi di sterminio hanno appreso delle possibilità di soluzioni finali e che ribellarsi allora non è solo una possibilità, ma spesso un dovere, se si vuole conservare umanità. Dal cappio del bipolarismo, di cui a Cuba hanno avvertito la morsa intollerabile, hanno sperimentato che il moderno cemento non è più dato dagli Stati, ma dalle ideologie, da appartenenze a campi che scavalcano territori e confini, e che innanzitutto cancellano ogni divisione tra pace e guerra nel gelo quotidiano della confrontation bipolare.

Quella generazione prova a costruire un futuro e un pianeta non più in ascolto spasmodico del ticchettio di fondo. Magari niente affatto silenti. Semmai animati, se non frastornati, da altri suoni e rumori. È un momento di accumulo di tensioni, energia. Così come il 1848 aveva stretto il rapporto tra politica e popoli nel bozzolo delle nazioni, il 1968, nel suo costituirsi in rappresentanza dell’umanità, della specie, chiede e pretende una “ridefinizione della politica” a misura del globo[12].

La speranza è tanta ma inizia impercettibilmente a frammischiarsi all’ angoscia di fronte ad un mondo che, appena scoperto nei suoi tratti unitari, rivela anche altre facce non tutte scoperte. Proprio a Port Huron, in straordinario anticipo sui tempi, quel documento aveva colto un tratto dell’improvviso slargarsi del mondo che in futuro sarebbe divenuto dominante, fino a tramutarsi in agorafobia: timore per i grandi spazi, spaesamento, paura per la perdita di controllo sul proprio ambiente. Quei giovani avevano colto attorno a sé «la diffusa sensazione che semplicemente non esistano alternative, che la nostra epoca sia stata testimone dell’esaurirsi non soltanto delle utopie, ma anche di una qualsiasi nuova via». Di lì la constatazione – che diverrà poi dominante – che «nel sentire il vuoto della propria vita condizionata da problemi di una complessità senza precedenti la gente ha paura di pensare che le cose da un momento all’altro potrebbero sfuggire al suo controllo. Ciò che temono è il cambiamento in quanto tale, poiché il cambiamento rischierebbe di infrangere tutti quegli schemi invisibili che in questo momento gli consentono di tenere lontano il caos».

In realtà non saranno quei giovani a traghettare nel futuro il Mondo Nuovo disvelato dagli anni Sessanta. La loro spinta globale, assieme a quella accumulata dai Trente Glorieuses[13] e dalle loro contraddizioni, sarà capitalizzata da altri.

 

 

 

 

 

 

The Times They Are A-Changin’

 

E che i tempi stessero cambiando – e non nel senso auspicato da Bob Dylan nei suoi versi – lo provava l’ingresso negli anni Settanta salutato da una salva impressionante di svolte. In rapida successione venivano demolite una serie di certezze che avevano ancorato il mondo nella vociante ma stabile gabbia del bipolarismo.

In verità primi segni di incertezze e inquietudine – annunci di svolta - erano partiti proprio dal culmine delle missioni Apollo. Il 20 luglio del 1969 il piede di Neil Armstrong sulla Luna aveva frantumato ogni vecchia idea di confine e disposto l’uomo su altri, inediti fondali. La storia umana, fin lì trattenuta dall’indissolubilità d’un legame naturale, si affacciava a contemplare l’idea di un possibile divorzio tra l’avventura umana e la Terra. Con Earthrise l’umanità si era riconosciuta tutta nella biglia blu rilanciata dallo schermo, ma aveva anche visto il globo levarsi, muoversi autonomo, fronteggiare l’umano.

Di lì a poco, nel 1972, proprio la duplicazione del soggetto – l’uomo e la Terra – conquista l’attenzione generale e fa tappa nell’affermazione di una nuova coscienza ecologica. MIT e “Club di Roma” pubblicano I limiti dello sviluppo, un ammonimento epocale ad ogni prometeico protagonismo: la Terra non è il teatro inanimato di una infinita, inarrestabile manipolazione umana. È risorsa limitata, finita, che bisogna accudire, proteggere e con cui imparare a convivere rispettosamente. Il suo deterioramento, per inquinamento, sovrappopolazione, non è solo costoso, ma pericoloso. Spesso conduce a reazioni all’alterazione ambientale – disboscamenti dissennati, cementificazione selvaggia ecc. – di straordinaria pericolosità, fino a vere e proprie catastrofi o mutazioni[14].

L’anno seguente a rendere molto più cogente e comprensibile l’ammonimento ci penserà l’APEC, l’associazione dei paesi produttori di petrolio, con la decisione di portare a 5 dollari il prezzo del barile di greggio, di petrolio.

In realtà da tempo il mondo intero è in subbuglio. Due anni prima Nixon e Kissinger hanno provveduto a mettere a soqquadro l’universo, sottraendo a economia e finanza internazionale la stella polare del dollaro: è della metà del 1971 la decisione sulla convertibilità del biglietto verde, con relativa sospensione e successiva svalutazione. Nelle più svariate sedi internazionali si susseguono e si accavallano riunioni e progetti per riportare l’universo sotto controllo. Lenta e sottile avanza però una certezza. Nulla sarà ormai come prima. Nel mondo di ieri tutto o quasi è sotto il controllo dei Grandi e delle organizzazioni gemmate dalla II guerra mondiale. Una regola non smentita dalla nascita del Terzo Mondo e dalla moltiplicazione dei seggi nell’assemblea delle Nazioni Unite. Tutto risponde al comando di politica e sovranità rigidamente disposte sugli scranni dei vari organismi internazionali e soprattutto nella morsa e nelle gerarchie dell’ordine bipolare.

Le svolte dei primi anni Settanta – soprattutto quella sul dollaro – prendono atto o promuovono ora la relativa autonomia di nuovi soggetti, svincolati dal vecchio ordine. La rottura dell’ordine di Bretton Woods, in particolare, autonomizza il nuovo soggetto della finanza internazionale. Nuovi protagonisti, in genere privati, ora affermano una propria presenza e contribuiscono ad affollare la scena. Bisognerà farci i conti.

C’è qualcuno in particolare che sa affondare lo sguardo in questo magma. E’ Zbigniew Brzezinski. Si appresta a varare la piattaforma programmatica della Trilateral Commission, ovvero del think tank, del pensatoio collettivo che tenterà una risposta globale alle questioni poste dal ’68. Egli rifiuta la metafora del villaggio globale avanzata da McLuhan e tenta di riportare il mondo con i piedi per terra. Dove sono la «stabilità, l’intimità interpersonale, la condivisione di valori e tradizioni» tipiche del villaggio? Meglio l’immagine della città globale: «una rete nervosa, smossa, ansiosa e frammentata di relazioni interdipendenti». Viviamo in tempi di «congestione globale» in cui «l’umanità simultaneamente diventa più unificata e più frammentata», in cui spazio e tempo si comprimono fino al punto di determinare tendenze a «forme più strette di cooperazione così come alla dissoluzione delle tradizionali lealtà ideologiche ed istituzionali»[15].

Addio al vecchio mondo: alle sue lealtà e tradizioni, alle sue catene di comando. Retrospettivamente Charles S. Maier vedrà all’opera una grande slavina in cui il globo si va attestando inarrestabile su nuovi equilibri e proporzioni. A mano a mano si manifesteranno mutazioni del lavoro, della territorialità, dell’industria, così come della rappresentanza politica. Il termine ‘crisi’ rivelerà nel decennio le metamorfosi più varie: sarà fiscale, di accumulazione, legittimità per sfociare infine nella generale «crisi di fiducia» denunciata da Jimmy Carter nel 1979[16]. Nel passaggio alla nuova società transnazionale la crisi si rivelerà infine come «metabolismo di società complesse», passo faticoso ma naturale nella evoluzione dei sistemi, nella transizione – ad Ovest come ad Est – al postindustriale[17].

L’Europa ha compiuto il «rattrapage» – per dirla con i «Trente Glorieuses» di Fourastié. Ha terminato la rincorsa rispetto all’American Way of Life. Hanno pesato e come le varie forme di cooperazione avviate nel dopoguerra su pressione e invito americani. Ma è indubbio che l’americanizzazione si è compiuta per vie nazionali: in Francia à la De Gaulle, in forme sovraniste e nell’esaltazione della «politica di piano». In Italia magari facendo del cattolicesimo il cavallo di Troia per un duraturo insediamento tra noi delle ideologie americane dello sviluppo[18]. La Germania attraverso l’esaltazione della «economia sociale di mercato».

Il Terzo Mondo – come G77, Gruppo dei 77 all’interno dell’UNCTAD - chiede un riequilibrio, di avviarsi per un «nuovo modello di  sviluppo»[19], altro da quello indicato a suo tempo da Truman con il Quarto Punto e le sue implicite gerarchie[20]. Al di là del Muro Mosca ha reagito alla primavera di Praga castrandosi per sempre, avventurandosi per una risposta militare che, divenuta abituale, le sarà fatale poi nel «Vietnam afghano»[21]. A Pechino l’«assalto al cielo» della rivoluzione culturale frana nei meandri di un partito-stato che s’appresta ora, strizzando l’occhio in funzione antisovietica allo Zio Sam, ad aprirsi al mondo e all’ONU[22]. Al passaggio di decennio iniziano a farsi avanti quelli che Nicolas Baverez chiamerà Les Trente Piteuses[23]: la speranza svanisce e quell’angoscia appena intravista dai giovani di Port Huron ora si tramuta in spirito del tempo. Il futuro diventa oscuro e indicibile fino a farsi Shock[24].

Da più parti avanzano i fabbri di un ordine nuovo nel tentativo di risistemare il mondo trasformato su nuovi cardini. In prima fila naturalmente il duo Nixon - Kissinger alla testa di Stati Uniti scossi dall’incombente débâcle in Vietnam e da qual sommovimento per i diritti civili che annunciava le Culture Wars infinite (dissoi logoi) in cui sono ancor oggi profondamente immersi e che da allora segnano irreversibilmente la polarizzazione crescente della vita politica americana[25]. Parte allora - nel punto più basso, in un momento di precipizio generalmente colto come irreversibile - l’azione per prepararsi ad un altro mondo e provare a risistemare l’impero.

 

 

Rivoluzione passiva

 

In primo piano, ci sono naturalmente lo scossone inferto alle ‘catene’ di Bretton Woods e il cambio di visione dall’Atlantico al Pacifico, con l’apertura alla Cina. Di quegli atti e passaggi si son date generalmente letture quasi tutte e sempre orientate da categorie quali ‘crisi’ e ‘declino’, scelte da «ultima chance»,  «acqua alla gola». E lo sguardo il più delle volte è stato tutto per il turbinio di compromessi e accordi che seguirono quelle decisioni- in particolare quella sul nuovo statuto del dollaro, sulle straordinarie difficoltà che le accompagnarono e ne scaturirono. Oggi possiamo valutarle meglio entro cornici analitiche più adeguate e informate. Svariati studi hanno rivelato quanto lunga e accurata sia stata la preparazione di quel colpo, fin da una campagna elettorale tesa a rompere il tradizione blocco politico-elettorale cementato decenni prima dal New Deal. L’unilateralismo non è la risorsa dell’ultimo momento: la mira è da tempo sui legacci che imprigionano dollaro e politica[26]. Nixon e Kissinger – e con loro John Connally, segretario al Tesoro - sanno di scatenare la finanza internazionale, un soggetto ormai non più controllabile da leve statuali, per quanto imperiali. Decidono di farlo secondo un calcolo che punta a conquistare il maggior grado di autonomia possibile in un mondo ormai inevitabilmente interdipendente. Mettono così il dollaro al centro di un nuovo turbine globale, sapendo che gli altri - da tempo impegnati nella difficile ricerca di una alternativa, di una moneta comune (Piano Werner) - non sapranno opporre o trovare, almeno a breve, un’altra strada. Dovranno acconciarsi.

Si avvia così una rivoluzione che ridisegna le forme del comando imperiale, mettendo fine all’«embedded liberalism», il liberalismo regolato, che aveva presieduto alla ricostruzione del «mondo libero». Lungo una tradizione che – dalla proclamazione della Dottrina Truman all’annuncio del Piano Marshall – alla pratica degli arcana imperii ha sempre preferito la comunicazione dei propri obiettivi, adesso il punto cardine delle scelte è proprio la consapevole attivazione di una folla di attori che si affiancano e rafforzano l’azione prettamente statuale nell’indirizzare i vari processi globali: grandi imprese multinazionali con i loro investimenti all’estero, o TNC, Transnational Corporations, organizzazioni non governative ecc. Il mondo non è più il liscio bigliardo di un tempo dominato uniformemente dalla rete degli Stati-nazione e regolato dalle feluche della diplomazia. Il governo cede il passo alla governance, alla moltiplicazione di attori e forme del governo, così come l’hard power - «farai quel che voglio» - al soft power: «sognerai di fare quel che io voglio».

La fine di Bretton Woods, la triangolazione del mondo realizzata a Pechino, segnano l’atto iniziale di una storia che ora procede sistematicamente con la costruzione di casematte a livello sovra e transnazionale. La società civile internazionale ora s’affolla e complica oltre ogni dire.

Del resto, basta distanziare lo sguardo dalle luci della ribalta internazionale per notare come a contribuire nel lungo periodo a quell’arrovesciamento del mondo, alla delineazione di un nuovo modo di condurre il gioco, c’è un clamoroso sforzo politico e intellettuale. Come non cogliere e sottolineare lo straordinario rinnovamento delle chiavi analitiche dell’occhio americano? Tra il 1970 e il 1973 vengono pubblicati Between Two Ages. America’s Role in the Technetronic Era,  di Zbigniew Brzezinski, The Coming of Post-Industrial Society di Daniel Bell, Anarchy, State and Utopia di Nozick, The World in Depression di Kindleberger, Transnational Relations and World Politics di Keohane e Nye[27]. Nascono allora parole d’ordine e visioni della società, dei suoi soggetti, del mondo, con le quali ancora oggi stentiamo a fare i conti. Categorie come ‘Stato minimo’, ‘post-industriale’, ‘transnazionale’, ‘egemonia’, ‘beni pubblici’, ‘network’, ‘globalizzazione’ da allora hanno ampliato e mutato il nostro vocabolario.  Oggi presidiano a gran parte della nostra attrezzatura analitica.

In quello stesso torno di tempo nasce la Trilateral Commission con la sua fortunatissima ricetta sul sovraccarico di democrazia da semplificare con la primazia degli esecutivi: una primazia sì nel comando ma soprattutto nella promozione e nel coordinamento del molteplice, attraverso il coordinamento nelle agende di lavoro di nuove élites e tecnocrazie.

Non sarà con questo bagaglio che Nixon finirà nelle maglie dell’empeachement. Ma sarà questa panoplia così ampia di temi ed attori a presiedere alla risalita degli USA dal baratro vietnamita, dalla crisi del Watergate. Una ripresa retrospettivamente più ampia e profonda di quella in genere frequentata dalla letteratura del declino. Basta far mente alla sequenza impressionante di innovazioni che si dipartono in quegli anni dai laboratori a stelle e strisce. Tra il 1970 e il 1975 vengono ideati e lanciati: codice a barre, microprocessore, floppy disc, la CAT o tomografia assiale computerizzata, e-mail,  marmitta catalitica, calcolatore tascabile, Altair, primo home computer ecc. Una nuova ondata di innovazione tecnologica inizia a sommergere il globo, dando l’avvio ad una rivoluzione planetaria nelle forme della comunicazione. Un nuovo individualismo fa il suo esordio: adesso non ascolta più solo la voce del mondo. Inizia a portarlo in tasca.

Le élites a stelle e strisce, la nuova dirigenza USA si ripensano nel mondo.  Con quel globo emerso dall’avventura spaziale e impugnato dalla contestazione. Gli USA proveranno a mettere a frutto il discorde dialogo con il protagonismo critico, a forte caratura giovanile, emerso dalle pieghe del mondo post-bellico: insomma, con quella soggettività variamente etichettata come Sessantotto. Muovono di lì, dalla risposta a quel nuovo soggetto, a quella straordinaria e globale domanda di ripensamento della politica, di rottura dei vecchi assetti bipolari, per avanzare un nuovo «assalto al cielo» della politica mondiale. Mentre l’URSS inizia ad accartocciarsi in difesa, dietro i suoi carri armati e i suoi missili – in Cecoslovacchia come in Afghanistan –, gli USA  si apprestano a digerire la sconfitta vietnamita e la crisi della «presidenza imperiale», finita impicciata nel Watergate.

Il rilancio sarà profondo e duraturo. Nulla lo spiega meglio della gramsciana categoria di rivoluzione passiva. Ai giovani del ’68 e alla loro domanda di forme nuove di responsabilità e governo mondiale, gli USA risponderanno accettando quell’arena di confronto, ma rimescolando poste e sfide sul terreno di individualismo e consumismo, del loro sviluppo e della loro promozione globali. Sarà in quelle forme che proveranno a riplasmare il mondo in forme sempre più parossistiche, a mano a mano che finanza e comunicazione imporranno al globo i loro nuovi diritti di signoraggio.

 

 

La riscoperta dei diritti umani

 

A schermare e rafforzare quest’opera di rilancio di egemonia e primato contribuirà anche la lenta, contraddittoria riscoperta di una tematica rimasta silente e negletta anche nei momenti più rigidi della «guerra fredda»: la battaglia sui «diritti umani».

Uno strano destino la accompagna nel passaggio dagli anni Sessanta al decennio successivo. Nasce all’alba degli anni Sessanta nel fuoco dello scontro sui diritti civili. Rafforzata lentamente dalla crescente consapevolezza dell’Olocausto, permessa anche da una nuova letteratura sul tema, esplode come critica delle stragi e delle degenerazioni belliche in Vietnam, «antidoto al peccato e alla colpa»[28].  Sarà George McGovern a farla propria nelle proprie battaglie nelle primarie democratiche del 1968 e poi nelle elezioni presidenziali del 1972. Finirà però anche distorta nelle mani della destra americana che la lancerà, sempre nella battaglia elettorale del 1972, in versione anticomunista e antisovietica. A metà degli anni Settanta celebrerà un suo trionfo nelle formule diplomatiche che coroneranno ad Helsinki  la firma dell’ «Atto finale della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa».

Non vi è spazio qui ora per ricostruire i canali molteplici attraverso cui si alimentava – tra mille contraddizioni e anche altrove, specie nell’Europa dell’Est – questa riscoperta di temi e parole d’ordine scolpite nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Il lungo inverno della «guerra fredda», con l’esaltazione delle tematiche  della ricostruzione dalla guerra e dell’autodeterminazione, aveva fatto sì che anche la lunga stagione della battaglia di liberazione dal neocolonialimo riconoscesse una primazia al tema della sovranità  politica. Questa passa in secondo ordine a mano a mano che la politica di potenza,  in Vietnam o Cecoslovacchia, finisce sul banco degli accusati e che dalle parti più varie del globo – dall’America latina di Pinochet o dell’Uruguay, dal Burundi all’Uganda, all’Indonesia o al Pakistan - si infittiscono le denunce su torture, imprigionamenti, stragi o veri e propri genocidi. Impugnarli significa allora tornare a riconoscere il mondo per quello che è, provando a purgarlo degli abusi più intollerabili, ma con uno sguardo mondo dell’ampia fiducia un tempo concessa alla statualità.

Volta a volta i diritti umani finivano così vissuti o vantati per fini diversi e magari opposti: viatico per recuperare ora l’innocenza ora lo spazio perduti in Vietnam. E così i neoconservatori ritornava a magnificare, sotto altre spoglie, l’anticomunismo di sempre, mentre i liberal tornavano a predicare virtù.

Da sponde e con accenti diversi, comunque, queste riprese d’attenzione per le libertà e i diritti umani sottilmente congiurano infine nel decennio ad una sottile ma comune accentuazione di un tema antico della tradizione politica americana: l’eccezionalismo.

Prima vi sono gli USA che si affacciano sul globo, forti sì dello stato di superpotenza loro consegnato dall’atomica, ma soprattutto disposti a mutare il mondo, a provvederlo di pace e sicurezza e sviluppo, come strada principe per curare il legno storto della democrazia americana, per sospingerla oltre le libertà ereditate dalla storica Dichiarazione di indipendenza.  Era questa la sostanza del rooseveltismo, la sua proclamazione delle Quattro libertà, la sua teorizzazione di un Economic Bill of Rights a coronamento della rivoluzione promossa con il New Deal: le libertà del moderno Novecento - «libertà dalla paura», «libertà dal bisogno» - per affermarsi non avevano bisogno più di contrapporsi al potere, ma di piegarlo, addomesticarlo, dirigerlo, in una nuova e inedita alleanza, così da espandersi in campi nuovi, per coniugarsi come eguaglianza e incarnarsi in nuovi diritti politici, ma soprattutto civili e sociali.

Riguardando parole ed esempi di figure quali quelle di Reinhold Niebuhr, nume tutelare del pensiero democratico statunitense, o di George F. Kennan, padre del contenimento o delle letture del mondo sottese al Piano Marshall, si nota con immediatezza che per loro la democrazia «è qualcosa che dobbiamo perseguire non qualcosa che incarniamo naturalmente, qualcosa che conquistiamo non esortando gli altri, ma combattendo il male che è in noi stessi. L’ironia dell’eccezionalismo americano di allora era di ispirare il mondo riconoscendo la propria fallibilità»[29].

La lettura neoliberale e infine neoconservatrice, che si alimenta di una variegata riscoperta dei diritti umani, provvede  a stravolgere il rapporto tra USA, democrazia e mondo. Gli Stati Uniti si ergeranno ora come moderna, risplendente incarnazione di A City on the Hill, «una città su una collina, gli occhi del mondo fissi su di noi», così come tramandata nell’iconografia più classica dei Padri Pellegrini. E’ da questo roccioso, esemplare e infallibile fondamento che muoveranno contro il male nel mondo, in lotta al fondamentalismo, moderna incarnazione del totalitarismo già due volte sconfitto nel Primo Novecento. La democrazia si può esportare perché essa è incardinata saldamente nell’American Way of Life: la sua riproducibilità, assieme ad un modello di mercato e di consumi, è garantita dal saldo possesso vantato sul suo copyright originario. La rivendicazione degli USA come alfieri dei «diritti umani» nel mondo finirà con l’alimentare al volgere di secolo e di millennio gli eclatanti ossimori della «guerra umanitaria» e la santificazione della «democrazia da esportazione».

 

 

 

 

Colpo di reni

 

L’Europa prova ad abbozzare una risposta, vogliosa di succedere o d’affiancarsi all’”amico americano” nella stanza dei bottoni del Nuovo Mondo. Il duo Schmidt-Giscard tenta di approfittare dell’occasione storica offerta dal capitombolo americano per i gradini ripidissimi di Vietnam e Cile, Watergate e Culture wars. Su loro ispirazione si materializza il sogno supremo della Trilateral: un coordinamento globale degli esecutivi al massimo livello[30]. A Rambouillet e subito dopo Francia e Germania provano persino a far da sponda alla richiesta di “nuovo ordine mondiale” che viene dal Sud. Sarà un fallimento in cui si incuneano gli USA che rompono l’assedio e con il nuovo dollaro, provvisto di margini di fluttuazione, si offrono come sicuro approdo dei petrodollari che copiosi affluiranno negli States. Il Terzo mondo ne esce sfrangiato, l’Europa dovrà cercare ulteriori strade per sopravvivere unita

Si faranno così avanti – spesso promosse in questi coordinamenti esecutivi, animati il più delle volte dalle divisioni europee e da una nuova sicurezza americana - altre regolazioni e ordinamenti. Ad orientarli il nuovo verbo a stelle e strisce che da tempo affatica gli americani nel tentativo di far rifiatare dollaro ed egemonia. A Helsinki si chiude intanto il primo capitolo della galoppata dei diritti umani: l’eredità della seconda guerra mondiale e la coesistenza dei blocchi viene  regolata all’insegna del rispetto per i diritti umani e la libertà fondamentali. In primo piano la libertà di scelta. Non c’è menzione alcuna invece per la promozione di eguaglianza e benessere – vero tratto caratteristico dell’antifascismo e di tutte le costituzioni del dopoguerra, dello stesso New Deal. Esemplari di questa deriva le letture speculari date sulla preminenza dei diritti umani da Jimmy Carter o da Vàclav Havel, tutte all’insegna di un politica legalitaria, depotenziata di ogni capacità trasformatrice[31]. Lo Stato, la leva pubblica sono ovunque sul banco degli accusati per la crisi fiscale finita ovunque fuori controllo.

E’ il «Rapporto McCracken» – Towards Full Employment and Price Stability - a nominare il problema[32]: le politiche keynesiane hanno ormai creato un problema di compatibilità tra capitalismo e democrazia. Il sovraccarico di domanda è qualcosa che non pesa solo sulle aule parlamentari ma direttamente sull’accumulazione. Per tornare ad una coabitazione virtuosa tra i due termini v’è bisogno di uno Stato o meglio di una «democrazia disciplinare» capace di imporre o convincere cittadini, lavoratori e imprese ad un passo indietro rispetto a livello dei salari e conquiste sul terreno dei benefici sociali e fiscali del passato. La mira delle politiche pubbliche deve cambiare: dalla piena occupazione al controllo dell’inflazione.

È su questo piano inclinato che verrà a disporsi lo SME, il Sistema Monetario Europeo, di Schmidt e Giscard, disposto a condividere quella filosofia dell’intervento pubblico. Strada facendo sarà rafforzato in questi presupposti dalla sentenza sul «Cassis di Digione» della Corte di Giustizia: veniva sdogatato il principio per cui un bene conforme alla legislazione del paese di provenienza poteva correre liberamente per tutti i paesi CEE. Basta con la armonizzazione dall’alto delle legislazioni. Via all’equivalenza e al riconoscimento reciproco. La concorrenza ora si sposta dai prodotti alle legislazioni. Si spalanca la porta alla legislazione più leggera, allo Stato minimo, alla concorrenza degli ordinamenti[33]. Essa diverrà poi metodo comunitario, con l’«Atto unico» e soprattutto con la presidenza Delors, con il suo Libro bianco per il completamento del mercato interno. La realizzazione del mercato unico, in barba ad ogni vulgata neoliberista, un piano, per decisione politica

È paradossale che la svolta fondamentale dello SME maturi nell’ambito di un contrasto – divenuto poi un dato costante – tra Helmut Schmidt e la dirigenza della Bundesbank, insomma con l’anima più disciplinare e tecnocratica delle élites europee, contraria ad interventi illimitati dell’istituto in momenti di crisi o squilibrio (un dato su cui ora non si può approfondire l’analisi, ma di grande interesse, perché costante nei momenti più acuti di crisi in Germania come in Europa: basti pensare alla sua rilevanza al momento dell’unificazione tedesca e con lo scontro Kohl-Pohl). Così come è altrettanto paradossale che proprio Helmut Schmidt, di spiccatissimo europeismo, sia stato il più deciso propugnatore dell’installazione degli euromissili[34].

Originariamente Carter non è per una copertura assoluta dell’Europa: la «risposta flessibile» rappresenta la sua impostazione originaria. Saranno gli europei - e tra essi soprattutto Schmidt, seguito con decisione da Cossiga - ad insistere per una risposta che non lasci dubbi o ambiguità nella copertura dell’ombrello americano. Da parte tedesca si cerca un vincolo assoluto a mano a mano che la situazione internazionale si incancrenisce e cresce la pressione, dall’Iran all’Afghanistan.

Iniziano allora le prime, decise evoluzioni di un nuovo pacifismo, assolutamente diverso, altro da quello che in Europa aveva vissuto i suoi fasti come movimento dei «Partigiani della pace». Assai composito, multiforme rispetto al suo predecessore, animato dai vari soggetti e movimenti che si sono fatti avanti nell’ultimo decennio – ecologismo, femminismo – ma marchiato dal comune denominatore di una lettura avanzata della parola d’ordine dei diritti umani e di un universalismo fondato sulla idea regolativa della pace. Esaurirà la sua spinta quanto sarà costretto paradossalmente a salutare la vittoria della propria parola d’ordine - «opzione zero» - celebrata però da altri. Ovvero quando i due Grandi, grazie anche alla statura politica di Reagan e Gorbaciov, con un tratto di penna la materializzeranno realizzando, ad un tempo, il sogno pacifista e la subitanea delegittimazione dell’intera classe dirigente europea, saldamente attestata in difesa di quella barriera. Risorgerà volta a volta dalle ceneri e sempre sotto diverse spoglie nei momenti di stretta e crisi globale: come movimento per la pace ancora contro la guerra del Golfo, o come movimento global o no-global nella Francia del 1995 o nella Seattle di fine secolo, a salutare la nascita della WTO, o ancora come movimento per i beni comuni, con le etichette conquistate nella critica al neoliberismo e ai suoi fallimenti: indignados, OWS - Occupy Wall Street ecc.

Non riuscirà mai a sortire dallo stato larvale, a volare, farsi soggetto, perché non saprà o non vorrà mai tematizzare né incrociare la tematica istituzionale: sovranazionale o internazionale che sia. Masse e movimenti marceranno su binari che quasi mai – tranne che in alcuni Summitt dell’ONU sul clima o le diseguaglianze – incroceranno quelli istituzionali, lungo i quali intanto procedono senza requie la complicazione istituzionale e l’affollamento delle sedi più disparate. Del resto non è ai tavoli ufficiali, magari quelli delle Nazioni Unite, che vengono poggiati i dossier più pesanti. Sarà per altre strade – magari dalla Conferenza di Helsinki o dai negoziati Gatt – che su impulso soprattutto degli USA avverranno le svolte decisive: la nascita della CSCE, con la successiva, definitiva trasformazione in OSCE, o quella della WTO.

A rendere ancor più difficoltosa, sul finire degli anni Settanta, la decifrazione della fase provvede inoltre un generale oscuramento dell’orizzonte. È nel Pacifico che matura ed esplode la crisi di quell’universalismo di conio occidentale che negli ultimi decenni aveva coltivato, attorno e accanto al Vietnam, il sogno di un ridisegno dal basso degli equilibri globali. Il Davide che aveva raccolto attorno a sé il mondo nella sua battaglia vittoriosa contro Golia vomita ora Boat-People soccorsi d’ogni dove. L’internazionalismo che aveva intravisto nella sua battaglia la possibilità di un arrovesciamento dei rapporti di forza globali deve ora riconoscere le ragioni di altri ultimi. La corsa del mondo per indipendenza, autodeterminazione e sovranità non contempla più necessariamente l’affermazione di e nuovi diritti e libertà. Può deflagrare ora per oppressioni e barbarie di nuovo tipo. E che la corsa della storia possa ora conoscere inedite complicazioni sta a dimostrarlo la vicenda iraniana. Lì i diseredati di una modernizzazione selvaggia, nel liberarsi dalle catene dei Pahlavi, pensano di trovare nella religione e in Kohmeini il loro vindice sicuro. La marcia fin qui apparentemente inarrestabile della secolarizzazione marca il passo ovunque. Da più parti nel mondo s’allargano i dubbi: non solo e non più sulla fattibilità delle sue promesse, ma direttamente sulla loro bontà. Sempre più spesso e per più parti la religione torna ad essere invocata come riparo e balsamo di un «società senza centro, anomica», tetto per i dannati della terra. Ovunque emergono nuovi integralismi e fondamentalismi tesi a «evangelizzare il mondo o l’Europa» o «islamizzare la modernità». S’avanza ora «la rivincita di Dio»[35]. La religione torna ragione del mondo e annuncia lo «scontro di civiltà» sospeso poco dopo sul futuro della Terra da Samuel Huntington[36]. A rappresentare emblematicamente latitudine della ricerca e smarrimento, interrogativi e dubbi della ragione occidentale sta il lavorio di Michel Foucault. Non a caso la sua interrogazione sulla governamentalità, sulle sue radici nel «governo pastorale delle anime», gli va volgere sguardo e attenzione ai nuovi pastori, a Khomeini e all’Islam politico, così come ai Boat-People e al diritto, come limite alla potenza d’ogni forma di potere e alle sue escrescenze[37].

Sarà Ernst Nolte a individuare con più decisione nel biennio 1978-1979 lo scatto di reni della reazione neoconservatrice[38]. A Manila fallisce l’ultimo tentativo dell’Unctad di conquistare posizioni sulla parola d’ordine di un «nuovo modello di sviluppo». La seconda crisi petrolifera sfrangia il Terzo Mondo e riallontana Nord e Sud del globo. Crisi iraniana, Euromissili e SME scombussolano i vecchi equilibri, spianando la strada a Thatcher, Reagan e infine Kohl. L’onnipotenza della politica, almeno a dimensione nazionale, è continuamente posta sotto scacco. Carter ne ha fatto già dolorosa esperienza con la scelta di Volcker alla Federal Reserve e di tarpare le ali del dollaro. Di lì a poco Mitterrand si accorgerà – troppo presto rispetto all’inizio, ma in ritardo sui tempi – che per la sua Francia e l’ambizioso programma di nazionalizzazioni non c’è abbastanza acqua per nuotare. Sarà svolta europea.

Il mondo s’arrovescia ora sul Pacifico. Le «quattro modernizzazioni» di Deng confermano che su quei fondali e sul nuovo «cambio fisso» dollaro-yuan si sta incardinando davvero il «mondo nuovo». Gli USA - «impero della produzione» nei Trente Glorieuses con l’esportazione di «dollari, pallottole e burro» - divengono ora «importatori di capitali esteri». Adesso «gli scaffali di Wal-Mart sono riforniti dalla Cina»[39].

 

 

Illusioni

 

Varrà la pena, nel concludere questo sguardo d’insieme sulle mutazioni della scena internazionale, soffermarsi sull’ultima, sfortunata manifestazione di prometeismo politico, non a caso sfociata nel crollo dell’ordine bipolare: la parabola di Gorbacev e del suo tentativo di riforma, associato all’invocazione di un «nuovo ordine mondiale»È il caso di soffermarsi proprio su questa espressione -  generalmente ricordata e attribuita al presidente Bush – ma che invece è posta da Gorbaciov, il 7 dicembre 1988, al centro di un proprio, famoso intervento alla Assemblea generale delle Nazioni Unite[40].  Sono parole di straordinaria chiarezza e suggestione in cui riecheggiano le teorizzazioni e rivendicazioni di qualche anno del «Gruppo dei 77», del Sud del Mondo, per chiedere un mutamento dei complessivi equilibri mondiali.

Sulle labbra di Gorbacev il «nuovo ordine mondiale» veniva rivendicato come necessità storica per impedire che «la spontaneità non regolata» possa condurre il mondo «in un vicolo cieco». Di qui il bisogno non solo di «cooperazione», ma di «creazione comune» di un nuovo ordine, di «co-sviluppo». E a predicato di questa nuova forma delle relazioni internazionali Gorbaciov aveva posto una virtuosa compresenza di «differenze di sistema», come fattore di «arricchimento e avvicinamento reciproci», in modo da escludere sia che «i processi interni di trasformazione» procedano «lungo ‘corsi paralleli’ rispetto agli altri, senza utilizzare le conquiste del mondo circostante», sia che vi siano «ingerenze nei processi interni» tese a «modificarli sulla base di modelli ad essi estranei».

Lungo questa linea Gorbacev postulava una ripresa di centralità dell’ONU, ben salda al comando di una agenda della politica mondiale orientata da un punto preciso: il disarmo: Per il leader sovietico, senza di esso «nessun problema del XXI secolo può esser risolto». Al contempo annunciava un consistente, unilaterale taglio delle forze armate sovietiche e fissava gli obiettivi fondamentali cui ora si improntava la politica estera sovietica in tema di armamenti: «la costruzione di un mondo denuclearizzato», il passaggio «dal principio del superarmamento al principio della ragionevole sufficienza difensiva». Insomma, in quella prospettazione di futuro c’è una tribuna chiara – l’ONU, la comunità degli Stati – e un’audience precisa: il pacifismo nelle sue varie vesti e espressioni con la sua netta rivendicazione di disarmo.

Altri gli orizzonti indicati da Bush l’11 settembre 1990, davanti al congresso USA[41]. Anch’egli è proteso verso «un nuovo ordine mondiale: una nuova era, libera dalla minaccia del terrore, più forte nel perseguimento della giustizia, più sicura nella ricerca della pace». A segnare la discontinuità storica stanno però già cinque risoluzioni del Consiglio di sicurezza: con il concorso diretto dell’URSS di Gorbacev condannano l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam Hussein e fissano i termini per la soluzione della crisi e il ristabilimento della pace. Per il presidente americano «è iniziata una nuova era di cooperazione tra le nazioni», che – come preciserà in un successivo discorso all’Assemblea delle Nazioni Unite[42] – ci sta portando «in un mondo nuovo e diverso», un mondo in cui «stiamo finalmente vedendo la possibilità di usare le Nazioni Unite per gli scopi per cui furono concepite: come centro per la sicurezza collettiva internazionale».

Di lì a poco si darà avvio ad una guerra benedetta dal Consiglio di sicurezza e segnata dalla preponderanza politica, militare, economica degli USA. Segnerà il mondo per il tempo a venire e non certo in direzione del «nuovo ordine mondiale» promesso e vantato.

Invano si può cercare il termine ‘disarmo’ o un qualche riferimento ad esso nei due discorsi di Bush: una ricerca del resto improbabile in giorni in cui si sta già ammassando in Medioriente la nuova “Invincibile Armata”. Il suo «nuovo ordine mondiale» si nutre di altre dinamiche e visioni: a senso unico. Intanto muove dall’altrui collasso: siamo in un mondo altro da quello conosciuto, oltre «il contenimento e la deterrenza», a causa dei «cambiamenti che si sono prodotti in Unione Sovietica», esclama il presidente di fronte all’Assemblea delle Nazioni Unite. La «rivoluzione dell’89 ha spazzato il mondo» e «ha trasformato il clima politico dall’Europa centrale all’America centrale e toccato ogni angolo del globo». Né vi possono essere dubbi sulla direzione di marcia: è già possibile intravedere «un mondo in cui la democrazia continua a conquistare nuovi amici e a convertire vecchi nemici e in cui le Americhe – del Nord, del Centro e del Sud – come primo emisfero completamente libero del mondo possono funzionare da modello per il futuro dell’intera umanità»; così come è possibile vedere «un mondo che si costruisce sul nuovo modello di Unione europea, un mondo intero unito e libero, e non solo l’Europa».

In queste righe ricorre un utilizzo della parola d’ordine delle libertà e dei diritti assolutamente altro da quello di Gorbacev.  Netto e limpido spicca l’ennesimo ciclo di rivoluzione passiva che gli USA di Bush si apprestano a lanciare all’inizio degli anni 90. Si appropriano della parola d’ordine lanciata da Gorbacev, ma per stravolgerla a manto di una mutazione che contempla la coltivazione della asimmetria vantata dagli USA e dall’Occidente nei confronti tanto del Sud del Mondo che dell’Est. E che questa sia la direzione di marcia è reso subito evidente sia dalla condotta della guerra mediorientale, malamente mascherata da operazione di «polizia internazionale», sia dalla riunione del G7 a Londra del luglio 1991.

Vi partecipa come invitato anche Gorbacev. Chiede appoggio e aiuti. Con la rilevante eccezione di Andreotti e Mitterrand che comprendono importanza e delicatezza del momento attraversato dall’URSS e dalla leadership gorbacioviana, gli altri Grandi chiedono rassicurazioni preventive, passi concreti e ultimativi su liberalizzazioni e privatizzazioni: un salto di sistema[43]. Fino alla fine tengono stretti i cordoni della borsa e della solidarietà politica. È la delegittimazione assoluta del gorbaciovismo, del tentativo di riformare l’URSS dall’interno. Un salto nel buio che si traduce immediatamente nel via libera ai golpisti, alla dissoluzione dell’URSS, al ‘riformatore’ Eltsin.

Quanto pesa in Gorbacev la pratica oligarchica, il rispetto della nomenclatura, una pratica tribunizia tutta affidata alla comunicazione? Quanto pesa nella sua esperienza e traiettoria politica la pratica dei vertici, lo stesso G7 con la sua pratica della comunicazione planetaria che poi però lo lascia solo di fronte alla rivolta dei suoi consociati quando l’unica concreta prospettiva diviene quella di una generale rottamazione. Sarà la rivolta della nomenklatura che nelle varie repubbliche sceglierà la propria sopravvivenza e la muta di pelle oligarchica, la privatizzazione generalizzata. Un percorso altro da quello di Deng che prima di aprire rassicura i suoi: nelle vostre mani stanno le chiavi della Cina. A voi decidere e controllare l’apertura al mondo.

Avendo spazio e tempo bisognerebbe concentrarsi su questi aspetti per illuminare i contrasti e i rapporti di tipo nuovo che si vengono ora ad instaurare tra nazionale e transnazionale, statuale e sovranazionale

Siamo ormai in un’altra epoca. All’età della speranza è subentrata definitivamente – e per un bel pezzo - quella dell’angoscia. Il futuro non sarà mai più come prima. Non si potrà più intravederlo o sognarlo, come per il passato. Di qui lo scavo affannoso e senza fine nel passato, la ‘memoria’ di Sisifo dei nostri tempi.



[1] John Williamson, facitore dell’espressione, ne ha ben descritto origine e sviluppi in una serie di saggi:  What Washington Means by Policy Reform, in John Williamson (ed.), Latin American Adjustment: How Much Has Happened?, Institute for International Economics, Washington, D.C., 1990; The Washington Consensus as Policy Prescription for Development, a lecture in the series Practitioners of Development, delivered at the World Bank on January 13, 2004.

[2] M. McLuhan-B. R. Powers, The Global Village, New York, Oxford University Press, 1989, tr. it.: Il villaggio globale. XXI secolo: trasformazioni nella vita e nei media, Milano, SugarCo, 1992, p. 22.

[3] Sul peso che le missioni Apollo e la corsa allo spazio hanno avuto nell’affermazione di una determinata visione della globalizzazione ho già avuto modo di trattenermi nel capitolo finale - Pensiero globale – di Dopo Maastricht. Cronache dall’Europa di fine secolo, Molfetta, la meridiana, 1998.

[4] M. McLuhan, Understanding Media, 1964, tr. it.: Gli strumenti del comunicare, Milano, Il Saggiatore, 1967, p. 11, corsivi del testo originario.

[5] Barbara J. Keys, Reclaiming American Virtue. The Human Rights Revolution of the 1970s, Harvard University Press 2014, p. 10.

[6] Il saggio Jaspers as Citizen of the World era apparso in realtà nel 1957 in un volume collettaneo. Fu poi ripresentato nel 1968 dalla Arendt nella raccolta Men in Dark Times con la significativa aggiunta del punto interrogativo finale, Jaspers cittadino del mondo?, che compare anche nella traduzione italiana nella raccolta curata da Rosalia Peluso, H. Arendt, Humanitas Mundi. Scritti su Karl Jaspers, Milano, Mimesis, 2015, pp. 69-83, da cui citiamo.

[7] Ivi, pp. 70-1.

[8] H. Arendt, On Violence, New York, Harcourt, Brace, Jovanovitch, 1970, tr. it. Sulla violenza, Parma, Guanda, 1996, p. 21

[9] M. Revelli, 1968. La grande contestazione, Roma-Bari, Laterza, 2008.

[10] A Port Huron nell’estate 1962 si tenne la convenzione nazionale della SDS, Students for A Democratic Society, una delle componenti principali di quella che diventerà la New Left statunitense. Fu elaborato in quei giorni The Port Huron Statement, considerato una delle fonti primarie della contestazione giovanile degli anni Sessanta. La sua traduzione ora come Manifesto di Port Huron in Il ’68 senza Lenin. Ovvero: la politica ridefinita. Testi e documenti. Introduzione di Goffredo Fofi, Roma, edizioni e/o,  1998, pp. 15-7.

[11] McLuhan, Gli strumenti del comunicare cit., p. 57.

[12] Sui tratti costitutivi del 1968, oltre il già citato studio di Revelli, cfr. P. Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, Roma, Editori riuniti, 1988; G. Arrighi-T.H. Hopkins-I. Wallerstein, Antisystemic Movements, Roma, Manifestolibri, 1992; D.Archibugi-R Falk-D.Held-M. Kaldor, Cosmopolis: E’ possibile una democrazia sovranazionale?, Roma, Manifestolibri, 1993; M. Revelli, Movimenti sociali e spazio politico, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. II La trasformazione dell’Italia: sviluppo e squilibri, t. 2 Istituzioni, movimenti e culture, pp. 383-476. Sul rapporto con l’Olocausto e la bomba della generazione degli anni Sessanta, cfr. H. Arendt, Sulla violenza, in Politica e menzogna, Milano, SugarCo, 1985, pp. 165-251 e in particolare pp. 177-80. Sulla “ridefinizione” della politica, C. Donolo, La politica ridefinita. Note sul movimento studentesco, in “Quaderni piacentini”, 1968, n. 35, ora parzialmente in G. Vacca, Politica e teoria nel marxismo italiano, 1959-1969. Antologia critica, Bari, De Donato, 1972, pp. 393-416.

[13] Dal titolo del libro omonimo di Jean Fourastié sul trentennio di crescita del secondo dopoguerra: Les Trente Glorieuses: Ou la révolution invisible de 1946 à 1975, Paris, Fayard, 1979.

[14] La traduzione italiana fu pubblicata dalla Biblioteca della EST, Edizioni scientifiche e tecniche Mondadori, Milano 1972. Per l’edizione originale cfr. D. H. Meadows et al., The Limits to Growth, New York, Universe Books

[15] Z. Brzezinski, Between Two Ages. America’s Role in the Technetronic Era, New York, The Viking Press, 1970, rispettivamente pp. 19 e 3. Sulla figura di Brzezinski e sul suo ruolo nell’avvio della Trilateral, cfr. S. Gill, American Hegemony and the Trilateral Commission, Cambridge University Press, 1990, pp. 122-79 e la Nota introduttiva dello stesso Brzezinski al volume di M.J. Crozier-S.P. Huntington-J. Watanuki, The Crisis of Democracy. Report on the Governability of Democracies to the Trilateral Commission, 1975, tr. it.: La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione trilaterale, Milano, Franco Angeli, 1977.

[16] J. Carter, Crisis of Confidence Speech, 15 luglio 1979, rintracciabile ora presso il Miller Center della University of Virginia.

[17] Ch. S. Maier, “Malaise”: The Crisis of Capitalism in the 70’s, in Maier – Sargent – Manela – Ferguson (eds), The Schock of the Global, Cambridge, Belknap Press, 2011, pp. 25-48.

[18] B. Trentin, Le dottrine neocapitalistiche e l’ideologia delle forze dominanti nella politica economica italiana, in Tendenze del capitalismo italiano, Atti del convegno dell’Istituto Gramsci, Roma, Editori riuniti, 1962, ora in Vacca, Politica e teoria nel marxismo italiano, cit.

[19] Cfr. G. Garavini, Il confronto Nord-Sud allo specchio: l’impatto del Terzo Mondo sull’Europa Occidentale, in A. Varsori (ed.), Alle origini del presente. L’Europa occidentale nella crisi degli anni Settanta, Milano, Angeli, 2007.

[20] Sul Quarto Punto di Truman e la categoria di sviluppo nel secondo dopoguerra, cfr. G. Rist, The History of Development: From Western Origins to Global Faith, London-New York, Red Books,, 1997, tr. it. Lo sviluppo. Storia di una credenza occidentale, Torino, Bollati Boringhieri, 1997.

[21] Sul precipitarsi dell’URSS nel «Vietnam afghano», illuminanti le risposte di Z. Brzezinski a «Le Nouvel Observateur» del 15 gennaio 1998: Brzezinki: «Oui, la CIA est entrée en Afghanistan avant les russes …».

[22] Odd Arne Westad, The Great Transformation: China in the Long 1970s, in Shock of the Global, cit.

[23] Cfr. il volume omonimo edito da Flammarion, Paris, 1999.

[24] Alvin Toffler, Future Shock, New York, Random House, 1970, tr. it.: Lo choc del futuro, Milano, Rizzoli, 1971.

[25] Sulle categorie di culture wars e polarization come costanti della vita americana fin dagli anni 70, cfr.: J. D. Hunter, Culture Wars; The Struggle to Define America, New York, Basic Books, 1991; R. Brownstein, The Second Civil War. How Extreme Partisanship Has Paralized Washington and Polarized America, New York, Penguin Books, 2008.

[26] Cfr. la ricchissima bibliografia e la ricostruzione proposte da D. Basosi, Il governo del dollaro. Interdipendenza economica e potere statunitense negli anni di Richard Nixon (1969-1973), Firenze, Polistampa, 2006.

[27] Solo alcuni tradotti in italiano: Nozick per il Saggiatore nel 1981, Kindleberger per Etas nel 1982.

[28] Così Barbara J. Keys, Reclaiming American Virtue, cit. Fondamentale per una più ampia ricostruzione S. Moyn, The Last Utopia. Human Rights in History, Cambridge and London, Harvard University Press, 2010.

[29] Così P. Beinart, The Rehabilitation of the Cold-War Liberal, in «The New York Times Magazine», 30 aprile 2006.

[30] N. Bayne – R. Putnam, Hanging Together: Cooperation and Conflict in the Seven Power Summits, Cambridge, Harvard University Press, 1987; H. James, Rambouillet, 15 november 1975: Die Globalisierung der Wirtschaft, Munich, DTV, 1997, tr. it.: Rambouillet. 15 novembre 1975. La globalizzazione dell’economia, Bologna, Mulino, 1999.

[31] Cfr. Moyn, The Last Utopia cit.,  posiz.  1806 e 1879.

[32] Paris, OECD publication, 1977.

[33] Cfr. M. Albert –J. Boissonat, Crise, Krach, Boom, Paris, Seuil, 1988, tr. it.: Crisi, disastro, miracolo. L’Europa nel gioco a rischio dell’economia mondiale, Bologna, Il Mulino, 1989.

[34] Cfr. Nuti – Bozo – Rey – Rother (eds.), The Euromissile Crisis and the End of the  Cold War, Stanford University Press, 1985; per il ruolo di Cossiga, cfr. S. Berlinguer, Ho visto uccidere la Prima Repubblica, Sassari, Carlo Delfino editore, 2014.

[35] G. Kepel, La Revanche de Dieu : Chrétiens, juifs et musulmans à la reconquête du monde, Paris, Seuil, 2003, tr. it. La rivincita di Dio, Milano, Rizzoli, 1991, citazioni a pp. 14-5..

[36] The Clash of the Civilizations and the Remaking of World Order, New York, Simon & Schuster, 1996, tr. it.: Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano, Garzanti, 1997.

[37] M. Foucault, Naissance de la biopolitique. Cours au College de France. 1978-1979, Paris, Gallimard-Seuil, 2004, tr. it. Nascita della biopolitica : corso al Collège de France (1978-1979), Milano, Feltrinelli, 2009; Foucault, Taccuino persiano, a cura di R. Guolo e P. Panza, Milano, Guerini, 1998. Cfr. anche O. Marzocca, Perché il governo. Il laboratorio etico-politico di Foucault, Roma, manifestolibri, 2007.

[38] E. Nolte, Gli anni della violenza. Un secolo di guerra civile ideologica europea e mondiale, Milano, Rizzoli, 1995.

[39] D. J. Sargent, The United States and Globalization in the 1970s, in The Shock of the Global cit., pp. 60-1.

[40] Tradotto in italiano nell’antologia Pensare il mondo nuovo, con Introduzione di G. Vacca, Roma, l’Unità, 1989, pp. 23-40.

[41] G. Bush, Address Before a Joint Session of the Congress on the Persian Gulf Crisis and the Federal Budget Deficit, rintracciabile presso il sito della George Bush Presidential Library and Museum,  http://bushlibrary.tamu.edu.

[42] Address Before the 45th Session of the United Nations General Assembly in New York, 1° ottobre 1990, ibid.

[43] Il verbale della riunione, tenuta a Londra il 17 luglio del 1991, è stato pubblicato da Giulietto Chiesa  sulla «Stampa» del 13 giugno 1993.

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COME FU APPROVATO UN PIANO REGOLATORE

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MEMORIA MAGISTRA VITAE - III
Riordinando archivi e carte, la memoria rivive. Riproviamo perciò a trasmettere un po’ di storia documentata. Sempre utile quando il passato – più o meno lontano – scolorisce e finisce soggetto a troppe, sfacciate strumentalizzazioni.

 COME FU APPROVATO UN PIANO REGOLATORE

DIVENUTO POI TRAPPOLA

Era l’undici gennaio 1985. Di lì a poco si sarebbe votato per il rinnovo del Consiglio comunale di Giovinazzo. E l’Amministrazione a guida DC ambiva ad un terzo mandato. Quale passaporto migliore dell’approvazione di un Piano regolatore generale dopo che le scelte del Piano di fabbricazione varato nel 1971 erano ormai divenute inattuali?

In realtà, il percorso era iniziato da molto tempo, fin dal 1976, e aveva cominciato a produrre passi concreti a partire dal 1979-80, ovvero dalle deliberazioni con cui il Consiglio comunale aveva varato le cosiddette “sopra-elevazioni” in zona B e definito i criteri di sviluppo e sanatoria per le aree della zona costiera interessate dai fenomeni di abusivismo edilizio. Adesso si trattava di concludere quella marcia.

La seduta dell’11 gennaio iniziava dall’audizione dei tecnici incaricati. Tra varie precisazioni si delineava il quadro di assieme in cui veniva a calarsi la proposta specifica di piano regolatore: la crisi delle AFP, la fine della Cassa per il Mezzogiorno, la delineazione del primo Progetto di Area metropolitana di Bari.

Un primo punto di discussione riguardò la generale parametrazione del piano a 25 mila abitanti per il 1999. Vivace fu allora la discussione tra gli esponenti del PCI e i tecnici. Di fatto, oltre alla sottolineatura di alcuni errori tecnici nelle formule adoperate, emerse che in realtà per quel parametro erano stati adoperati tutta una serie di riferimenti di sviluppo generale ormai mutati, non più attuali. Alla fine i tecnici ebbero buon gioco contro un PCI rimasto isolato nella indicazione di quel dato irreale di 25 mila abitanti che poi avrebbe determinato, a cascata, tutta una serie di incidenze settoriali.

Un secondo punto di discussione si accese sulla destinazione delle aree AFP. Dopo aver ricordato che una prima bozza di piano aveva ipotizzato la delocalizzazione completa delle AFP nella zona ASI e la destinazione dell’area dismessa a terziario direzionale (ipotesi già rigettata da tutte le forze politiche), l’attenzione si appuntò sulla tipizzazione dell’area come «industria e/o servizi all’industria». Da parte del Pci la questione fu posta come pregiudiziale all’intera discussione, nel senso che in quella tipizzazione si scorgeva il pericolo futuro di una trasformazione surrettizia, di una possibile speculazione che portasse alla scomparsa dell’industria e alla libera interpretazione del termine ‘servizi’. Dopo accesa e lunga discussione, i tecnici concordarono sulla proposta avanzata dal PCI di riformulare il tutto come «industria e servizio all’industria ivi allocata». La DC volle chiarire che riteneva opportuna tale correzione per evitare malintesi e a chiarimento di una posizione da sempre sostenuta.

Altre discussioni particolari riguardarono le dimensioni complessive dell’intervento nei vari settori e la sua conformazione generale, con la definizione dell’area destinata al terziario direzionale e al porto turistico.

Passando alle varie dichiarazioni di voto il PCI – sia pure soddisfatto per aver spazzato via i pericoli immediati nascosti dall’ambiguità della destinazione originariamente assegnata alle aree AFP - accompagnò il suo voto decisamente contrario al progetto di PRG con una serie di motivazioni. Il piano negava il carattere storicamente industriale assunto da Giovinazzo, accerchiando l’area AFP con tutta una serie di tipizzazioni di area che avrebbero un domani creato problemi: a Nord direzionale e porto turistico, a Nord-Est aree turistico-residenziali, a Sud area di sviluppo intensivo residenziale e collocando invece lontano, verso Molfetta, aree artigianali. Con queste scelte generali si tracciava un futuro in cui le AFP erano condannate comunque ad andar via. Altro lo sviluppo possibile se si fosse collocato attorno alle AFP verso l’asse BARI-Modugno-Bitonto tutto l’intervento artigianale o di artigianato produttivo, a dialogo e con una integrazione più stretta con l’area industriale esistente e utilizzato altrove, verso Ovest lo spazio per le residenze. Una seconda contrarietà del PCI al progetto di Piano regolatore derivava dalle scelte relative al turismo. Di fatto si trattava di soluzioni che andavano a razionalizzare del tutto gli interventi speculativi e le illegalità perpetrate per tutto un recente passato sulla Costa, esaurendo tutte le cubature possibili per quei territori e completando il tutto con un improbabile Porto turistico. Terza questione il sovradimensionamento generale dell’intervento.

Considerazioni quasi analoghe venivano svolte dal PSI: impossibile resistere con una area industriale al centro del paese, assurdo rinviare al domani gli interventi di risanamento richiesti dalle illegalità perpetrate per anni sulla costa, tutta la previsione edilizia era di fatto sovradimensionata. Vi sarebbero stati problemi in futuro.

Tra perplessità per alcuni aspetti, quali ad esempio la collocazione della zona artigiana e la mancanza di verde, e il consenso per la difesa dell’area AFP, il MSI sceglieva l’astensione.

LA DC, con vari interventi di consiglieri e amministratori, dichiarava la sua piena soddisfazione per aver portato in porto una conquista storica che nei paesi viciniori appariva spesso impresa difficilissima. Un’impresa che coronava il lavoro avviato con le cosiddette sopra-elevazioni e che – in un momento difficilissimo quale quello determinato dalla crisi delle AFP – poteva avviare sviluppo alternativo nel settore turistico e edile.

Quel piano sarebbe passato poi per varie vicende e variazioni, determinate in primo luogo dalle decisioni regionali, in particolare sulle destinazioni turistiche, di fatto tutte azzerate in attesa delle nuove normative regionali. Altri aggiornamenti sarebbero stati imposti a distanza di tempo dalla necessità di adeguarsi alle evidenze della pianificazione idrogeologica.

Su iniziativa poi da parte di un cittadino che era stato tra i ricorrenti critici delle soluzioni previste per la costa, tutto quel complesso di decisioni urbanistiche finì quasi immediatamente in una indagine della magistratura contro gli amministratori dell’epoca, chiusa poi con un non luogo a procedere per insussistenza dei fatti. Le indagini svolte all’epoca e le analisi allora prodotte dai periti incaricati dalle parti o dagli inquirenti fecero però luce in particolare sulle tribolazioni della costa, sugli abusi perpetrati in passato e sulle scelte compiute nel merito dalla strumentazione urbanistica.

In particolare, fu accertato un sovradimensionamento del settore nella normativa adottata e fu documentata la preesistenza al piano di «oltre 40 costruzioni e/o complessi residenziali realizzati irregolarmente e/o illegittimamente e/o abusivamente». Dopo vari cambi di amministrazione, dovute a mutamenti determinati dalle elezioni a ridosso del 1975, le autorità regionali avevano chiesto adeguata sanzione senza che vi si potesse porre rimedio per l’impossibilità tecnica a poter procedere con demolizione, visto il diniego di qualsiasi impresa interpellata, o per  successiva prescrizione o condono.

L’attuazione di quel piano regolatore è ancora sostanzialmente bloccata a quei giorni lontani.

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COME A GIOVINAZZO ATTERRO’ LA DISCARICA

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MEMORIA MAGISTRA VITAE - II
Riordinando archivi e carte, la memoria rivive. Riproviamo perciò a trasmettere un po’ di storia documentata. Sempre utile quando il passato – più o meno lontano – scolorisce e finisce soggetto a troppe, sfacciate strumentalizzazioni.

COME A GIOVINAZZO ATTERRO’ LA DISCARICA
La discarica di San Pietro Pago. Un tema sempre scottante su cui esistono miriadi di favole e grande oscurità. Pochi quelli che possono e vogliono raccontare la storia reale o che ne parlano con cognizione di causa.
Intanto, come e perché tutto ebbe inizio? Vedremo che Giovinazzo poteva tranquillamente rimanere estranea al ciclo della gestione rifiuti via discarica. E invece qualcuno, con la complicità di molti, volle strenuamente un sito a San Pietro Pago che da tempo tutti piangiamo.
Ma conviene andare con ordine.

“Premessa”
Era d’estate. Anno 1986. Giunsero al Comune due richieste di autorizzazione all’esercizio di discariche di rifiuti urbani da parte di due distinte società: SEP e Ecoambiente.
Tra giugno ed ottobre di quell’anno i due progetti ricevono pareri favorevoli da parte dell’allora “USL/BA6”, competente ai fini sanitari per il territorio Molfetta-Giovinazzo, e dalla Giunta regionale del tempo (fatte salve le prescrizioni viarie e urbanistiche per la vicinanza ad altra discarica). A fine ottobre però giunge il parere negativo della Commissione edilizia comunale: interventi sproporzionati rispetto al territorio.
Il bello (si fa per dire) arriva qualche tempo dopo, con il 1988. Un anno tempestoso per le vicende comunali, sigillato infine da una rinnovata amministrazione a guida democristiana (con sindaco e vice-sindaco entrambi DC) allargata ad un paio di consiglieri transfughi da altri gruppi.

“I fatti”
L’11 luglio 1988 la Regione spedisce a tutti i Comuni la bozza di Piano regionale per lo smaltimento dei rifiuti solidi. Attenzione: in quel piano Giovinazzo non è indicata come sede di discarica e viene escluso che possano essere scelte località diverse da quelle lì individuate. I rifiuti di Giovinazzo sono destinati alla discarica di Bitonto e poi eventualmente a Bitetto. Qualche tempo dopo si aprirà un giallo. Quando arriva materialmente quella bozza presso il Comune di Giovinazzo? Il 26 luglio 1988 o l’ 8 agosto (una differenza divenuta poi fondamentale)?
Fatto sta che la cronaca ora inizia a galoppare. Il 15 luglio 1988 la Commissione edilizia cambia parere. Adesso, su proposta dell’assessore al ramo, vice-sindaco, dà parere positivo, ma al solo progetto SEP in località San Pietro Pago. Perché solo quel progetto e non l’altro? Perché dell’altro si perdono le tracce? Mistero.
Qualche giorno dopo, il 27 luglio (attenzione: il giorno dopo il reale arrivo a Giovinazzo del Piano regionale, come appurerà la magistratura), il Consiglio comunale è chiamato a esprimersi sulla «individuazione della contrada di “San Pietro Pago” a zona di discarica. Chi sa – ovvero chi ha già diretto i lavori della Commissione edilizia comunale e gestito il suo voltafaccia, chi ha già letto (come vedremo) il Piano della Regione – non dice nulla al Consiglio. Si dice che si tratta della semplice individuazione di una possibile area. E ai partiti di opposizione che protestano ricordando che su quell’area sono già stati presentanti due progetti non viene detto nulla: non viene detto che la Commissione edilizia ha già espresso parere positivo sul solo progetto della SEP. Sindaco e vice-sindaco, in particolare, ironizzano sulle preoccupazioni delle opposizioni, sui loro timori per un’area già intasata di discariche (vicina è quella di Bitonto). Sindaco e vice-sindaco non fanno alcuna parola del Piano regionale e dell’assenza in quelle carte di qualsiasi indicazione che riguardi Giovinazzo. Tutto si conclude con DC e transfuga favorevoli, PCI, PSI e PSDI contrari, MSI astenuto.
Passano pochi giorni e il 1° agosto il vice-sindaco rilascia la concessione edilizia n. 161 alla SEP.
Due mesi dopo, il 5 ottobre, nuovo Consiglio comunale, riunito per esprimere finalmente il proprio parere sul «Piano regionale Rifiuti Solidi Urbani». Anche in questa occasione vengono taciuti particolari fondamentali: quando il piano regionale è arrivato al Comune; rilascio alla sola SEP di concessione edilizia ecc. Alla fine di una lunghissima discussione, in cui vengono respinte tutte le argomentazioni delle opposizioni, la maggioranza (la DC e un consigliere ex PRI-ex PSDI) si esprime contro il piano regionale (che non prevedeva alcuna discarica a Giovinazzo) con la specifica motivazione che la maggioranza ha «già ubicato la Contrada di San Pietro Pago a discarica». Votazione finale identica nella sostanza a quella del precedente Consiglio comunale.
Il 21 novembre, con una discutibile interpretazione della legislazione esistente, la delibera di Consiglio comunale del 27 luglio – sulla individuazione di San Pietro Pago come zona di discarica – viene pubblicata come variante al Piano Regolatore Generale, priva di qualsiasi documentazione. Seguono altri, numerosi atti amministrativi, tutti a senso unico: facilitare il percorso di realizzazione della discarica da parte della SEP (si scopre, tra l’altro, che la originaria autorizzazione regionale – n. 7858 del 4 ottobre 1986 – permette anche un «impianto di incenerimento di rifiuti speciali ospedalieri»)

“Epilogo”
A fronte di questo straordinario accumulo di fatti poco chiari ma univoci, 13 consiglieri dell’opposizione (PCI-PSI-PSDI) inviano un dettagliato esposto ai Presidenti di Regione e Provincia e alla magistratura.
Dopo svariati altri esposti a completamento del primo, sottoscritti e inviati man mano che si venivano chiarendo fatti taciuti e emergevano altri particolari, si avvia presso il Tribunale di Bari un procedimento penale a carico di alcuni amministratori del Comune di Giovinazzo (sindaco e vice-sindaco) e di amministratori della SEP. Il processo ha un andamento parecchio tormentato (con andate e ritorni tra varie Corti e la Cassazione). Si conclude definitivamente solo nel marzo 2000, con la prescrizione per alcuni reati e con una sentenza di assoluzione per gli amministratori dell’epoca, essendo insufficiente la prova circa la responsabilità personale e non ritenendo reato l’aver taciuto – pur sapendo - al Consiglio del Piano regionale. Quanto ai fatti accaduti, la sentenza dichiara definitivamente che è stato falsificato il protocollo comunale - apponendo ad una copia la falsa data dell’8 agosto 1988 come data di ricezione del Piano regionale dei rifiuti – e che si è omesso di informare il Consiglio comunale del contenuto di quel piano, in cui non era individuata alcuna zona del territorio di Giovinazzo. Si provvede comunque a dichiarare la falsità della nota della Regione Puglia protocollata 8 agosto.
Nel frattempo, grazie agli atti amministrativi comunque compiuti, la SEP si vede autorizzata dalla Provincia all’esercizio della discarica, definendo nel giugno 1990 i rapporti con il Comune di Giovinazzo allora retto da Commissario prefettizio.
Iniziò allora una storia travagliata, patita da gran parte di Giovinazzo. Un fatto è certo: quella discarica non atterrò a Giovinazzo portata dai marziani. Ebbe padri e oppositori ben individuati. Precisi, distinti e decisi.
Poi cominciarono le nebbie, le strumentalizzazioni e le chiacchiere in cui si confusero date, responsabilità e medaglie.
Durano ancora oggi.

(III puntata: COME FU APPROVATO UN PIANO REGOLATORE)

 

 

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QUANDO SI CADE VITTIMA DELLE PROPRIE MACCHINAZIONI

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MEMORIA MAGISTRA VITAE - I

Riordinando archivi e carte, la memoria rivive. Riproviamo perciò a trasmettere un po’ di storia documentata. Sempre utile quando il passato – più o meno lontano – scolorisce e finisce soggetto a troppe, sfacciate strumentalizzazioni.

QUANDO SI CADE VITTIMA DELLE PROPRIE MACCHINAZIONI
(a proposito di campagne elettorali)

Girando per Giovinazzo - nel quadrilatero tra via Marconi, via De Gasperi, via Agostino Gioia e via Giovannello Sasso – si possono notare agli angoli di molte strade, sulle parti sopravvissute in pietra viva, delle macchie rosse, più o meno decifrabili. Alcune – ad esempio, quella posta in via Marconi poco più sopra e dal lato opposto dell’Ufficio postale – sono più visibili e leggibili: c’è l’immagine di una «colomba» e la scritta «VOTATE». In altre, accanto ai contorni del volatile, appare la scritta «RINASCITA».
Prima che scompaiano del tutto, sarebbe utile preservarle e conservarle. Raccontano una storia esemplare, soprattutto simpatica nella sua asprezza: un racconto che nella sezione del PCI i vecchi amavano passare ai più giovani – come me e altri – a mo’ di testimone di vicende locali, più o meno gloriose e istruttive.
Risalgono al 1952 e alle elezioni amministrative di allora. Era il momento più buio della guerra fredda. Ultimi mesi della sindacatura di Vitantonio Lozupone. Il PCI si presentava con il simbolo disegnato da Picasso – la «Colomba della Pace» - e il richiamo al movimento di «Rinascita del Mezzogiorno». E perciò i militanti andavano per le strade affiggendo manifesti e stampando con vernice e appositi tamponi, agli angoli dei palazzi, quei simboli con l’invito «VOTATE».
Ormai alla fine della campagna elettorale, una sera sul tardi giunge in sezione una ‘soffiata’: «attenti Lozupone e i suoi hanno mobilitato … (noto pittore cittadino di cui si ammirano ancor oggi tante icone religiose in vari coorti e strade) per scrivere «NON» prima della scritta «VOTATE», in modo da capovolgere l’invito».
Allarme, riunione immediata di segreteria e militanti per decidere cosa fare. Durante la discussione qualcuno, guardandosi attorno, si accorge che S., militante noto per i suoi ‘bollori’, è scomparso. L’allarme diventa ancora più rovente: si immagina il peggio, nel caso S. raggiunga da solo il pittore. Non si può perdere un attimo: tutti per strada!!!
Fortunatamente, un gruppo di militanti raggiunge i due proprio al momento dell’incontro fatale dalle parti di via De Gasperi. Ci vuole molta persuasione, ma torna la calma e viene raggiunto un accordo diplomatico.
Per l’artista non ci saranno conseguenze. Ci si accorda però per una continuazione dell’«incarico professionale». Dovrà cancellare i «NON» già realizzati e continuare il lavoro, in verità non completato dai comunisti nelle notti precedenti. E così si continua per buona parte della notte.
Di primissimo mattino poi la beffa finale. Si dà appuntamento a un bel po’ di dirigenti e iscritti dietro un angolo affacciato su Piazza Sant’Agostino. È noto che il sindaco Lozupone ama partecipare alla prima Santa Messa. Lo si attende all’uscita. Prevedibilmente il Sindaco, uscito da Chiesa, vorrà guardare il risultato della ‘sorpresa’ ordita a danno del PCI.
Puntualmente il Sindaco esce dalla Chiesa e comincia a girovagare per le strade vicine. Somma la meraviglia e soprattutto lo scorno tra i lazzi rumorosissimi dei militanti comunisti usciti dall’ombra al suo seguito.
A distanza di decenni, l’episodio è stato raccontato in grande allegrezza ai figlioli dell’allora sindaco Lozupone, alla presentazione del libro che ne ricostruisce l’appassionante biografia: Francesco Altamura, «Vitantonio Lozupone. Il governo democristiano di una periferia del Mezzogiorno», Mario Adda editore, 2014.
I fatti sono descritti anche sommariamente in Antonella Pugliese, «Le ferriere tra gli ulivi. Storia delle Acciaierie e Ferriere Pugliesi di Giovinazzo», Bruno Mondadori editore, 2014, pp. 154-155.

(prossima puntata: COME A GIOVINAZZO ATTERRO’ LA DISCARICA)

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Politica e antipolitica

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POLITICA E ANTIPOLITICA

Quando le parole divorziano dai fatti

e distruggono vita e partecipazione

 

Da tempo in Italia – ennesima culla di un morbo che flagella ora tutta Europa - è imperativa l'invettiva contro i partiti e la cosiddetta partitocrazia. Si è iniziato con "Mani pulite" e dalle "mele marce" iniziali il mirino via via si è spostato sempre più in alto. Nel tritacarne - grazie anche all'appassionato e partecipe suicidio di partiti e politici della Seconda Repubblica - è finito il contenitore generale, la politica e i partiti, in rottamazione concreta della Costituzione e del suo art. 49: "Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale". Inaspettati e su sponde spesso apparentemente contrapposte i carnefici reali.

Il tutto a dispetto di una cronaca che – smentendo ogni colpevole e strumentale sottovalutazione - continua a porci sotto gli occhi i guasti di una società immarcescita da una crisi lunga decenni: criminalità endemica e diffusa, corruzione sportiva, finanziaria, amministrativa, affarismo e particolarismo dilaganti ecc.. Il tutto accompagnato da inni smodati alla cosiddetta "società civile", termine buono a tutte le occasioni e latitudini.

Il bello è che, adottando materialisticamente proprio il metro dei cantori dell'antipolitica, il  tasso di professionalismo politico – quanti vivono di sola politica - oggi è più alto che mai proprio nei loro ranghi, a tutti i livelli, grazie anche alla lunga crisi dell'occupazione giovanile e alle inarrestabili fortune del precariato. Basta compiere una banale disamina dei curricula professionali nelle formazioni che vanno per la maggiore, ad esempio il M5S, o delle sigle e formazioni civiche, dei movimenti nati e diffusi un po' ovunque. In genere si tratta di personaggi che non hanno quasi mai esperienze di lavoro nella vita civile e che soprattutto oggi, nella stragrande maggioranza dei casi, vivono grazie al loro incarico politico o istituzionale. Il tutto condito dal rosario giornaliero di invettive contro la partitocrazia vampira del sangue di chi vive di lavoro.

La denuncia continua del divorzio tra politica e vita è divenuta da tempo professione.

Il peggio però è che sta distruggendo proprio la politica come sale della vita, impegno, partecipazione tra diversi alla ricerca del bene comune, a beneficio di una comunicazione spesso impazzita dietro mode e soprattutto individualismo dilagante. E intanto le diseguaglianze reali crescono nella società fino a farsi intollerabili e a rendere di fatto improponibili, disfunzionali le reti tradizionali come anche quelle più nuove. Insomma, fino a minare in radice proprio il legame sociale, lo stare in società.

Non è un caso che di fatto nessuno degli esperimenti movimentistici, civici o comunitari degli ultimi anni, o anche decenni, è andato oltre la breve stagione, il piccolo luogo di nascita o il culto effimero di un qualche Cesare strapaesano. E che a soffrirne – non solo in Italia – sia proprio la ricerca di forme nuove di impegno politico e sociale adeguate al protagonismo diffuso di nuovo millennio.

Alla fine prospera un rancore diffuso amplificato da fratture sociali ed economiche e dall’invettiva quotidiana di network mediatici governati da mani forti. Basta vedere come gli scambi molecolari sui social network si alimentano  di bufale e invettive lanciate su schermi e testate dai figuri  più vari.

La  destra antica e nuova se ne nutre e ingrassa.

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Quando il conflitto dilaga e perverte

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Quando il conflitto dilaga e perverte

Da tempo - per l’Italia da decenni - la dinamica civile, ovvero politica, sociale, persino ideale, non è più disciplinata, incalanata, regolata dal sistema politico. Il movimento “5 stelle” ne è conferma clamorosa. Ovunque in Europa la crisi è simile. E persino negli USA il fenomeno Trump si spiega così: siamo fuori dai binari tradizionali.
A livello micro ve ne è una prova eclatante nella diffusa conflittualità che spesso, dietro il fenomeno delle liste civiche, alligna dovunque ed esplode per le cause e i motivi più disparati. La vita di paese ne dà prove eclatanti. Tanto esemplari quanto capillari. Da qualche tempo, nei vari comuni del circondario – ma se si indaga su Internet se ne trova conferme ovunque, in particolare nel Mezzogiorno - sagre e feste patronali sono divenute occasione per liti furibonde che vedono impegnati i gruppi dirigenti cittadini spesso al massimo livello. Si tratti di cortei storici o carri trionfali, spesso con consuetudini e riti centenari. Non vengono risparmiati. Anzi divengono bersaglio prediletto di scorribande politiche e conflitti di gruppi dirigenti, di guerre tra fazioni, in cui si ritorna credenti contro miscredenti, verdi contro gialli, sopra e sotto. Orfane dei tradizionali terreni di confronto politico, le camarille locali più varie non trovano di meglio, per attaccare avversari o provare a guadagnare terreno, conquistare postazioni, che invadere sfere un tempo considerate fuori della mischia e lasciate indenni. Il più delle volte con motivazioni e toni, assai strampalati e selvaggi. E così si alimentano petizioni, si formano liste, si favoleggia di mondi e conflitti inesistenti.
E’ la prova evidente, concretamente palpabile, di quanto sottolineato da molteplici analisti del pensiero politico contemporaneo: il postmoderno si ammanta di colori, tematiche e toni medievali. Si torna a dividersi tra guelfi e ghibellini. Il locale si rivela ancor più conflittuale e selvaggio del globale.
Di questo passo incombe quella “guerra civile”, ovvero quel conflitto senza quartiere e requie che la modernità prima e la democrazia poi avevano provato a disciplinare. Quella guerra civile, quella discordia, quel conflitto tra fazioni locali, o “stasis”, come lo chiamavano gli antichi, in cui, come ammoniva Tucidide, «cambiarono a piacimento il significato consueto delle parole in rapporto ai fatti» e istituzioni o organizzazioni un tempo condivise diventano incapaci a trattenere e significare ancora una storia comune. Col risultato infine che vince, prevale definitivamente – grazie all’«uso specioso della parola», fondamentale nella nostra era della comunicazione - lo spirito di parte, di fazioni che «a parole servivano lo Stato, in realtà lo consideravano alla stregua del premio di una gara».