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La notte della Repubblica

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La notte della Repubblica

Pubblicato il 31 luglio 2022 su «pagina21.eu», Rivista della Fondazione Giuseppe Di Vagno

Aiuto, un baratro si è aperto sotto i nostri piedi. Una inedita stagione elettorale si è abbattuta sul Paese. S’addensano timori e domande.

Che effetto avranno caldo e ombrelloni? E un Covid mai domo e mutante, adesso all’assalto con l’ultima metamorfosi? Ma poi quali equilibri politici usciranno dalle urne? Dobbiamo temere cataclismi?

In molti – e giustamente – temono per la nostra Costituzione. Tanti gli annunci di modifiche già depositati: il presidenzialismo nel tempo ha guadagnato consensi anche su lidi inaspettati. S’accavallano proposte sul sistema penale, sull’immigrazione. Si continua a vociferare di blocchi navali, da analfabeti che ignorano che sono condannati dall’ONU se non dichiarati addirittura entro formali dichiarazioni di guerra.

Val la pena allora di fare un po’ di luce nel buio che s’addensa sul nostro futuro, in questa notte che non passa della democrazia repubblicana, aggrovigliata da tempo attorno a troppi nodi gordiani. Tanti avevano intravisto in Draghi il nuovo Alessandro. Hanno dovuto ricredersi. Ma la delusione è pari se non più grande delle aspettative mancate.

E pensare che altro sembrava annunciarsi in quello scorso 20 luglio al Senato dopo l’invito da parte di Mario Draghi a riscrivere un nuovo patto di governo. Tutto poi è precipitato: «Presenti 192, votanti 133, favorevoli 95, contrari 38».

Sembrava che il miracolo potesse ripetersi. Ormai si era quasi al decimo anniversario del «Whatever it takes»: «Tutto ciò che è necessario». Si era ormai quasi a dieci anni da quel 26 luglio 2012 in cui Mario Draghi a Londra di fronte alla platea della Global Investment Conference aveva piantato il paletto di una nuova BCE al cuore dell’UE e al comando dell’euro. A Roma invece non gli è riuscito di rinnovare i fasti dell’annuncio che allora gli guadagnò fiducia e attenzione incondizionate in Europa e nel mondo.

Cosa è successo qui da noi? Ha perso smalto il novello Cincinnato? Oppure banalmente hanno avuto la meglio cinismi e egoismi di una Roma immutabile?

Non molti oggi ricordano che quel luminoso «whatever» era stato preceduto – e reso magari possibile – dalla ben più prosaica e assai discussa decisione assunta dalla quasi totalità degli stati UE con la firma sul Fiscal Compact e sui suoi obblighi: rientro dal debito pubblico e pareggio di bilancio. L’Italia si era allora dichiarata subito pronta al passo con ratifica e introduzione dell’obbligo del pareggio di bilancio in Costituzione tra il maggio e il luglio di quel fatale 2012 ad opera di un altro indimenticabile governo tecnico: quello di Mario Monti.

La svolta di Draghi intervenne perciò in un quadro europeo terremotato fin dal 2008 in modo radicale – spread a livelli altissimi in molti paesiGrecia a rischio defaulteuroscetticismo montante – ma entro una cornice costituzionale che paradossalmente aveva confermato e rafforzato i principi fondativi dei trattati UE: lotta all’inflazione, debito sotto controllo, parametri di bilancio ecc. È entro questo generale quadro costituzionale – con queste sostanziose rassicurazioni del partito e degli Stati del rigore – che Draghi realizza la svolta e l’approfondisce di lì a qualche anno con l’inaugurazione del Quantitative Easing: una politica monetaria espansiva già adottata in momenti di crisi, e con esiti incerti. In particolare, dal Giappone, fin dalla crisi finanziaria degli anni 90, e negli USA in risposta alla voragine del 2008.

Covid e aggressione russa all’Ucraina hanno fatto il resto.

La spesa pubblica ha galoppato, trainando anche una discreta ripresa in tanti paesi. L’effetto è stato quello di un aumento di debito e disavanzo pubblici, sia pure mitigati a fine 2021. Ormai la metà circa degli stati UE si fa beffe del tetto del 60%. Si tratta di paesi – come Germania, Francia, Polonia, Spagna ecc. – con popolazione e peso economico assai rilevanti. Di qui il tentativo di ricondurre il tutto sotto controllo, nell’intento di frenare le divergenze più accentuate, con il rialzo dei tassi da parte della BCE e il varo di uno scudo anti-spread.

Il mutamento più significativo però è intervenuto nello spirito pubblico, nell’humus di fondo, e nella cabina di regia. Il rafforzamento e l’ulteriore allargamento della Nato anche a paesi tradizionalmente neutrali, hanno tolto vento alle vele del sovranismo più marcato. La stessa deriva populista ha notevolmente corretto la rotta, sia pure tra mille ambiguità. La regia generale però è divenuta sempre più elitariaappannaggio di tecnocrazie ed esecutivi. La marginalizzazione dai reali, effettivi, circuiti decisionali dei parlamenti sempre più accentuata.

La manifestazione più evidente della deriva in atto è nell’astensione elettorale alle stelle e nel fossato sempre più profondo tra rappresentati e rappresentanti. Con il risultato che ormai si sono accumulati mutamenti epocali nelle istituzioni cui noi europei deleghiamo cura dell’esistente e progettazione del futuro. Nato e UE sono ormai ben altro da quelle riprogettate nel biennio fatale 1989-1991. Le abbiamo rifatte ab imis a colpi di revisioni costituzionali sotto traccia.

Basta confrontare l’attuale Concetto strategico che governa le mosse della Nato con i trattati istitutivi dell’alleanza atlantica. Il primo risulta ormai allargato persino alla Cinamentre nei trattati si contemplano solo interventi difensivi sui territori delle potenze contraenti l’alleanza. E che dire poi dell’UE e delle politiche concretamente praticate rispetto ai trattati istitutivi: si tratti di Maastricht o dell’ultima riscrittura quindici anni fa a Lisbona. Il tutto senza mai passare per le dovute ratifiche parlamentari o anche elettorali.

È anche sotto l’urto di queste novità che i partiti in Italia hanno deciso di rompere e riconquistare una parziale libertà di manovra, prima che Draghi, in serrato dialogo con i vertici comunitari e atlantici, rideterminasse ulteriormente le agende future, legasse loro ulteriormente le mani.

Ma sarà questo sistema politico, sia pure interrogato in emergenza e profondità dal corpo elettorale, capace di rispondere positivamente, di riallacciare un dialogo serrato con cittadini e corpi sociali organizzati? Ci sia permesso di esprimere un serio dubbio.

Anche il più semplice e sprovveduto dei cittadini avverte sulla pelle il morso di innovazioni e mutamenti che hanno ormai sconvolto i termini essenziali della civiltà e della convivenza umane. Conviviamo quotidianamente con la minaccia della bombaabbiamo la vita invasa, riscritta dai social, passeggiamo con il mondo in tasca grazie al cellulare. Ma per questi politici-senza-partito nulla è mutato rispetto ai primi del Novecento. Siamo ancora allo scontro tra Strapaese e Stracittà.

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LA GLOBALIZZAZIONE ORA RISCHIA LA MORTE

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LA GLOBALIZZAZIONE ORA RISCHIA LA MORTE

SOTTO LE BOMBE RUSSE

(Pubblicato sulla «Gazzetta del Mezzogiorno» del 16 marzo 2022 con il titolo "La globalizzazione ora rischia la morte sotto le bombe russe)

Un interrogativo da giorni s’affaccia in titoli e lanci di giornali e TV: è finita la globalizzazione? La guerra all’Ucraina ha sancito la morte del mondo abitato finora? Russia fuori da Banca Mondiale e FMI? Smetteremo magliette o smartphone “Made in China”? È a rischio il caffé? E la connessione Facebook? 

Magari non ci siamo ancora. Ma la benzina oltre i 2 euro (domani a 3?) e la penuria di grano o concimi fanno venire il sudore freddo o un languore allo stomaco: mancherà la pasta? E via a connessioni fino a ieri sconosciute tra i 4 cantoni del globo. Mangiamo canadese o ucraino e non ce ne eravamo mai accorti. Passi per il petrolio. Lo conosciamo da tempo. Mattei, poveretto, e l’ENI ci avevano svezzato per tempo. Ma le «terre rare»? Fino a ieri chi sapeva cosa fossero: adesso scopriamo che sono l’anima d’ogni diavoleria digitale. Senza di esse non si può nulla. 

Per caso la guerra sta ponendo fine a tutto questo? Davvero domani sarà altro da prima?

Da tempo, l’interrogativo con le sue paure viene lanciato. In primis, vi fu il lampo dell’11 settembre. Quella luce sinistra aprì squarci e chiusure. Seguì la crisi del 2007-2008, col crollo di finanza e castelli di carta dei subprime. Nuove domande sorsero su un modello di vita senza confini, aperto al mondo. Vennero poi Trump e la Brexit con le loro chiusure sovraniste.

Ultima la pandemia. Lì il mondo ci è apparso dapprima assolutamente bloccato, chiuso a catenaccio. Ogni stato con le sue regole, abitudini, culture. Tutti chiusi in casa, magari sul balcone con l’inno nazionale.  Ma poi? Poi ci siamo curati quasi tutti allo stesso modo: stessi farmaci, forniti dai soliti noti, nei canali distorti da diseguaglianze globali note da tempo. Tutti in casa. Ma via allo streaming di massa, con la TV-surrogato del cinema. All’improvviso ci siamo svegliati in case trasformate in hub di LAD e DAD (lavoro e didattica a distanza) senza più confini. Il telelavoro – materia fino ad allora per iniziati – è stato scoperto da tutti: basta con uffici sterminati e faraonici, meglio una direzione con segreteria e stanza per le riunioni. Gli altri? Tutti a casa. Risparmio: e non solo in riscaldamento, trasferte, mensa ecc.

La storia ogni volta ha ripreso a correre e a immergerci in nuove connessioni globali, impensabili fino al giorno prima. 

Ma ora la guerra? Con il suo immenso, inaccettabile carico di morte e distruzione? È guerra tra Stati? Tra sistemi? O una planetaria guerra civile? Che in realtà mette a rischio la globalizzazione tutta e, in primis, chi l’ha dichiarata?

In realtà, a morire definitivamente sotto queste bombe è una ideologia. Quella neoliberale soprattutto. Voleva la globalizzazione figlia di una ritirata: dello Stato a favore dell’impresa. La resistenza del globale ci rivela invece che dietro la globalizzazione c’era una mutazione epocale. Proprio della politica e dello Stato: sempre più sovranazionali, ma votati ora – proprio dal neoliberismo – a regolare, riavvolgere la vita di uomini e mercati in circuiti globali, aperti a concorrenze e  metamorfosi figlie di un nuovo Faust planetario.

E ad ammonirci a guardare meglio, ad aguzzare l’ingegno stanno proprio coloro che – secondo le prefiche del «bel mondo andato» – sarebbero i becchini della globalizzazione: Russia e Cina, in primis. 

La Russia vorrà ritornare indietro dal suo status di fornitrice globale di gas, petrolio e materie prime? Dopo le sanzioni odierne, indirizzate a farla recedere dalla guerra torcendole il braccio, vorrà inabissarsi dentro nuovi confini, magari ritoccati, imperiali, ma chiusi al mondo? Di che e come alimenterà l’economia futura? E la Cina, da tempo «world factory», con esportazioni oltre il 18% del suo PIL, ritornerà dietro la Grande Muraglia o proverà ad aprire nuove «Vie della Seta»? Ad aiutarci nella risposta stanno forse gli stessi oligarchi russi, lo stesso Putin. Da tempo, nelle piazze di Russia si erigono statue a questo o quell’eroe del passato, nel mito dei fasti imperiali. Intanto ognuno prova a mettere al sicuro ricchezze: ovvero futuro. E dove? Ma lontano proprio dalla madre patria. Altrove, nel mondo grande e terribile. E lo stesso Putin non ha forse provveduto a riparare i familiari in Svizzera? Del resto, non è su questo grado di esposizione generale al mondo che provano a premere le sanzioni occidentali?

Tempo fa, un grande scienziato italiano - Marcello Cini, ispiratore dell’«Ape e l’architetto», libro contestatissimo - scandalizzò tanti con parole allora apparse assai singolari, riferite alle missioni Apollo e alle loro foto del pianeta: «la cosa più interessante che abbiamo visto sulla Luna è stata la Terra».

Da allora, non abbiamo mai più smesso di scoprirla come la nostra casa reale.

Isidoro Davide Mortellaro

Storia delle relazioni internazionali, Università di Bari

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VERSO UNA DEMOCRAZIA SEMPRE PIU' PILOTATA

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VERSO UNA DEMOCRAZIA SEMPRE PIU’ PILOTATA

(Pubblicato il 12 luglio 2022 su «fuoricollana.it»)

SOMMARIETTO All'ultima tornata amministrativa l'astensione ha sfiorato il 58%. La Francia, qualche giorno prima, alle legislative, si era avvicinata a soglie simili d'allarme sistemico: 54%. Un Grande Fratello diffuso orienta e governa gran parte del voto, specie nel Mezzogiorno, spesso in combutta con la «società incivile». 

 

Sporgendosi sul vuoto

All'ultima tornata amministrativa il termometro dell'astensione ha toccato in Italia quasi il 58% di elettori renitenti all'esercizio del voto. La Francia qualche giorno prima, alle legislative per l'elezione dell'Assemblea nazionale, si era avvicinata a soglie simili d'allarme sistemico: 54%. 

Tempo fa, Peter Mair, contemplando l’avanzare di questa piana desertica, pronosticava lo «svuotamento della democrazia occidentale» e avvertiva sulla necessità ormai di attrezzarsi a «governare il vuoto». Altri, come Carlo Galli, avevano più radicalmente visto la democrazia ormai negata nel suo attributo fondamentale: «senza popolo». Ormai non v’è giorno in cui non si accumuli sulla democrazia una qualche previsione infausta: dal «tramonto» di Anne Applebaum al più radicale «suicidio» pronosticato da Federico Rampini. E che non si tratti ormai solo di astratte elucubrazioni politologiche ma di processi esplosivi di portata gigantesca sta a dimostrarlo la quotidiana cronaca negli Stati Uniti, squassata per decenni da quelle che gli Americani chiamano «cultural wars», guerre culturali. Al centro dello scontro diritti e poteri fondamentali, il ruolo degli States nel mondo.

Nell’antichità classica per la polis era altro il termine in uso: stasis, «guerra civile», quella che secondo Tucidide mutava «il significato stesso delle parole». Aristotele intravedeva al fondo della contesa fratricida diseguaglianze profondissime: ciò che ancor oggi si configura come conflitto sistemico tra ultimi e oligarchie. Adesso clima, aborto e armi sigillano - addirittura col marchio della Corte suprema - lo scontro, l'assedio che i perdenti di uno scontro elettorale hanno provato a dirigere contro il Campidoglio nel nome di Trump: estremo tentativo di manomettere il voto e portare indietro le lancette della storia. Né in Europa le istituzioni democratiche vivono momenti migliori. Pandemia e guerra le stanno devastando. Ad iniziare fu l'Inghilterra con la Brexit, ben presto – alla luce di esperienza e contraddizioni - rimessa da più parti in discussione fino ad arrivare a defenestrarne gli autori. Oggi la Francia si scopre anch'essa tarlata da una sfiducia radicale nei confronti delle istituzioni repubblicane e in preda all'ingovernabilità: proprio quando è chiamata a giudicare lo sforzo immane prodotto da Macron nel provare a riconquistare la grandeur gaullista. Né gode di buona salute la Germania riconquistata dalla SPD: si scopre oggi orfana della Merkel e incerta nel ruolo di prima linea affidatole nella UE dall'emergenza bellica in Ucraina.

 

Una crisi sistemica

 

Presto - troppo presto - è stata accantonata la discussione sul voto e sulle urne del 12 giugno. L’eclatante fallimento dell’assalto referendario, certificato dal bassissimo tasso di partecipazione, ha contribuito ad archiviare in fretta la pratica. Sui due lati del fronte opposte le sensazioni di sollievo o angoscia. Nell’ombra, nonostante alcuni sprazzi assai illuminanti, è rimasta la riflessione sul voto amministrativo: complice, tra l’altro, l’ardua comparazione di situazioni assai diversificate, soprattutto tra Nord e Sud.

In realtà ha primeggiato la discussione sulla crisi complessiva del sistema politico. Di fatto - sia pure con le uniche eccezioni di un qualche rilievo di “Fratelli d’Italia” e del “Partito democratico”, smorti poli di un ipotetico futuro bipolarismo - siamo all’archiviazione dell’ennesima mutazione (2 o 3 “punto zero”?) della Repubblica e dei suoi principi ispiratori. Da tempo silente e buttato in un angolo ci contempla impotente quel cardine sistemico tracciato dall’art. 49 della Costituzione: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». 

Piazze e corsi di città e paeselli non sono punteggiati più da insegne di partiti e movimenti. Locali sfitti da tempo o abbandonati si animano solo in occasione di appuntamenti elettorali, soprattutto municipali. È allora che plance e muri compongono caleidoscopi di sigle improbabili, confondendo passanti e cittadini con gallerie interminabili di volti e facce sempre sorridenti. La socialità di un tempo - fatta di luoghi collettivi di lavoro e studio, sedi di partito e sindacato - è sempre più surrogata da improvvisazioni che durano lo spazio di una campagna elettorale o non vanno oltre un quartiere, nel migliore dei casi un comune. Senza più legami solidi col mondo, ma solo di fatto col surrogato dei social. 

A sorridere non è più da tempo l’elettrice o l’elettore. In cerchie sempre più ampie rifiutano di recarsi alle urne. In alcuni casi siamo ormai a uno su due. La tendenza usuale, ma in forme diverse, in altri paesi occidentali, è iniziata per l’Italia nel fatale 1979 e si è fatta inarrestabile. Allora l’assassinio di Aldo Moro annunciò con un decennio di anticipo per il nostro paese, rispetto alla cesura dell’89, la fine di un’epoca e la crisi del sistema politico nato con la Repubblica. L’asticella dell’astensione fece un salto nel 1979, passando dal 6,6 al 9,4 degli elettori per la Camera dei Deputati. Naturalmente con una accentuazione nelle Regioni meridionali e grazie anche alla moltiplicazione nelle mani e nel cervello degli elettori di schede e appuntamenti elettorali: si celebravano allora anche le prime elezioni europee. E da un decennio ormai l’abituale appuntamento elettorale amministrativo vedeva l’aggiunta alle schede per le comunali e le provinciali di quella per la scelta del Consiglio regionale. Cresceva allora lo spaesamento tra i vari livelli di potere che intervengono a condizionare e determinare la vita dei singoli. Col tempo l’elettorato comincia a soffrire in maniera sempre più marcata la perdita di controllo sulle potenze abilitate al controllo e alla conduzione del mondo.

 

Crisi della democrazia

 

Erano «anni di piombo» per l’Italia: un periodo assai buio e di grandi sconvolgimenti su cui il trascorrere del tempo non ha portato molta luce e chiarezza. Sono anni di grandi svolte. L'intero mondo è a soqquadro sotto l'urto delle 'crisi' più varie: dollaro, petrolio, Bretton Woods, Vietnam. Henry Kissinger, alla ricerca di nuovi equilibri, asseconda l’arrovesciamento del globo dall’Atlantico al Pacifico. Il Club di Roma s’avventura per radicali visioni del pianeta: sotto l’urto di una mutazione prometeica gli appare destinato col passaggio di secolo alla «fine della crescita». Ma è dagli States che giunge una prognosi assai inquietante, ma fascinosa. Col tempo diverrà anche assai coinvolgente. A proporla un’associazione molto particolare, finanziata da David Rockfeller su ispirazione di Zbigniew Brzezinski: la Trilateral Commission, un’organizzazione che prova a promuovere il confronto tra le élites del mondo sviluppato sui malanni del tempo. La diagnosi è quella della «crisi di governabilità»: democrazie assediate da un mondo in subbuglio, con radicali sommovimenti tra il Nord e il Sud di un pianeta sottoposto ad una epocale mutazione politica e culturale, per la moltiplicazione di movimenti e soggetti; crescita abnorme del settore pubblico nel tentativo di assecondare un’agenda straordinariamente dilatata; crisi di «sovraccarico» con tensioni alla lunga intollerabili in gangli vitali. A rimedio, nell’impossibilità di procedere a straordinarie innovazioni costituzionali, bisognose di un consenso assai improbabile, è preferibile una paziente opera di armonizzazione e semplificazione ad opera degli esecutivi d’ogni paese: una primazia nel comando ma soprattutto nella promozione e nel coordinamento dell'azione politica, nel tentativo di armonizzare le agende di lavoro di élites tecnocrazie.

Scritta in limpido inchiostro elitario la ricetta trova pronto ascolto nelle classi dirigenti proprio del Trilatero: USA, Europa occidentale e Giappone. I più pronti a cogliere l'imbeccata saranno i nuovi leader appena emersi in Europa: Valery Giscard d'Estaing e Helmut Schmidt. Tentando di far da sponda anche alla richiesta di «nuovo ordine mondiale» che viene dal Sud del mondo, provano a mettere a frutto la crisi dell'«amico americano» caduto per i gradini ripidissimi del Vietnam e finito 'impicciato' nel Watergate. E così, dopo alcuni meeting informali tra ministri delle Finanze, propongono all'appena insediato Gerald Ford l'istituzione di un forum informale 'trilaterale'. La prima riunione al castello di Rambouillet s'allargherà anche all'Italia per poi passare all'assetto definitivo a sette l'anno seguente con l'inclusione del Canada. Da allora, anno dopo anno, sotto gli occhi elettronici del mondo da quella cattedra sono state dispensate analisi e raccomandazioni, spesso in esplicita concorrenza con sedi e istituzioni provviste di ben altra caratura costituzionale.

Ben presto l’illusione europea di instaurare una guida condominiale del mondo liberaldemocratico si rivela illusoria. Dalle viscere operose della società americana, da una miriade di laboratori e fondazioni - in discorde dialogo con le culture della contestazione e al riparo dalle convulsioni del sistema politico - iniziano una cavalcata planetaria alcune innovazioni destinate a terremotare il vissuto dell’umanità. Tra il 1970 e il 1975 vengono concepiti e lanciati: codice a barre, microprocessore, floppy disc, la CAT o tomografia assiale computerizzata, e-mail, marmitta catalitica, calcolatore tascabile, Altair, home computer ecc. Una ondata di innovazione tecnologica inizia a sommergere il globo, dando l’avvio ad una rivoluzione planetaria nelle forme della comunicazione e della socialità. Un nuovo individualismo fa il suo esordio: adesso non si limita più solo ad ascoltare o scrutare sullo schermo la voce dell'umanità. Inizia a portare il mondo in borsa, quando non in tasca.

 

Ritorni di fiamma 

 

Il fallimento maggiore però è quello che si verifica proprio sul terreno scelto elettivamente dal G7 a campo prioritario di azione: la risposta alla rottura dell’ordine di Bretton Woods, alla nascita, dietro il dollaro senza più regole e cambi fissi, di una finanza sregolata, vero e proprio dominus del mondo futuro. Non solo mancherà una qualche forma di regolazione pubblica, ma buona parte dei meetings dei 7 si risolveranno in peana alla nuova potenza sprigionata dalla dissoluzione dei Trente Glorieuses. Gli USA grazie all’avvento di nuove forme di regolazione romperanno l’assedio: il nuovo dollaro, provvisto degli ampi margini di fluttuazione concordati nella nuova sede di compensazione oligarchica, si offrirà come approdo sicuro soprattutto per i petrodollari che copiosi inizieranno a percorrere il mondo e approdare negli States. 

A rafforzare, su un altro versante, la primazia USA nel trilatero del G7 contribuisce paradossalmente una particolarissima accentuazione sul tema dei «diritti umani» nel mondo: vera e propria colonna portante delle formule diplomatiche che nel 1975 portano alla firma ad Helsinki dell'Atto finale della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa

Strano destino quello dei «diritti umani», della riscoperta di temi e parole d'ordine scolpite nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Nel dopoguerra, anche in polemica con l'Occidente, hanno alimentato la presa di coscienza del Terzo Mondo e la lotta per la liberazione dal neocolonialismo. A caratterizzare quella stagione l'insistenza sul tema della piena sovranità politica e della promozione di eguaglianza e benessere come fine fondamentale della politica. Anche con questa valenza alimentano la critica delle atrocità belliche in Vietnam e il fuoco delle battaglie negli States per i diritti civili. Alimenteranno così le bandiere sventolate da George McGovern nella sfortunata battaglia per la presidenza ma finiranno distorti nei primi anni Settanta nelle mani della destra americana come vessillo del più puro anticomunismo. Nelle carte di Helsinki se ne darà una lettura particolare: in primo piano la libertà di scelta del singolo. Non v'è più menzione per la promozione di eguaglianza e benessere. Il clima è ormai completamente mutato: è finita la stagione dello Stato, della leva pubblica come volani essenziali per conquistare eguaglianza, per dar sostanza a nuovi diritti, soprattutto sociali e civili. Ovunque l'intervento pubblico inizia ad esser chiamato sul banco degli accusati: finanza fuori controllo, elefantiasi, crisi fiscale. Impugnare ora il tema dei diritti umani significa innanzitutto provare a mondare il mondo del peso intollerabile della politica di potenza, della morsa totalitaria. Con quel vessillo - fatto proprio ora dal nuovo presidente americano Jimmy Carter, ma dall'altro lato anche dal «dissenso» oltre Cortina di Vaclav Havel - gli USA adesso provano a riproporsi nel mondo come reincarnazione della City on the Hill, la città risplendente sulla collina, in lotta contro totalitarismi e fondamentalismi. Qui la radice di una rivendicazione degli Stati Uniti come alfieri dei «diritti umani» destinata ad un lungo cammino, a reincarnarsi negli storici ossimori della «guerra umanitaria» o nella santificazione della «democrazia da esportazione».

 

Il «colpo di reni»

 

A sommuovere la scena globale provvede quello che Ernst Nolte ha chiamato «colpo di reni» della conservazione. Sotto la lente dello storico l'accavallarsi nel biennio 1978-1979 di una serie di sommovimenti che terremotano la scena mondiale. S'inizia nel Vietnam. Con avvio nel 1976 e l'esplosione nel 1979 - quando Francia e Italia inviano dall'altra parte del globo vascelli militari per il soccorso in mare - centinaia di migliaia di vietnamiti provano in imbarcazioni di fortuna a sfuggire alla morsa del regime imposto dal Vietnam del Nord con nazionalizzazione delle imprese e collettivizzazione delle terre. La minuscola nazione assurta per anni a peccato capitale del gigante USA si rivolta agli occhi del mondo in faccia ributtante di un comunismo dispotico. 

Con la cacciata dello scià e l'avvento-rivelazione di Khomeini in Iran inizia quella che Gilles Kepel chiamerà la «rivincita di Dio»: «La Revanche de Dieu. Chrétiens, juifs et musulmans à la reconquête du monde». La religione torna ad essere per moltitudini faro nel mondo e speranza per il futuro: da Israele con l'avvento della destra ortodossa in appoggio di Begin al Wojtyla stella polare per i gruppi integristi, come per Solidarnosc, per finire al Jimmy Carter dichiaratamente battista che apre la strada ai gruppi cristiani più integralisti in appoggio a Ronald Reagan. Potrà così capitare persino ad un laicissimo Michel Foucault di commentare - in una serie di editoriali per il «Corriere della Sera» poi raccolti in volume - la rivoluzione khomeinista salutata come il ritorno di una «nuova spiritualità politica», speranza per i diseredati di quel paese e del mondo intero. L'applicazione della sharia, assieme ai primi tagli di mano comminati ai ladri e alle prime esecuzioni capitali, lo azzittiranno. Non parlerà mai più dell'Iran.

È poi la volta dell'URSS: ha iniziato da poco a schierare ai confini missili SS-20 dotati di testata nucleare. L'allarme cresce finche Helmut Schmidt rompe il dibattito invitando gli USA ad assicurare copertura all'Europa occidentale con missili Cruise e Pershing. A seguirlo nell'appello all'«amico americano», Francesco Cossiga, all'epoca presidente del Consiglio, con la dichiarazione su un'Italia pronta ad accogliere i nuovi euromissili. Ne nasce una crisi e una mutazione dei blocchi militari contrapposti durate quasi un decennio. All'apice della crisi e in risposta agli USA che accolgono la richiesta europea, l'URSS invade l'Afghanistan. Ne vengono sconvolte le Olimpiadi ma soprattutto l'intero universo islamico. Per quel pezzo di mondo in subbuglio la ricetta americana sarà la Dottrina Carter, con la proclamazione dell'intero Medioriente a zona vitale di primario interesse americano - con annesse minacce di guerra - accompagnata dalle speranze di Zbignew Brzezinski, consigliere per la sicurezza del presidente, di vedere l'Afghanistan trasformarsi nel «Vietnam dell'URSS». Il tutto accompagnato dalla scelta di foraggiare l'islamismo radicale in appoggio alla rivolta afghana, impersonificato da Osama bin Laden per l'Arabia Saudita: ne nascerà «Al Qaeda». 

All'altro angolo del mondo, Deng Xiaoping proclama, dopo le «quattro modernizzazioni», la «riforma economica cinese». Apre le aree metropolitane costiere, come «zone economiche speciali», agli investimenti del capitalismo globale: la Cina diviene World Factory. Il mondo arrovescia i suoi cardini sul Pacifico. 

Nel cuore d'Europa matura una rivoluzione di ben altra natura. Non è il prodotto di idee o masse in movimento. È frutto di saperi antichi, ispirati in genere a prudente e sapiente consultazione di codici. È la Corte di Giustizia della Comunità Europea a produrre lo strappo. A proposito del rinomato Cassis di Digione, con una sentenza statuisce che una merce prodotta secondo le regole di uno Stato aderente alla CEE può circolare liberamente in tutti gli Stati della comunità senza bisogno di alcun permesso o regolazione aggiuntiva, a meno che non tocchi esigenze imperative d'altra natura: ad esempio, quelle di salvaguardia della salute pubblica. È il trionfo dello «Stato minimo», della regolazione politica ridotta ai minimi termini. È l'affermazione di un principio che assurgerà anni dopo ad architrave dell'Atto unico europeo del 1985 e del successivo cammino intrapreso da Jacques Delors per fissare e conquistare al 1992 il completamento del mercato unico europeo.

Diffusa è la percezione che attraverso vie e forme molteplici lo scettro sia ormai strappato alle mani del popolo sovrano. Ovunque partiti e parlamenti sono in ritirata, azzittiti sempre più spesso dal protagonismo dei leader. Sottilmente e paradossalmente lo scalpello del diritto e dei diritti dei singoli ha cominciato a sgretolare la corazza delle istituzioni statali. E a dare un colpo decisivo ha provveduto da qualche tempo direttamente l'OCSE, la maggiore e più influente organizzazione internazionale degli stati più avanzati in campo economico. A giugno del 1977 viene pubblicato il McCracken Report: Towards Full Employment and Price Stability, una imponente ricerca durata quasi due anni in cui Paul McCracken, coadiuvato da uno stuolo di economisti, individua nell'inflazione il nemico principale per la politica economica pubblica. A dispetto del titolo del rapporto, sono proprio le scelte a favore della piena occupazione nel fuoco del mirino. Lentamente, ma con decisione, la morsa ha preso a stringersi sulla spesa pubblica dando avvio ad una dipendenza sempre più marcata delle centrali di spesa nazionali rispetto ai flussi della grande finanza internazionale. 

Figlio di questo mutamento, sotto la presidenza di Jimmy Carter, l'avvento di Paul Volcker alla direzione della FED, la Federal Reserve americana, con la rivoluzione nella politica economica tutta rivolta contro l'inflazione. A rispecchiamento in Europa si dà vita allo SME, il Sistema Monetario Europeo: varato nel 1979 tra i paesi dell'Europa occidentale, con le sue bande strette di oscillazione monetaria (e la transitoria eccezione italiana di bande più larghe), guida la rivoluzione nel Vecchio Continente della politica economica d'ogni paese. Per effetto di questo ennesimo rivolgimento, concomitante rispetto alla decisione di schieramento degli euromissili, vanno in soffitta i sogni del duo Schmidt-Giscard: la barra per politica economica e difesa è tornata decisamente a colorarsi a «stelle e strisce». 

 

«Crisi di fiducia»

 

A dar degna cornice a questi rivolgimenti sta la prolusione del presidente Carter del 15 luglio 1979 passata alla storia come discorso sulla «Crisis of Confidence»: la «crisi di fiducia». Egli vede nel tempo presente ergersi uno spartiacque, «una minaccia fondamentale per la democrazia americana ... una crisi di fiducia». L'occasione è data dalle difficoltà a conquistare nel Congresso una qualche forma di regolazione dei consumi energetici. Ma Carter per l'occasione affonda il bisturi in maniera più profonda: «Abbiamo sempre creduto in qualcosa chiamato progresso. Abbiamo sempre avuto fiducia che i giorni dei nostri figli sarebbero stati migliori dei nostri». E invece ora è subentrato un mutamento epocale, adesso è in discussione «la fiducia, non solo nel governo in quanto tale, ma nella propria capacità in quanto cittadini di essere coloro i quali in ultima analisi guidano e danno forma alla nostra democrazia». Ecco il punto dolente: la sostanza stessa della politica nel tempo moderno, la fede nel riconoscersi come motore primo della democrazia e dei suoi istituti. 

Continuando ad esplorare i contorni della crisi Carter allunga lo sguardo sulla capitale, sul centro del potere: «Cercando una strada per uscire da questa crisi, il nostro popolo si è rivolto al governo federale e l’ha trovato isolato dalla corrente principale della vita della nostra nazione. Washington D.C è diventata un’isola ... Quello che si vede troppo spesso a Washington e in giro per tutto il paese è un sistema di governo che sembra incapace di agire. Un Congresso tirato e strattonato da centinaia di interessi particolari ben finanziati e potenti ... Si vedono spesso paralisi, stagnazione. Si va alla deriva»

Ritorna e imperversa il mantra della Trilateral: «la crisi di governabilità». Ma questa volta scompare l'attore della crisi: il «sovraccarico di domanda», il surplus di partecipazione. Al suo posto gruppi di interesse e lobby, ma soprattutto apatia, distacco, vuoto. A far da orizzonte generale una mutazione - financo antropologica - epocale su cui Carter punta il dito: «troppi di noi ora tendono al culto dell’egoismo e del consumo. L’identità delle persone non è più definita da quello che fanno, ma da ciò che posseggono. Eppure ci siamo resi conto che possedere cose o consumarne non soddisfa il nostro desiderio di significato. Abbiamo imparato che accumulando beni materiali non si può riempire il vuoto in vite che non hanno più fiducia o scopo. I sintomi di questa crisi dello spirito americano sono tutti intorno a noi: per la prima volta nella storia della nostra nazione la maggioranza della nostra gente crede che i prossimi cinque anni saranno peggiori dei cinque anni appena passati. Due terzi del nostro popolo non hanno nemmeno votato. Persino la produttività dei lavoratori americani è crollata ... c’è una crescente mancanza di rispetto nei confronti del governo, delle chiese e delle scuole, dei mezzi di informazione e delle altre istituzioni ... Questo non è un messaggio di felicità o di rassicurazione, ma è la verità ed è un segnale d’allarme».

Quel discorso - sulle labbra del presidente degli Stati Uniti d'America - sigilla un'epoca. Per un osservatore acutissimo come Tony Judt è «la fine di ogni certezza». In Italia Francesco Alberoni inizia su scala continentale a datare da allora «l'epoca dell'Occidente assediato». Jean Fourastié aveva coniato per il trentennio dell'Embedded Liberalism, del «liberalismo regolato», il marchio dei Trente Glorieuses. Nicolas Baverez vede arrivare Les Trente Piteuses.

 

Leaderismo, trionfo dell'effimero, pacifismo

 

Il sipario è ormai strappato. Margaret Thatcher, Ronald Reagan, Helmut Kohl, Battino Craxi arriveranno uno dietro l'altro ad occupare quasi interamente il proscenio. François Mitterrand per un breve periodo movimenterà le scene di luce diversa. Poi anch'egli tra gennaio e marzo 1983 si adeguerà al «vincolo esterno»: euromissili e SME. 

L'astensione dalle urne continua a crescere e con essa l'irrilevanza dei vecchi partiti. Non a caso in Italia gli ultimi grandi singulti dei partiti di massa sono quelli del PCI in occasione dei funerali di Berlinguer e del referendum perduto sui punti di scala mobile.

La scena sociale sta mutando drammaticamente nel mondo. La Rust Belt, la «cintura della ruggine», s'allarga non solo nel cuore industriale degli Stati Uniti. Ovunque nel mondo - tranne che in Cina e pochi altri distretti della delocalizzazione globale - il lavoro manifatturiero è in calo esponenziale. Assieme al dilagare di informatica e telematica il prefisso 'post' inizia a marchiare tutto ciò che gli analisti sociali intravedono come mutazione continua, senza comprenderla appieno: post-industriale, post-moderno, post-fordismo ecc. L'escamotage del low-cost alimenta la crescita di consumi e la mutazione delle periferie urbane, punteggiate ora da mall, superfetazioni post-moderne del supermercato e di un terziario incatalogabili nelle loro configurazioni tradizionali. L'effimero ha trovato i suoi templi. In tanti vi vedono «rinascita» e «neomiracolo». Nello scantinato e retrobottega di quel low-cost la Cina inizia a scalare classifiche e a nutrire immense, nuove «classi medie»: straordinaria la distrazione su questo subitaneo ribaltamento del mondo. 

La nuova «guerra fredda» iniziata in Afghanistan evolve ora in forme adeguate ai tempi. Reagan brandisce contro l'URSS in mortale decadenza vecchi anatemi e mirabolanti «Guerre Stellari»: dietro le maschere dei nemici giurati cadenti Darth Vader impelagati in una sarabanda suicida. 

A segnare il nuovo milioni di persone per le strade del mondo e soprattutto d'Europa animano il nuovo pacifismo di stampo realista. A differenza dei «Partigiani della Pace» degli anni Cinquanta non parteggiano. Nel mirino ora c'è la morsa che avviluppa il mondo con una stretta mortale. Salda la coscienza che dall'atomica non c'è scampo, che la pace à l'unica risposta al suicidio possibile dell'umanità. Manca qualsiasi altra realistica risposta. A far difetto - come per tutti i movimenti di nuovo conio che iniziano a caratterizzare vie e forme della politica contemporanea - l'incontro mancato con le istituzioni e qualsiasi ipotesi di riforma. Rimarrà purtroppo come segno distintivo e buco nero: il pacifismo contemporaneo sarà unica reale opposizione a tutte le guerre che punteggeranno e tormenteranno il globo, ma non riuscirà a incontrare o farsi movimento di riforma dell'esistente. Innanzitutto di quelle Nazioni Unite, nel cui cuore - il Consiglio di Sicurezza - albergano contraddittoriamente la ricerca della pace e la celebrazione, con il cosiddetto «veto», del bottone dell'olocausto finale. Non a caso tutto è fermo, a dispetto di un mondo profondamente mutato, agli equilibri e ai baratri, allora segnati.

Non a caso è su questi temi che il bipolarismo di tanta parte del Novecento celebrerà un'ultima epocale contrapposizione, segnando il passaggio ad un'altra era. 

 

 

 

Collassi

 

Sarà Gorbacev a dare il là. È l'uomo nuovo, il leader cui la nomenklatura sovietica ha affidato la speranza di salvare contraddittoriamente l'URSS moribonda e la continuità del proprio potere: un compito non a caso impossibile sfociato in epocale implosione. Sta girando e stupendo il pianeta, con una grande apertura sulle teorizzazioni e le parole d'ordine da tempo avanzate dal «Gruppo dei 77», dal Sud del mondo. Dalla tribuna dell'assemblea generale delle Nazioni Unite, il 7 dicembre 1988 chiede un «nuovo ordine mondiale», la «costruzione di un mondo denuclearizzato», il passaggio «dal principio del super-armamento al principio della ragionevole sufficienza difensiva». Annuncia intanto un consistente, unilaterale taglio delle forze armate sovietiche. Assume una netta prospettazione di futuro di fronte ad una tribuna chiara – l’ONU, la comunità degli Stati – e un’audience precisa: il pacifismo nelle sue varie vesti e espressioni con la sua netta rivendicazione di disarmo. Auspica la cooperazione tra i sistemi fin allora contrapposti. Intravede la «creazione comune» di un nuovo ordine, parla di «co-sviluppo», in modo da escludere sia che «i processi interni di trasformazione» procedano «lungo ‘corsi paralleli’ rispetto agli altri, senza utilizzare le conquiste del mondo circostante», sia che vi siano «ingerenze nei processi interni» tese a «modificarli sulla base di modelli ad essi estranei».

Ma sarà George H. W. Bush, il 41° presidente degli USA, a rispondergli l'11 settembre 1990. La tribuna è sempre quella delle Nazioni Unite il 1° ottobre 1990, all'indomani della ennesima risoluzione di condanna da parte del Consiglio di Sicurezza, con il concorso sovietico, dell'invasione del Kuwait da parte dell'Iraq di Saddam Hussein. Anch'egli scorge ed auspica «un nuovo ordine mondiale: una nuova era, libera dalla minaccia del terrore, più forte nel perseguimento della giustizia, più sicura nella ricerca della pace». Bush saluta l'inizio di «una nuova era di cooperazione tra le nazioni» per un mondo in cui vi sia la «possibilità di usare le Nazioni Unite per gli scopi per cui furono concepite: come centro per la sicurezza collettiva internazionale». Di lì a poco il Consiglio di Sicurezza benedirà una guerra segnata dalla preponderanza politica, militare, economica degli USA. 

Si affermerà un nuovo ordine ma con le stigmate volute da Bush. Altro che il «disarmo» perorato da Gorbacev. Il «nuovo ordine mondiale» si muove all'unisono con la nuova "Invincibile Armata", a senso unico. Intanto muove dalla caduta del Muro di Berlino e dal collasso di un intero sistema. Siamo oltre il contenimento e la deterrenza. Netta la direzione di marcia indicata dal presidente americano: la «rivoluzione dell’89 ha spazzato il mondo» e «ha trasformato il clima politico dall’Europa centrale all’America centrale e toccato ogni angolo del globo». Andiamo verso «un mondo in cui la democrazia continua a conquistare nuovi amici e a convertire vecchi nemici e in cui le Americhe – del Nord, del Centro e del Sud – come primo emisfero completamente libero del mondo possono funzionare da modello per il futuro dell’intera umanità … un mondo che si costruisce sul nuovo modello di Unione europea, un mondo intero unito e libero».

La via auspicata e tracciata da Gorbacev è stravolta completamente. Limpido il capovolgimento di orizzonti. Ci si appropria del traguardo indicato dal leader sovietico per mutare percorso e punto di arrivo. Si dà vita così ad una delle più limpide «rivoluzioni passive» viste nella storia: in luogo dell’incontro fecondo di universi il «nuovo ordine mondiale origina una epocale asimmetria, segnata dall’unilateralismo a stelle e strisce e dalla dipendenza di Sud ed Est del mondo dall’Occidente. Il tutto all’insegna di una nuova guerra globale, malamente mascherata da operazione di «polizia internazionale», e con celebrazione finale naturalmente nell’abituale vertice G7.

La scena è a Londra, luglio 1991. Per l’occasione il vertice ha aperto le sue porte a Gorbacev. È lì per chiedere appoggio e aiuti. Andreotti e Mitterrand ascoltano con attenzione. Sono turbati dalla delicatezza del momento: l’URSS e la leadership sono ad uno snodo decisivo. Gli altri Grandi sono attestati più indietro: chiedono rassicurazioni preventive. Vogliono scelte concrete su liberalizzazioni e privatizzazioni. Insomma, un mutamento di sistema. E perciò alla fine si decide di tener stretti i cordoni di borsa e della solidarietà. Gorbacev esce dal vertice con un'area di delegittimazione. Di fatto è il via libera ai golpisti, alla dissoluzione dell'URSS, a Eltsin, alla rivolta della nomenklatura che nelle varie realtà sceglierà la propria sopravvivenza, la via oligarchica, la privatizzazione generalizzata. Altro il destino preparato in Cina con oculatezza da Deng. È il partito che apre le porte della nazione: nelle mani dei vertici rimangono saldamente le chiavi. Sono loro a decidere e amministrare l'apertura al mondo.

 

La «fine di una storia»

 

Il 900 si chiude in anticipo annunciando il Terzo Millennio con lo scasso del bipolarismo e una guerra globale. Il tutto all’insegna dell’hegeliana «fine della storia» annunciata ora da Francis Fukuyama. 

È il trionfo della democrazia neoliberale. Ma anche di diseguaglianze epocali. A fine secolo la globalizzazione assume un altro passo, soprattutto con il suo nuovo motore, quella fabbrica globale che, dissolta per l’orbe terracqueo e i cieli, da tempo – come hanno mostrato una serie di studi, da Naomi Klein a Robert Gilpin - pulsa in catastrofica ed antagonistica simbiosi col pianeta, a sue spese. A monitorarne costantemente il funzionamento, con l’osservazione del tumultuoso universo rappresentato dalle imprese transnazionali, ha provveduto per anni l’UNCTAD, la United Nations Conference on Trade and Development, nata nel 1964 su iniziativa dei paesi del Sud del mondo raccolti attorno alla richiesta di un «nuovo modello di sviluppo». Con i suoi rapporti annuali si è concentrata particolarmente nell’analisi delle imprese multinazionali, nella loro metamorfosi come trasnational corporations, TNC, imprese disposte a rete in barba a confini e continenti, per sfruttare al massimo le potenzialità offerte da finanza, trasporti e tecnologie informatiche nello sfruttamento d’ogni risorsa e d’ogni mercato su scala globale.

Robert Heilbronner le ha definite «travi gigantesche nella struttura del capitalismo mondiale». Nodi e reticoli si sono moltiplicati a velocità straordinaria nell’ultimo trentennio del 900: erano poco più di 7.000 le TNC, all’inizio degli anni ’70, e quasi tutte radicate nel mondo sviluppato, a Nord. Col tempo hanno preso a nascere e svilupparsi anche nel Sud del pianeta, con una dinamica che premia nettamente la ramificazione delle imprese affiliate. Con l’ingresso negli anni 90 del Novecento, la riproduzione e il lavorio delle TNC conseguono il risultato che, assieme alla fantasmagorica autonomia conquistata dalla finanza internazionale, marchia originalmente, rispetto ad altre epoche dell’economia moderna, l’attuale stagione globalizzatrice: la produzione internazionale supera e stacca stabilmente il commercio internazionale come forma-principe per provvedere di merci e servizi i mercati esteri. Nel 2002 le vendite delle affiliate estere, escludendo il commercio interno alla stessa catena delle TNC, hanno superato i 18 mila miliardi di dollari, ben più del doppio degli 8 mila miliardi di dollari in cui si è sostanziato il contributo del commercio internazionale di beni e servizi: un mutamento epocale rispetto al 1990 quando le due grandezze di fatto si equivalevano. 

Tra produttore e consumatore si realizza un circuito che non ha più bisogno del mercante, o spesso abolisce questa figura: tra nazioni e mercati diversi si stabiliscono, comunque, flussi che non transitano più alle frontiere nelle usuali etichette di import ed export. Nel mezzo si bruciano gradi di libertà e radici di società e borghesie indigene. Si ibridano per vie inedite culture e civiltà. Si fondono regolazioni. Non v’è nulla di meccanico, infatti, in queste evoluzioni della produzione internazionale. Esse non obbediscono ad una presunta naturalezza degli scambi o ad una pretesa onnipotenza della tecnica e dell’innovazione scientifica. A dimostrarlo sta l’incessante e inesausto lavorio di legislatori e interpreti.

A fine 1980 – sottolinea l’UNCTAD nei suoi 2003 2005 World Investment Report – erano in vigore solo 181 trattati bilaterali in materia di FDI. A fine 2004 si è passati ai 2.392 accordi vigenti. E così per gli accordi tesi ad eliminare la possibilità di doppia tassazione, passati da 719 a fine 1980 a 2.559 nel 2004. Né il passo è stato rallentato dal trauma dell’11 settembre. Altre misure liberalizzatrici in materia di investimenti sono state varate. E così il regime di liberalizzazione dei FDI si irrobustisce: è la sua opera di neutralizzazione dei ‘particolarismi’ statali, l’accelerata promozione della abdicazione statuale, della deregulation, che costruisce il nuovo mercato globale. È nella rarefazione dello spazio planetario che, più limpidamente che altrove, il mercato si staglia - per riprendere un’efficace formulazione di Natalino Irti – come «locus artificialis», ordine disegnato da regole, decisioni e accordi, figlio di una «assoluta ed integrale politicità». La deregulation neoliberista è figlia di società e mercati altamente evoluti, di Stati e rapporti interstatuali, burocrazie transnazionalizzate e comitati sovranazionali, asciugati d’ogni partecipazione e controllo democratici, ma capaci di assicurare, col minimo di costrizione politica, il massimo di garanzia al diritto di proprietà e allo scambio mercantile. Nel mercato figliato da questa rete di interconnessioni, la sede e il momento della decisione evaporano, diventano indistinguibili: «poco importa - come ha ben evidenziato Jean-Marie Guéhenno – che una norma sia imposta da un’impresa privata o da un comitato di funzionari. Non è più l’espressione di una sovranità, ma semplicemente un riduttore di incertezze, un modo di ridurre il costo delle transazioni, aumentandone la trasparenza». In questi spazi torna a esplicare un grande potere innovativo una nuova lex mercatoria: il diritto cosmopolita inventato, contrattato e affermato giornalmente sui mercati.  Il suo dominio però spesso s’arresta là dove poteri forti o un humus consolidato le permettono di attecchire e far norma. Stenta invece a farsi sovrana o trainante nelle società ancora alle prese con transizioni e modernizzazioni. Lì volentieri si dissolve o perverte in commistioni mafiose o alchimie medioevali o tribali.

La decisione dei governanti ‘sgombra’ dal controllo della politica uno spazio tendenzialmente globale. Lo ‘libera’ e ‘adatta’ all’espansione del mercato. Lì si realizza – per dirla con Bourdieu - «la politica dell’antipolitica, la politica di spoliticizzazione». Adesso lì può fluire liberamente il prodotto della catena disegnata dal made in the world. Al passaggio di secolo la produzione lorda delle sole affiliate estere pesava per un decimo sul prodotto globale complessivo del pianeta: a fine 1982 ne costituiva un ventesimo. È in questo network la fucinadel mondo nuovo, qui si sono concentrate le innovazioni tecniche che hanno fatto da bussola per il mondo intero, qui la rivoluzione digitale e della comunicazione ha organizzato e stretto in maglie sempre più strette e veloci una rete produttiva sempre più larga, con un ricambio rapidissimo di tecnologie e specializzazioni

 

Una comunicazione afona

 

È proprio negli USA che però possiamo rintracciare la sottolineatura di un ulteriore tratto distintivo del passaggio d'epoca. Ad operarla un protagonista per eccellenza della nuova stagione in cui si è avventurato il capitalismo contemporaneo, ovvero Alan Greenspan, presidente della Federal Reserve, la banca centrale americana. In un discorso del 1998 egli ha modo di sottolineare una netta e comunque paradossale insistenza sulla minorità, sulla soggezione del lavoro come cardine centrale della nuova era segnata proprio dal trionfo del capitale intellettuale, di quello che Thomas A. Stewart ha chiamato «brainpower», la «potenza del cervello». Da sempre cauto rispetto alle letture più estreme, Greenspan con molta decisione individua a tratto tipizzante del lungo periodo di crescita degli anni 90 l’avvento di una new economy. A caratterizzarla il «mutamento strutturale» prodotto dall’information techonology, dall’irruzione massiva ed incrementale in ogni campo della produzione e della vita associata delle tecnologie dell’informazione, della comunicazione. Non ne sono sgorgati solo nuovi prodotti o mercati, o inedite soglie di produttività, quanto una straordinaria rivisitazione dei poteri di rivoluzionamento o «distruzione creativa» che già Marx e Schumpeter avevano attribuito al capitalismo. Il mutamento nel modo di produrre e consumare attivato dalla nuova ondata innovativa ha così sciolto in flussi comunicativi gerarchie e apparati, esploso la fabbrica in aggregati reticolari, nebulizzato i bacini di socialità della democrazia moderna nei pulviscoli di un nuovo individualismo consumistico. 

Ad attirare l’attenzione di Greenspan non è stata però solo l’indistinta percezione dei nuovi rapporti di forza disegnati da un ciclo di innovazioni che permette di ridurre drasticamente il costo del lavoro per unità di prodotto. Egli si è soffermato piuttosto sui tratti onnivori dell’information technology, sulla sua inedita capacità di appropriarsi del lavoro sociale, ben oltre le specifiche competenze messe a valore, e di metabolizzarlo in linee di software, in flussi di comunicazione, in nuova potenza ordinatrice e di controllo. Il suo discorso s’accentra così sulla rapidità con cui il processo di innovazione metabolizza e brucia il lavoro, esibendone sistematicamente l’«obsolescenza» di competenze e capacità e causandone la mancanza di reattività. È lì la fonte dell’angoscia ed insicurezza che pervade il mondo del lavoro e che lo riduce per tutta un’epoca in uno stato di evidente minorità. Già Paul Samuelson, Nobel per l’Economia e decano degli economisti USA, aveva insistito su questa specificità del nuovo capitalismo, sottolineando il duplice avvento di una Ruthless Economy, un’economia senza pietà, e di una Cowed Labor Force, una forza-lavoro intimidita, snerbata di capacità contrattuali nelle nuove condizioni di concorrenza e di lavoro e incapace di contrastare il restringimento del Welfare. Da un diverso angolo visuale, Robert Reich aveva intravisto nell’avanzata di questi processi la causa di una mutazione più generale: la trasformazione del mondo del lavoro in «anxious classes», classi ansiose, non più sicure del futuro e del loro spazio nel «sogno americano», preda ormai di sommovimenti epocali nel panorama politico degli States

Ma anche questa è già storia. Nuovi capitoli e rischi si aprono ora, nel momento in cui l’invadenza dell’informazione e delle sue leggi di movimento finisce col determinare anche la discesa nell’infinitamente piccolo, orienta e fa da guida all’assalto al mistero della vita, alla sua creazione in vitro. Con la mappatura e decifrazione del genoma si è compiuto un altro salto nella storia umana, grazie alla centralità acquisita nello sviluppo della biologia novecentesca dal gene come codice informatico, capace ad un tempo di veicolare informazione e di eseguire un programma, di trasmettere leggi di sviluppo e di attuarle. Oggi, nel momento in cui la clonazione dell’embrione umano o di cellule umane marca il nuovo passo della scienza, il sequenziamento del genoma appare solo il primo capitolo, non l’ultimo, di una rivoluzione ancora tutta da compiere. Un passo che, comunque, permette di conoscer meglio la «zavorra storica» accumulata dalla genetica, la miriade di condizionamenti, materiali e ideologici, che ha condotto a trascurare la complessità delle interazioni tra i geni e l’ambiente e ad incamminarsi per le scorciatoie di semplificazioni meccaniche. 

Oltre un secolo e mezzo fa, Friedrich Engels e Karl Marx provavano a delineare compiti e percorsi del comunismo sull’inno più entusiastico e convinto alle funzioni rivoluzionarie della borghesia, alla capacità del capitalismo di trasformare e unificare il mondo. A distanza di quasi un secolo, mentre il mondo precipitava nel carnaio della II guerra mondiale, Joseph Alois Schumpeter, in simpatetico colloquio con il Marx più maturo, poneva ad essenza del capitalismo una capacità evolutiva fondata sul «processo della distruzione creatrice», in grado di sciogliere ogni «strato protettivo» della società capitalistica, di abbatterne tutti i «muri» e le «istituzioni». Al tramonto del Novecento quelle analisi e diagnosi si sono rivelate ancor oggi un punto di partenza insostituibile per l’anatomia dei processi di globalizzazione. Non solo per misurarne estensione e profondità. Ma soprattutto per decifrarne, rispetto all’ultimo trentennio, il timbro schiettamente neoliberista, per comprendere come il loro passo sia stato misurato e orientato sull’algoritmo assoluto del mercato. 

 

Strategie costituenti

 

In quel 1991 Londra però non ospita solo il fatale vertice del G7 - allargato per la prima e l'ultima volta all'URSS di Gorbacev. A novembre, nei giorni 7 e 8, sarà il turno della Nato con il Meeting dei capi di Stato e di Governo chiamati ad elaborare e firmare il Nuovo Concetto Strategico dell'Alleanza. È la prima volta che l'Alleanza fa un passo simile. Qualche mese prima - il 1° luglio - si è sciolto il Patto di Varsavia. L'Alleanza Atlantica però non accenna nemmeno qualcosa del genere. Si rinnova e riscrive le linee fondamentali che ne reggono l'esistenza e guidano il funzionamento. Non lo fa, però, ritoccando i trattati istitutivi. Ricorre all'escamotage di ritoccare il cosiddetto «Concetto Strategico»: un documento di analisi e guida all'azione nel contesto internazionale, che però fino al 1991 si muoveva nella cornice certa offerta dal trattato istitutivo. Nel 1991 scompaiono URSS e Patto di Varsavia. Ci sarebbe bisogno di rinnovare i trattati ovvero lo scopo e il raggio di azione dell'Alleanza. Evidentemente un passo avvertito come un azzardo. Troppo pericoloso: nuovi trattati richiedono ratifiche dei parlamenti nazionali. E se vengono sollevati dubbi? Discussioni? Meglio ritoccare le strategie, anche se queste ridisegnano scopi e confini dell'Allenza. A Londra, si decide infatti che l'Allenza può e deve intervenire non più solo in caso di attacco al territorio di uno degli Stati aderenti all'Allenza. Adesso il raggio di azione si espande ai «rischi molteplici e multi-direzionali» della nuova scena internazionale. Fondamentale diviene ora la proiezione e la capacità di proiettarsi oltre i propri confini ad esempio per parare o anche prevenire pericoli nei rifornimenti o nell'accesso a fonti energetiche o emergenze simili. Magari con forze di reazione rapida o strumenti similari.

Qualche anno dopo, la dissoluzione jugoslava e l'intervento in Kosovo, deciso unilateralmente dalla Nato nell'impossibilità di un intervento ONU, determina una rielaborazione del Concetto Strategico, concepita e varata in occasione del 50° anniversario dell'Alleanza. Sarà quella l'occasione per varare l'incredibile invenzione delle operazioni «non art.-5», ovvero la possibilità di muover guerra fuori dai confini degli Stati aderenti. Insomma, proprio quanto appena fatto in Kosovo, in rottura del diritto internazionale e in nome del cosiddetto «intervento umanitario». In rottura dell'art. 5 dell'Alleanza che, in obbedienza agli ordinamenti internazionali, prevede solo la guerra difensiva. Da quel conflitto e da quei mutamenti strategici e ordinamentali nasce l'inesausto allargamento della Nato ad Est. In alcuni momenti - come ad esempio con il Concetto Strategico del 2010, varato a Lisbona, e l'istituzione del Consiglio Nato-Russia - coinvolgendo persino l'antagonista storico nel processo decisionale dell'Alleanza, sia pure senza concessione di un potere di veto sulle decisioni finali.

L'invasione della Crimea e l'attuale guerra in Ucraina hanno drammaticamente interrotto quel cammino, imprimendo altro segno e ben altra valenza all'espansione della Nato. Ne è sortita l'ultima versione degli orientamenti e comandamenti strategici, varata a Madrid lo scorso mese di giugno. In essa il potenziale raggio di azione s'allarga all'Asia con una novella, inquietante individuazione delle minacce fondamentali: adesso accanto alla bellicosa Russia di Putin si staglia la potenziale minaccia cinese. 

Il tutto interpretato, riscritto, varato dal protagonismo congiunto degli esecutivi, al riparo dai parlamenti, dalla sovranità popolare. La decisione fondamentale sulla pace e sulla guerra, sulle strategie per parare il conflitto e garantire concordia e fratellanza universali, assicurare sicurezza è da tempo sequestrata nelle democrazie occidentali da tecnocrazie e governi, da cerchie ristrettissime di persone.

Percorsi non dissimili le democrazie europee da circa un trentennio hanno intrapreso nella lenta, faticosa, costruzione della nuova Unione Europea. Lì ben quattro distinti Trattati, con relative ratifiche parlamentari, fortunatamente segnano con pietre miliari il cammino percorso da Maastricht al giorno d'oggi. Nell'esame, però, delle vie volta a volta intraprese, dei timbri impressi alle nuove regolazioni comunitarie conquistate, si fatica molto ad intravedere il lavorio di popoli e parlamenti come di partiti e movimenti. Anche qui emerge l'applicazione costante, la cura di cerchie ristrette di esperti e governanti. Esemplare, l'affresco fornito da osservatori indubitabili quali Guido Carli e Mario Monti a proposito del peso esercitato dal cosiddetto «vincolo esterno» nella formulazione concreta dei Trattati istitutivi della UE. In realtà, come si è già avuto modo di sottolineare in passato, in quelle regolazioni vi è la prova più evidente che da tempo, lentamente ma decisamente, al «costituzionalismo dei governati» si è venuto frapponendo, con formule astruse ma universalmente accettate, un «costituzionalismo dei governanti». Giorno dopo giorno è questo a fagocitare e assorbire il concreto esercizio della sovranità popolare, sottratta a nazioni esauste e parlamenti disincarnati dalle soggettività tradizionali.

 

Cupi orizzonti

 

Pandemia e guerra stanno accentuando queste tendenze. Antonio Cantaro ha di recente evidenziato fin dove si sia spinta ormai «la pretesa di governare senza prendersi cura dei governati, di sorvegliare burocraticamente la vita di uomini e donne senza ascoltarne le domande, le ragioni, le sofferenze». In altre analisi, si solleva un interrogativo simile, ma ancor più radicale: «può sopravvivere alla guerra il costituzionalismo democratico moderno». In un quadro dominato da un altissimo - e a tratti esclusivo - grado di formalismo giuridico, alcuni interventi attirano meritoriamente l'attenzione su un punto decisivo della guerra intrapresa dalla Russia di Putin all'Ucraina: la minaccia dell'atomica, del suo possibile uso.

Siamo ad un tornante decisivo. Quelle dichiarazioni - assieme al concreto esercizio del cosiddetto «diritto di veto» nel Consiglio di Sicurezza dell'ONU - sigillano la guerra ai voleri e all'iniziativa del nuovo Zar e determinano buona parte delle mosse del campo avverso, senza lasciar margini o spazio per mosse alternative. Pena la minaccia suprema. Si misura su questo terreno esplosivo oggi lo iato degli anni passati: grandi marce per la pace, imponenti potenze nate nelle strade del mondo, ma senza saper o poter attingere ad un reale, concreto movimento di riforma, quale ad esempio quello intrapreso, ma lasciato in sospeso dei trattati per il disarmo atomico generalizzato.

Così come oggi misuriamo anche su altri terreni essenziali - magari, ad un primo sguardo, apparentemente minimali - il grado di decadenza della democrazia e della partecipazione popolare. 

Siamo partiti in queste note dalla constatazione di una astensione dal voto divenuta in Italia nel tempo il partito più gettonato: una scelta spesso assai meditata e dichiarata, con un elettorato fedelissimo e in continua ascesa. A spadroneggiare – specialmente nelle tornate amministrative - v’è però altro: una frammentazione continua di coalizioni elettorali e liste. Non sempre frutto di creatività locale e a vita limitata: non più di qualche mese. Ad applicarsi e con costanza – nell’esplorazione continua di un «cubo di Rubik» con combinazioni e colori infiniti - spesso ci sono consorterie assai composite, quasi sempre annidate nei gangli delle istituzioni regionali e negli intrecci, straordinariamente contorti, della ‘governance’ ai più vari livelli: magari nelle infinite combinazioni di privato e pubblico, economia e politica, che con varie stratificazioni orienta, guida e condiziona la vita civile della nazione. Nel Mezzogiorno con una intensità mai toccata. Spesso in combutta con la «società incivile».

La combinazione perversa di astensione e frammentazione produce effetti perversi mai toccati prima. Dalle urne emerge una sorta di «democrazia pilotata» in cui quasi sempre non v’è più garanzia alcuna per la segretezza del voto. E non si tratta solo di fenomeni da paesello. L’analisi del voto anche in città di rilevante grandezza rivela che, con livelli di astensione oltre il 40% e nel confronto tra coalizioni composte da oltre 7-8 liste, il più delle volte il voto alle varie formazioni rivela preferenze addensate attorno ad un massimo di 2-3 ‘capibastone’. Grazie anche ad una oculata distribuzione del voto di genere e alla gestione di gruppi privati nelle reti social – WhatsApp imperante – il voto segreto di fatto non esiste più. Illuminante la rilettura del voto di lista scomposto e riletto nella distribuzione tra i vari seggi elettorali e puntualmente annotato dai vari rappresentanti di lista. Il che spesso muove interessi innominabili.

Può accadere così che diventi assai indigesto proprio il voto amministrativo, quello in cui la distanza tra governanti e governati è più stretta. Proprio allora, il più delle volte, ci accorgiamo che ci sfugge di mano, conteso da oligarchie ristrette, aduse al peggiore trasformismo. Non è fantascienza, purtroppo. Un Grande Fratello diffuso orienta e governa grazie a frammentazione e astensione gran parte del voto. Specie nel Mezzogiorno. 

Non si annunciano grandi futuri, grandi speranze.

 

Bibliografia

A. Applebaum, Twilight of Democracy: The Seductive Lure of Authoritarianism, 2020, tr. it. Il tramonto della democrazia. Il fallimento della politica e il fascino dell'autoritarismo, Mondadori, 2021.

Azzariti et al., Il costituzionalismo democratico moderno può sopravvivere alla guerra?, Editoriale Scientifica 2022.

N. Baverez, Les Trente Piteuses, Flammarion 1998.

P. Bourdieu, Contre-feux 2. Pour un mouvement social européen, tr. it. Controfuochi 2. Per un nuovo movimento europeo, Roma,  manifestolibri.

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M. Crozier, S. P. Huntington, J. Watanuki, The Crisis of Democracy: Report on the Governability of Democracies to the Trilateral Commission, New York University Press, tr, it. La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione trilaterale, Franco Angeli 1977.

J. Fourastié, Les Trente Glorieuses: Ou la révolution invisible de 1946 à 1975, Fayard 1979.

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J.-M. Guéhenno, La fin de la démocratie, Flammarion, 1993, tr. it. La fine della democrazia, Garzanti, 1994.

R. L. Heilbronner, Twenty-first Century Capitalism, Anansi, 1992 tr. it. Il capitalismo del XXI secolo, Bruno Mondadori, 2006.

G. Kepel, La Revanche de Dieu : Chrétiens, juifs et musulmans à la reconquête du monde,, Seuil, 2003, tr. it. La rivincita di Dio, Rizzoli, 1991

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P. Mair, Ruling the Void: The Hollowing of Western Democracy, Verso 2013, tr. it. Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti, Rubbettino 2016.

P. W. McCracken et al., Towards Full Employment and Price Stability, OECD 1977.

D. H. Meadows, D. L. Meadows, J. Randers, W. W. Behrens III, The Limits to Growth. A Report for THE Club of Rome's Project on the Predicament of Mankind.

I. D. Mortellaro, Dopo Maastricht. Cronache dall'Europa di fine millennio, La Meridiana, 1998.

I. D. Mortellaro, I signori della guerra. La Nato verso il XXI secolo, manifestolibri 1999.

E. Nolte, Gli anni della violenza. Un secolo di guerra civile ideologica europea e mondiale, Rizzoli 1995.

F. Rampini, Suicidio occidentale. Perché è sbagliato processare la nostra storia e cancellare i nostri valori, Mondadori 2022.

P. A. Samuelson, Wherein Do the European and American Models Differ?, in «Temi di discussione», n. 320, Banca d’Italia, novembre 1997.

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LA LOGICA PERVERSA DELL'OLIO DI RICINO

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LA LOGICA PERVERSA DELL'OLIO DI RICINO 

(Pubblicato sulla «Gazzetta del Mezzogiorno» del 29 giugno 2022 con il titolo "La logica perversa dell'olio di ricino del like manipola i flussi elettorali")

42,2% di elettori a questo turno elettorale nelle 59 città monitorate dal Ministero dell’Interno. Avanza la marea astensionistica. S'allarga il fossato tra cittadini e politica, tra gli Italiani e la Repubblica. 

Non è il risultato di un «destino cinico e baro». Qualcosa di profondo sta rimescolando ab imis le democrazie, il mondo occidentale: Stati Uniti in testa. Squassati per decenni da quelle che loro chiamano «cultural wars», guerre culturali: su diritti e poteri fondamentali, sul loro destino nel globo. 

Nel mondo antico per la polis era altro il termine in uso: stasis, «guerra civile», quella che secondo Tucidide mutava «il significato stesso delle parole» e al cui fondo per Aristotele v'erano  - come sono ancor oggi - diseguaglianze profonde, il conflitto tra poveri e oligarchie. Oggi aborto e armi sigillano - addirittura col marchio della Corte suprema - lo scontro, l'assedio che i perdenti con Trump di uno scontro elettorale hanno provato a portare al Campidoglio: estremo tentativo di manomettere il voto degli elettori e portare indietro le lancette della storia. Né in Europa le istituzioni democratiche vivono momenti migliori. Iniziò l'Inghilterra con la Brexit, ben presto rimessa da più parti in discussione. Oggi la Francia - che Macron ha provato a ricondurre sulle vie della grandeur gaullista - si scopre anch'essa tarlata da una sfiducia radicale nei confronti delle istituzioni repubblicane e in preda all'ingovernabilità. Né gode di buona salute la Germania orfana della Merkel e incerta nel ruolo di prima linea affidatole dall'emergenza della guerra in Ucraina.

Man mano che la pandemia prima e la guerra poi hanno reso ancora più necessaria la conquista di un autentico e pieno federalismo europeo, di una nuova UE, non affidata più solo alle volute dell'euro e ai voleri della BCE, le istituzioni nazionali si rivelano inadeguate, per tanti aspetti sorpassate. 

Non a caso tutti i sistemi politici sono in crisi radicale. A cominciare dal tanto celebrato - e in Italia inseguito - bipartitismo. Dovunque avanza però una sfiducia profonda. Non a caso alcuni accorti studiosi - in primis, Peter Mair - hanno accennato alla necessità di «governare il vuoto» a proposito della «fine della democrazia dei partiti». Con valenza e segno anche profondamente diversi, populismo, sovranismo e civismo al livello più elementare hanno provato a riempire questo vuoto. Finora inutilmente.

La socialità di un tempo - fatta di luoghi collettivi di lavoro e studio, sedi di partito e sindacato - è sempre più surrogata da improvvisazioni che durano lo spazio di una campagna elettorale o non vanno oltre un quartiere, nel migliore dei casi un comune. Senza più legami solidi col mondo, ma solo di fatto col surrogato dei social. 

Basta guarda i giornali e vedere come il più delle volte, la cronaca di una campagna elettorale in una città si risolve nella sottolineatura di questo e quello scontro sui social network. Né va meglio con la TV e i talk-show, fotografati il più delle volte da una istantanea di un qualche scambio su Facebook o Twitter. Di fatto, è la logica dei social a guidare e manipolare gran parte dei flussi elettorali. Con il risultato in genere prevalente di logiche tribalizzanti e l'esaltazione di uno scontro politico permanente.

In un tempo infausto ha vinto purtroppo in questo paese la logica dell'«olio di ricino». Per non parlare del manganello. Oggi il like indistinto di gruppi e gruppetti, al seguito di questa o quella cordata, assolve spesso allo stesso compito: bastonare in una logica perversa di gruppo l'interlocutore, ribattezzandolo come avversario, quando non nemico. Il risultato è in quelle cifre mortificanti, di un elettorato che partecipa sempre meno, che si chiama sempre più fuori.

A perderci siamo tutti, ma soprattutto la partecipazione e la democrazia.

 

Isidoro Davide Mortellaro

docente di Storia delle relazioni internazionali

Università di Bari "Aldo Moro"

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DEMOCRAZIA PILOTATA

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DEMOCRAZIA PILOTATA

(Pubblicato sulla «Gazzetta del Mezzogiorno» del 21 giugno 2022 con il titolo "Democrazia pilotata. Attenti all'astensionismo e ai partiti frammentati")

Presto - troppo presto - è stata accantonata la discussione sul voto e sulle urne del 12 giugno. L’eclatante fallimento dell’assalto referendario, certificato dal bassissimo tasso di partecipazione, ha contribuito ad archiviare in fretta la pratica. Sui due lati del fronte opposte le sensazioni di sollievo o angoscia. Nell’ombra, nonostante alcuni sprazzi assai illuminanti, è rimasta la riflessione sul voto amministrativo: complice, tra l’altro, l’ardua comparazione di situazioni assai diversificate, soprattutto tra Nord e Sud.

In realtà ha primeggiato la discussione sulla crisi complessiva del sistema politico. Di fatto - sia pure con le uniche eccezioni di un qualche rilievo di “Fratelli d’Italia” e del “Partito democratico”, smorti poli di un ipotetico futuro bipolarismo - siamo all’archiviazione dell’ennesima mutazione (2 o 3 “punto zero”?) della Repubblica e dei suoi principi ispiratori. Da tempo silente e buttato in un angolo ci contempla impotente quel cardine sistemico tracciato dall’art. 49 della Costituzione: « Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». 

Piazze e corsi di città e paeselli non sono punteggiati più da insegne di partiti e movimenti. Locali sfitti da tempo o abbandonati si animano solo in occasione di appuntamenti elettorali, soprattutto municipali. È allora che plance e muri compongono caleidoscopi di sigle improbabili, confondendo passanti e cittadini con gallerie interminabili di volti e facce sempre sorridenti. 

A sorridere non è più da tempo l’elettrice o l’elettore. In cerchie sempre più ampie rifiutano di recarsi alle urne. In alcuni casi siamo ormai a uno su due. La tendenza usuale, ma in forme diverse, in altri paesi occidentali, è iniziata per l’Italia nel fatale 1979 e si è fatta inarrestabile. Allora l’assassinio di Aldo Moro annunciò con un decennio di anticipo per il nostro paese, rispetto alla cesura dell’89, la fine di un’epoca e la crisi del sistema politico nato con la Repubblica. L’asticella dell’astensione fece un salto, passando dal 6,6  al 9,4 degli elettori per la Camera dei Deputati. Naturalmente con una accentuazione nelle Regioni meridionali e grazie anche alla moltiplicazione nelle mani e nel cervello degli elettori di schede e appuntamenti elettorali: si celebrano le prime elezioni europee. Da un decennio l’abituale appuntamento elettorale amministrativo ha visto l’aggiunta alle schede per le comunali e le provinciali di quella per l’elezione del Consiglio regionale. È iniziato lo spaesamento tra i vari livelli di potere che intervengono a determinare la vita dei singoli. Col tempo l’elettorato comincia a soffrire in maniera sempre più marcata la perdita di controllo sulle potenze abilitate al controllo e alla conduzione del mondo.

L’inizio però di un nuovo ciclo astensionistico è nel biennio 1991-92: la Repubblica muore mentre Maastricht con i suoi trattati subentra come regolo supremo dei nostri ritmi vitali. L’incapacità a rimediare ad atavici malanni e tare ci costringeranno a pause tecnocratiche: da Ciampi a Monti a Draghi. Lì – in corrispondenza e a commento di quelle parentesi - si registreranno, in continua ed inarrestabile progressione, i nuovi picchi astensionistici, mentre le sigle man mano proposte delle nuove stagioni politiche conosceranno trionfi e cadute repentine. L’astensione diverrà col tempo il partito più gettonato: una scelta spesso assai meditata e dichiarata, con un elettorato fedelissimo e in continua ascesa.

A spadroneggiare – specialmente nelle tornate amministrative - v’è però altro: una frammentazione continua di coalizioni elettorali e liste. Non sempre frutto di creatività locale e a vita limitata: non più di qualche mese. Ad applicarsi e con costanza – nell’esplorazione continua di un «cubo di Rubik» con combinazioni e colori infiniti  - spesso ci sono consorterie assai composite, quasi sempre annidate nei gangli delle istituzioni regionali e negli intrecci, straordinariamente contorti, della ‘governance’ ai più vari livelli: magari nelle infinite combinazioni di privato e pubblico, economia e politica, che con varie stratificazioni orienta, guida e condiziona la vita civile della nazione. Nel Mezzogiorno con una intensità mai toccata. Spesso in combutta con la «società incivile».

La combinazione perversa di astensione e frammentazione produce effetti perversi mai toccati prima. Dalle urne emerge una sorta di «democrazia pilotata» in cui quasi sempre non v’è più garanzia alcuna per la segretezza del voto. E non si tratta solo di fenomeni da paesello. L’analisi del voto anche in città di rilevante grandezza – dai 60 ai 90 mila abitanti, con oltre 50 mila o 80 mila elettori nominali – rivela che, con livelli di astensione oltre il 40% e nel confronto tra coalizioni composte da oltre 7-8 liste, il più delle volte il voto alle varie formazioni rivela una forbice tra il 4 e l’8-9%, con preferenze addensate attorno ad un massimo di 2-3 ‘capibastone’. Grazie anche ad una oculata distribuzione del voto di genere e alla gestione di gruppi privati nelle reti social – WhatsApp imperante – il voto segreto di fatto non esiste più. Illuminante la rilettura del voto di lista scomposto e riletto nella distribuzione tra i vari seggi elettorali e puntualmente annotato dai vari rappresentanti di lista. Il che muove interessi innominabili dotati di cospicue risorse.

Può accadere così che diventi assai indigesto proprio il voto amministrativo, quello in cui la distanza tra governanti e governati è più stretta. Proprio allora, il più delle volte, ci accorgiamo che ci sfugge di mano, conteso da oligarchie ristrette, aduse al peggiore trasformismo. Non è fantascienza, purtroppo. Un Grande Fratello diffuso orienta e governa grazie a frammentazione e astensione gran parte del voto. Specie nel Mezzogiorno. Bisognerebbe prestare maggiore attenzione.

Isidoro Davide Mortellaro

docente di Storia delle relazioni internazionali

Università di Bari «Aldo Moro»

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LA BOMBA SOSPESA

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La bomba sospesa

Pubblicato il 5 giugno 2022 su «pagina21.eu», Rivista della Fondazione Giuseppe Di Vagno

«All’improvviso fui abbagliato da un lampo di luce, seguito immediatamente da un altro … Le ombre del giardino sparirono … gli oggetti si fecero indistinti … Con mio grande stupore, mi accorsi che ero completamente nudo». Con queste parole Michihiko Hachiya avrebbe poi ricordato il 6 agosto 1945l’apocalisse.

Su, in alto, il velo si era squarciato anche agli occhi di Robert Lewis, il secondo pilota dell’Enola Gay, il B-29 che aveva sganciato la bomba: «Dio mio cosa abbiamo fatto!», esclamò alla vista del fungo che divorava Hiroshima.

Il mondo entrò in quell’istante in un’altra era: atomica.

Pochissimi – un pugno di uomini, ma anche una donna – compresero quel tornante della storia. Tra di essi naturalmente Albert Einstein. Con Roosevelt aveva avviato l’innesco di quell’innovazione funesta, concepita comunque come «arma di deterrenza». Aveva invano tentato di fermarne gli sviluppi, quando la guerra, almeno con la Germania hitleriana, appariva vinta. Ora, nel contemplare la catastrofe in Giappone, prova a immaginare il futuro: «se l’umanità vorrà sopravvivere dovrà pensare in modo completamente nuovo».

Auspicio caduto nel vuoto. Pensieri abituali entro nuovi scenari indirizzeranno il mondo per vie nuove sì, ma con segnaletiche inconsuete, marchiate da ossimori folgoranti: «guerra fredda». L’ha coniato Eric Arthur Blair, alias George Orwell. È diventato famoso con La fattoria degli animali. Ora malato, dopo la guerra di Spagna, collabora con «Tribune», settimanale della sinistra laburista. Si appresta a stendere 1984, il racconto sul mondo avveniente. Per Orwell la bomba sospende sul capo dell’umanità una spada fatale, foriera però non solo di possibili crolli, ma anche di epoche assai strane: magari segnate da ««uno Stato invincibile ma che viva al tempo stesso in una perenne condizione di guerra fredda coi propri vicini». Chissà? Forse «porrà fine alle guerre su vasta scala». Però, «il prezzo da pagare sarà quello di prolungare a tempo indefinito una “pace che non è pace”».

Sarà una donna, comunque, a prendere magistralmente le misure del nuovo universo disegnato dalla bomba. È Freda Kirchwey, instancabile animatrice e editrice di The Nation, l’organo che dal 1865 si muove come coscienza critica degli Statesespressione per eccellenza del dissenso.

Per lei l’esplosione dell’atomica impone una «rivoluzione nel pensiero degli uomini e nella loro capacità di reinventare società e politica». In particolare, rispetto all’ONU appena nata a San Francisco. Crede che difficilmente potrà sopravvivere. Come conciliare la nuova realtà della bomba con una struttura delle Nazioni Unite dominata dal cosiddetto potere di veto dei Grandi? Per caso le «Grandi Potenze hanno creato un’organizzazione e fatto leggi da cui esse sono esentate? Non c’è un diritto al quale tutte le nazioni siano egualmente soggette? […] Cosa accade quando uno dei Grandi ha il potere di ridurre il mondo in schiavitù, o in polvere?» Fulminante la conclusione: «Nello spazio di un giorno l’ONU è passata dall’infanzia alla vecchiaia. Adesso deve essere ripensata».

Mai previsione fu più azzeccata, così come mai agenda è stata così lungamente disattesa. La guerra di Putin all’Ucraina, con le minacce di olocausto finale platealmente esibite, ne è prova evidente. Essa costituisce al tempo stesso una novità assai inquietante di cui ancora oggi, dopo i tanto commentati 100 giorni di conflitto, stentiamo a prendere le misure.

Nella lunghissima guerra fredda che ci ha accompagnato dopo la Seconda guerra mondiale e nel XXI secolo, infiniti sono stati i conflitti gestiti direttamente dai Grandi: dalla Corea al Vietnam, al Kosovo, a quelli iracheni o afghani. Solo durante la guerra di Corea, nell’establishment americano vi fu chi, come il generale Douglas MacArthurpropose di utilizzare l’atomica per piegare i cinesi accorsi in difesa della Corea del NordTruman non ebbe esitazioni a licenziarlo in tronco. Il mondo e lo stesso popolo americano non avrebbe perdonato, nelle parole del presidente americano, l’uso dell’atomica «per scopi aggressivi […] un atto ripugnante per tanti americani». Mai in tutte i conflitti successivi si sarebbe affacciato alla mente di americani o sovietici la minaccia persino dell’utilizzo possibile dell’arma finale, per terrorizzare l’avversario o bloccare aiuti e soccorsi nell’altro campo.

In origine si è pensato a riservare l’atomica il più lontano possibile dai patri confini. Almeno fino alla crisi di Cuba, popolata dai missili sovietici. Le disinstallazioni decise alla fine del confronto bipolare liberarono l’isola di Castro, così come la Turchia e il Mezzogiorno d’Italia di basi e missili puntati sul campo avverso. Successivamente, alla fine degli anni ’70, si è pensato a strategie più flessibili. Anche allora, dopo Cuba, errore strategico fondamentale della dirigenza sovietica.

Helmut Schmidt e Giscard d’Estaing stavano prendendo le distanze dagli USA sconfitti in Vietnam e piegati dal Watergate. Avevano pensato il G7 come morbida gabbia per gli americani. Il dispiegamento degli SS20 sovietici spaventò Schmidt (e Cossiga) che chiesero la copertura degli euromissili a stelle e strisce, riportando l’Europa occidentale tutta sotto l’ombrello di sicurezza americano. L’ultimo capitolo fu inaugurato dagli USA di Reagan con il ricorso allo scudo spaziale. Un’arma davvero finale, pensando a come la corsa allora impressa al riarmo ha stremato dapprima e poi piegato l’URSS, utilizzata poi a piene mani nella lunga stagione della guerra al terrorismo e della prevenzione rispetto agli Stati canaglia.

A minacce e utilizzi ancor più ravvicinati si è cominciato a pensare man mano che il Club atomico si ampliava. Paradossali le scelte di India e Pakistanstati confinanti che si minacciano con l’atomica. Come difendere poi se stessi dal fungo e dalle nubi radioattive? Un mistero.

Altrettanto per lsraelepossesso, mai ammesso, di oltre 200 atomiche. Per eternare nei confronti degli stati arabi confinanti la biblica minaccia del «Muoia Sansone con tutti i Filistei»? Vera e propria minaccia finale per tutti i contendenti?

Ancor più disperanti gli interrogativi sulla rincorsa suicida di Corea del Nord e Iran.

Con la guerra in Ucraina la Russia di Putin ha aperto una pagina inedita. Non solo per la minaccia sospesa sul capo del mondo e dei propri vicini: un pezzo dell’eterna Russia, addirittura. Cosa ne sarebbe anche dei paesi confinanti o anche delle regioni russe limitrofe non è dato sapere. Quel che adesso qui importa sottolineare è il ricatto esercitato sugli alleati dell’Ucraina: badate a quel che fate, alla quantità e alla qualità degli aiuti inviati. Potremmo considerarli armi offensive, una vera e propria dichiarazione di guerra. Per non parlare del veto esercitato in sede di Consiglio di sicurezza ONU. Di fatto, in questo modo è bloccata ogni iniziativa di pace.

All’ombra del ricatto atomico l’agenda della guerra e della pace finisce così interamente nelle mani di Vladimir Putin che, non a caso, ora prova ad amministrare a suo piacimento anche modalità, rotte e dimensioni del commercio agro-alimentare globale.

Freda Kirchwey aveva visto giusto nel lontano 1945. Purtroppo, è rimasta inascoltata per troppo tempo. Atomica e veto in Consiglio di sicurezza possono divenire clave di incredibile potenza in mano oligarchica. La bomba sospesa da Putin sul capo del mondo è davvero altra cosa dal «caffè sospeso» in uso nei vicoli di Napoli.

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QUELLA BOMBA SOSPESA DI PUTIN

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QUELLA BOMBA SOSPESA DI PUTIN

(Pubblicato sulla «Gazzetta del Mezzogiorno» del 5 giugno 2022 con il titolo "Quella bomba sospesa di Putin che angoscia il mondo dalla «profezia» del 1945)

«All’improvviso fui abbagliato da un lampo di luce, seguito immediatamente da un altro … Le ombre del giardino sparirono … gli oggetti si fecero indistinti … Con mio grande stupore, mi accorsi che ero completamente nudo». Con queste parole Michihiko Hachiya avrebbe poi ricordato il 6 agosto 1945, l’apocalisse. Su, in alto, il velo si era squarciato anche agli occhi di Robert Lewis, il secondo pilota dell’Enola Gay, il B-29 che aveva sganciato la bomba: «Dio mio cosa abbiamo fatto!», esclamò alla vista del fungo che divorava Hiroshima. 

Il mondo entrò in quell’istante in un’altra era: atomica. Pochissimi - un pugno di uomini, ma anche una donna - compresero quel tornante della storia. Tra di essi naturalmente Albert Einstein. Nel contemplare la catastrofe in Giappone, prova a immaginare il futuro: «se l’umanità vorrà sopravvivere dovrà pensare in modo completamente nuovo».

Auspicio caduto nel vuoto. Il mondo s’avviava per vie nuove sì, ma con segnaletiche marchiate da ossimori paradossali: «guerra fredda». L’ha appena coniato Eric Arthur Blair, alias George Orwell. Si appresta a stendere 1984, il racconto sul mondo avveniente. Dovremo abituarci magari ad ««uno Stato invincibile ma che viva al tempo stesso in una perenne condizione di “guerra fredda” coi propri vicini … il prezzo da pagare sarà quello di prolungare a tempo indefinito una “pace che non è pace”». 

Sarà una donna, comunque, a prendere magistralmente le misure del nuovo universo disegnato dalla bomba. È Freda Kirchwey, instancabile animatrice e editrice di «The Nation», l’organo che dal 1865 si muove come coscienza critica degli States, espressione per eccellenza del dissenso.Per lei l’esplosione dell’atomica impone una «rivoluzione nel pensiero degli uomini e nella loro capacità di reinventare società e politica». In particolare, rispetto all’ONU appena nata a San Francisco.  Come conciliare la nuova realtà della bomba con una struttura delle Nazioni Unite dominata dal cosiddetto potere di veto dei Grandi? Per caso le «Grandi Potenze hanno creato un’organizzazione e fatto leggi da cui esse sono esentate? Non c’è un diritto al quale tutte le nazioni siano egualmente soggette? … Cosa accade quando uno dei Grandi ha il potere di «ridurre il mondo in schiavitù, o in polvere»? Fulminante la conclusione: «Nello spazio di un giorno l’ONU è passata dall’infanzia alla vecchiaia. Adesso deve essere ripensata».

Mai previsione fu più azzeccata, così come mai agenda è stata più a lungo disattesa. La guerra di Putin all’ Ucraina, con le minacce di olocausto finale platealmente esibite, ne è prova evidente. Essa costituisce al tempo stesso una novità assai inquietante di cui ancora oggi, dopo i tanto commentati 100 giorni di conflitto, stentiamo a prendere le misure.

Nella lunghissima «guerra fredda» che ci ha accompagnato dopo la II guerra mondiale e nel XXI secolo, infiniti sono stati i conflitti gestiti direttamente dai Grandi: dalla Corea al Vietnam, al Kosovo, a quelli iracheni o afghani. Mai però si è passati alla minaccia atomica contro il nemico. Solo durante la guerra di Corea, nell’establishment americano vi fu chi, come il generale Douglas MacArthur, propose di utilizzare l’atomica per piegare i cinesi accorsi in difesa della Corea del Nord. Truman lo licenziò in tronco. 

Con la guerra in Ucraina la Russia di Putin ha aperto una pagina inedita. Non solo per la minaccia sospesa sul capo del mondo e dei propri vicini: un pezzo dell’eterna Russia, addirittura. Cosa ne sarebbe anche dei paesi confinanti o anche delle regioni russe limitrofe non è dato sapere. Quel che adesso qui importa sottolineare è il ricatto esercitato sugli alleati dell’Ucraina: badate a quel che fate, alla quantità e alla qualità degli aiuti inviati. Potremmo considerarli armi offensive, una vera e propria dichiarazione di guerra. Per non parlare del veto esercitato in sede di Consiglio di sicurezza ONU. Di fatto, in questo modo è bloccata ogni iniziativa di pace. 

All’ombra del ricatto atomico l’agenda della guerra e della pace finisce così interamente nelle mani di Vladimir Putin. Non a caso, egli ora prova ad amministrare a suo piacimento anche modalità, rotte e dimensioni del commercio agro-alimentare globale.

Freda Kirchwey aveva visto giusto nel lontano 1945. Purtroppo è rimasta inascoltata per troppo tempo. Atomica e veto in Consiglio di sicurezza possono divenire clave di incredibile potenza in mano oligarchica.

La «bomba sospesa» da Putin sul capo del mondo è davvero altro dal «caffè sospeso» in uso nei vicoli di Napoli. 

Isidoro Davide Mortellaro

Docente di Storia delle relazioni internazionali

Università di Bari «Aldo Moro»

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VISIONI E OSSESSIONI DI UNO ZAR DEL TERZO MILLENNIO

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VISIONI E OSSESSIONI 

DI UNO ZAR DEL TERZO MILLENNIO

(Pubblicato sulla «Gazzetta del Mezzogiorno»  del 21 aprile 2022 con il titolo "Visioni e ossessioni di uno Zar del Terzo Millennio)

L’ingombro dell’URSS e del comunismo nella storia del Novecento, assieme alla lunga ed estenuante querelle sull’allargamento della Nato, hanno quasi sigillato al secolo scorso la nostra visione d’Europa e della Russia. Stentiamo perciò spesso a cogliere in tutta la loro portata le mosse di Putin nel mutato quadro europeo ed internazionale. Di qui i tanti interrogativi spesso suscitati dalle sue azioni e l’ansia suscitata dal loro carattere quasi sempre ultimativo, se non fatale.

In realtà, gli orizzonti sono completamenti mutati. Né è più tempo di «guerra fredda». La frequenza con cui viene ormai evocato o persino minacciato il ricorso all’atomica, più o meno tattica, ci fa temere che  quell’epoca, con le sue cautele, sia ormai sepolta. Il terrore di immani distruzioni è tra noi, ma mosso ormai da altre visioni, da altri disegni. In realtà, poco conosciuti, se non da ristrettissime schiere di esperti. 

Troppo spesso proiettiamo su Putin l’ombra sovietica. Ma i cieli ormai sono altri. Indagati da altri sguardi e visioni, magari mutati profondamente durante il nuovo ciclo presidenziale del nuovo «Zar di Russia», per stare all’etichetta ormai abitualmente affibbiatagli.

A partire dal 2012, inizio del nuovo ciclo presidenziale – allungato a 12 anni e ora aperto al raddoppio – matura una svolta profonda. L’ossessione iniziale di conservare l’universo russo, dopo i timori per la dissoluzione possibile del dopo-Eltsin, muta in esplicite teorizzazioni di Eurasia. Ad evocarla come sorgente di virtù incontaminate - in contrapposizione all’Occidente decaduto, senza più regole, perso nelle dissolutezze di una morale post-cristiana - provvede da tempo in Russia una folta schiera di intellettuali ed esperti.  Si rifanno in genere agli insegnamenti non solo della Chiesa ortodossa ma di una serie di teorici della destra storica russa, cresciuta in esilio, vicina al fascismo italiano e al nazismo tedesco. Parliamo per il passato di Ivan Ilyin o di tradizionalisti come Nikolaj Berdjaev. A loro si ispirano nella Russia del XXI secolo circoli intellettuali quali l’Izborsk Club o il Valdai Discussion Club, quest’ultimo omaggiato da interventi annuali di Putin. Entrambi questi think-tank, animati da figure di destra dichiarata quali Aleksander Prochanov o Aleksander Dugin, già noto per le sue frequenti incursioni in Italia, vedono nella tradizione russa la sorgente per una riorganizzazione complessiva di una comunità allargata dall’Oceano Pacifico fino alla malaticcia penisola europea ad Occidente. Riecheggiando le idee di Carl Schmitt su terra e mare, rivisitate da Dugin, contemplano l’eterna lotta tra il sano e virtuoso popolo della terra contro il popolo del mare, degenerato per le sue innominabili ibridazioni e frequentazioni. 

A questo universo si ispira l’ultimo Putin. La svolta nel documento ufficiale di politica estera, il Foreign Policy Concept del 18 febbraio 2013, da allora riproposto negli assi fondamentali ogni anno. In un futuro dominato dai processi di globalizzazione e da caos e lotta per l’accaparramento delle risorse, è necessario riconquistare grandi spazi adeguati a preservare patrimoni, giacimenti di cultura e civiltà. Di qui la necessità di garantire rapporti e legami nell’intera area euro-asiatica. Di fatto, in una rilettura militante dello «scontro di civiltà» teorizzato all’indomani della guerra fredda da Samuel Huntington, Putin fa virare la geopolitica classica in una sorta di crociata contro l’Occidente e l’Europa decadenti. Il tutto mascherato dalla guerra al neonazismo risorgente che muoverebbe all’attacco dell’universo russo.

Ma come sostenere questa epica battaglia alla testa di una società come quella russa, guidata oggi da un manipolo di siloviki corrotti fin nel midollo? Un apparato pubblico centrale mutato da tempo in cleptocrazia istituzionalizzata dedita all’esportazione di immense ricchezze  nascoste ai quattro angoli della terra alle possibili ganasce dello Stato russo? Come combattere la corruzione del mondo e dell’Occidente stando alla testa dell’oligarchia più corrotta del pianeta? 

Anche questa incongruenza gigantesca indebolisce l’attacco di Putin all’Ucraina. E non solo l’inaspettata resistenza di un popolo. Come finirà è assai arduo prevederlo. Per parte nostra sta ai nostri concreti comportamenti mostrare la falsità dei giudizi di Putin e della destra russa. Con la costruzione di una Europa solidale con tutti gli ultimi del mondo. Senza illusioni nelle virtù salvifiche di spese militari drogate da fumi di guerra. 

 Isidoro Davide Mortellaro

docente di Storia delle relazioni internazionali

Università di Bari “Aldo Moro”

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ATOMICA E "PACE PERPETUA"

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Atomica e “pace perpetua”

(Pubblicato il 31 marzo 2022 su «fuoricollana.it»)

Siamo ancora in un mondo governato dalla Carta delle Nazioni Unite? Ci orientiamo ancora tutti su quell’altra bussola guadagnata tempo fa per navigare nel nostro tempo?

Gli annali della NATO-OTAN ci dicono che all’alba degli anni Cinquanta si lavorò molto per trovare un emblema confacente alla nascente organizzazione. Stalin già a fine 1949 aveva fatto deflagrare la prima atomica sovietica, sorprendendo gli americani che avevano pensato di avere un vantaggio strategico di almeno 10 anni nella corsa al nucleare.

Sorpresi dallo sbocciare del fungo mortale e dal quasi contemporaneo scoppio della guerra in Corea, sulle due coste dell’Atlantico ci si affrettò perciò per dar corpo e sostanza militari a quel Trattato del Nord Atlantico firmato a marzo 1949, sotto l’urto del blocco di Berlino e del successivo ponte aereo. Ci volle però un bel po’ per trovare un simbolo adatto. Una idea originaria di Eisenhower si affaticò su un insieme di stellette. Si scontrò con l’obiezione, invero fondata, di variazioni successive nel caso augurabile di un allargamento della platea di nazioni aderenti. E così, dopo varie ricerche e proposte, solo nell’ottobre del 1953 si giunse alla soluzione. Fu Lord Ismay, primo segretario dell’organizzazione a suggerire l’immagine stilizzata di una rosa dei venti o bussola: l’ideale per orizzontarsi nella ricerca della pace. Tutto racchiuso entro un cerchio utile a garantire l’unità dei vari firmatari del patto.

Insomma, fin dagli inizi un emblema, uno strumento progettato per epoche assai tempestose. Allora come oggi necessario per mantenere la rotta tra marosi e burrasche. Un marchingegno di cui si sente un gran bisogno oggi, in altro secolo e millennio, mentre infuria una guerra in cui si fa ormai giornaliero ricorso alla minaccia dell’atomica o d’altre armi assai micidiali.

La decisione di Putin di muover guerra all’Ucraina è stata condita fin dall’inizio dal ricorso a misure ultime: «chiunque tenti di ostacolarci, e ancor di più di creare minacce per il nostro Paese, per il nostro popolo, deve sapere che la risposta della Russia arriverà immediatamente e porterà a conseguenze che non avete mai visto nella storia». Così nell’annuncio fatale del 24 febbraio. Da allora titoli e resoconti di giornali e social-network, così come i lanci di TG e talk show, sono zeppi di ricorsi a scenari catastrofici. Da tempo vediamo moltiplicarsi sugli schermi di computer e TV nubi o funghi malefici. Così come siamo angosciati dal vedere che altrove, in trasmissioni televisive, la minaccia del ricorso alla soluzione finale può  divenire materia diretta per l’intrattenimento televisivo: «I Polacchi debbono sapere che in trenta secondi non resterebbe più nulla di Varsavia», si è gridato nel corso di una diretta di «Rossyia 1».

Il giorno dopo i giornali di tutto il mondo hanno fatto a gara nel rilanciare notizia e interrogativi. Unitario il ricorso alla riproposizione globale dell’interrogativo fatale: “Rethinkink the Unthinkable”? “Ripensare l’Impensabile”? Con tanto di inevitabile rinvio al suo autore: a quel “Thinking the Unthinkable”, dovuto alla penna di Herman Khan, scienziato e ricercatore della Rand Corporation, che per primo e in solitaria aveva pensato a come rendere possibile il ricorso ad un first strike ultimativo, un «primo colpo» al di fuori delle costrizioni della deterrenza nucleare, senza la sicura garanzia dell’annichilimento generale. Sforzo vano, rimasto fortunatamente confinato in un malefico libro dei sogni che ha popolato le biblioteche del mondo e guadagnato all’autore l’immortalità nel capolavoro di Stanley Kubrick: Il dottor Stranamore.

Da allora i richiami alla possibile mutua distruzione dell’umanità come conseguenza di azzardi nella vicenda ucraina si sprecano. Conditi però ora da molteplici enumerazioni di ben altre fatali occorrenze. Che succede nel caso si usi – come sembra già accaduto e per più volte – il fosforo bianco? E se si fa ricorso ad altri composti chimici? Qualcuno potrebbe pensare ad armi batteriologiche? E se queste sfuggissero da questo o quel laboratorio?

Il tutto accompagnato da tante avvertenze sulle soglie già varcate, sul fatto che i russi sono stremati: la situazione sta loro sfuggendo di mano, non vi sono più apparenti vie d’uscita. Si paventa ormai anche la possibilità che, nel tentativo di trovare una rapida soluzione, una scorciatoia, vengano azzardate mosse estreme: e se provano infine a passar parola all’atomica? Non quelle micidiali proiettate all’altro lato del mondo dai vettori intercontinentali. Magari si sgancia qualche bomba “tattica”: un multiplo modesto – per dir così – dei funghi sbocciati su Hiroshima o Nagasaki …

E via alla giostra su giornali e TV. La parola passa subito agli esperti. Vi è bisogno di orizzontarsi seriamente. È l’ora delle stellette, degli strateghi d’ogni indirizzo e cultura. Il tutto però tradotto nel linguaggio immediato dei talk show, condito magari e ad intermittenza da lazzi e lanci pubblicitari. Lo spettatore o il lettore comune fa fatica ad orizzontarsi, a destreggiarsi con cartine e mappe complicate, sigle astruse. Poi all’improvviso cade la menzione per qualche venticello fatale. E allora anche il termine più astruso, più strambo – “spill-over” – si illimpidisce e rivela i suoi risvolti mostruosi. Che succede e dove se nell’attimo fatale in cui si sgancia un composto chimico, batteriologico o atomico – “tattico”, per carità – su qualche angolo di Ucraina, il vento spira da Ovest?  E se non è Tramontana, con strascichi sul Mar Nero, ma Libeccio? O Ponente? Tutto rischia di tornare indietro, di rivoltarsi contro, verso la casa di chi ha sganciato?

Allora anche il lettore meno acculturato, lo spettatore meno smaliziato comprende, trasale e rabbrividisce. Alle nostre latitudini, nel Mezzogiorno, ne abbiamo già fatto esperienza. In buona parte d’Europa abbiamo già conosciuto questi venti e questi annunci col disastro di Chernobyl. Vietato andare per boschi a raccogliere funghi. Meglio lasciar perdere verdura e finocchi. Sui campi è calata una nebbiolina di incerta natura. Meglio esser prudenti. In Francia si si ricorda ancora dello scandalo e dei brutti quarti d’ora rimediati allora da Chirac e Sarkozy per colpa dei servizi metereologici nazionali. Sicuri avevano annunciato che la nube radioattiva non aveva valicato le alture francesi. Ancora oggi grava il peso delle accuse e dei dubbi del tempo.

Non vi sarebbe spazio adesso se non per malinconici o mesti sorrisi. Solo che a turbare ora i nostri sonni stanno news assai inquietanti. A infoltire la chiacchiera usuale ci si sono messe le notizie dalle riunioni dei Grandi riuniti in consessi emergenziali. Sono stati giorni di sfilate e discorsi memorabili ai vertici di Nato, Unione Europea e Gruppo dei 7. Dai retrobottega in gran fermento di quei meeting sono venute notizie assai allarmanti. Ci dicono che si è pensato di modificare i paragrafi dei documenti relativi alla cosiddetta “postura strategica”. Insomma, si sarebbe pensato a quali risposte brandire nel caso qualche malaugurata nube chimica, radioattiva o atomica superi il confine ucraino e raggiunga terre “atlantiche”? Magari in Polonia o sul Baltico? La risposta sembra vaga. Perciò assai inquietante: “Ogni utilizzo da parte russa di armi chimiche o biologiche sarebbe inaccettabile e provocherebbe severe risposte … Stiamo accelerando la trasformazione della Nato rispetto ad una situazione strategica più pericolosa … rafforzando la nostra capacità di deterrenza»: queste le parole adoperate nel comunicato ufficiale pubblicato alla fine del vertice NATO Insomma, adesso non è più solo Putin a minacciare il ricorso a misure estreme. Lo si contempla ormai da ogni versante.

Il tutto mentre all’ONU appaiono bloccati tutti gli strumenti di intervento. La Russia si fa forte del suo voto in Consiglio di sicurezza ed esercita spregiudicatamente il cosiddetto «potere di veto». Non rimane spazio che per solenni ma inconcludenti risoluzioni dell’Assemblea generale, dimidiate ulteriormente dal ricorso all’astensione di realtà fondamentali: prime fra tutte, Cina e India. E allora diventa inevitabile interrogarsi sul tempo che viviamo, su questo XXI secolo.

Siamo ancora in un mondo governato dalla Carta delle Nazioni Unite? Ci orientiamo ancora tutti su quell’altra bussola guadagnata tempo fa per navigare nel nostro tempo? Su quell’altra regola, su quel comandamento supremo solennizzato alla fine del secondo conflitto mondiale? «Salvare le future generazioni dal flagello della guerra»?

Per noi Italiani, intanto vale ancora? Come ci muoviamo? Ci riconosciamo ancora, anche noi, in quel Trattato di non proliferazione nucleare firmato nel 1968 e finora ratificato da quasi 190 stati sovrani? Non ci siamo forse anche noi impegnati (in base all’articolo II) a non accettare il trasferimento sul nostro suolo di qualsiasi arma nucleare? E allora perché mai ospitiamo nelle basi di Aviano e Ghedi tra 70 e 90 atomiche cosiddette “tattiche”, marchiate a «stelle e strisce», nell’ambito del programma di condivisione della deterrenza nucleare NATO?

Ancora: perché mai – assieme a tutte le potenze atomiche e a quella aderenti alla Nato e poche altre – anche noi Italiani non abbiamo ancora firmato il Trattato per la proibizione delle armi nucleari? Non è stato forse sottoscritto già da 129 nazioni e 7 organizzazioni internazionali? Non è forse già entrato in vigore il 22 gennaio 2021? È così che rispettiamo quel «ripudio della guerra» sancito nell’art. 11 della nostra Carta fondamentale?

Sarebbe forse il caso allora di mettere a frutto una lezione che ci è stata impartita proprio dall’Ucraina. Un precedente purtroppo relegato in qualche libro di storia (anzi, non in molti libri di storia e soprattutto dimenticato oggi nelle cronache quotidiane dei nostri giorni terribili). Pochi ricordano che gli Ucraini, sia pure divisi da lingue e culture diverse e qualche volta contrapposte, hanno saputo in frangenti difficilissimi assumere decisioni esemplari. Oggi sono sommersi da fuoco e ceneri micidiali. Sarebbe veramente assurdo se questa catastrofe fosse la risposta alla decisione presa nel 1991 quando l’Ucraina, nel dar vita assieme a Bielorussia e Federazione Russa alla CSI (Comunità degli Stati Indipendenti), rinunciò, con l’aiuto logistico e finanziario degli USA, a migliaia di ogive e vettori nucleari. Furono allora tutti ceduti alla Russia di Eltsin o utilizzati come combustibile nelle varie centrali atomiche nazionali. È il caso di non dimenticare mai che quel micidiale armamentario, ereditato dalla dissoluzione dell’URSS, costituiva allora il terzo arsenale atomico del mondo per numero di testate e potenza. Ancor oggi farebbe dell’Ucraina un pilastro della deterrenza globale.

Forse è il caso di disporsi con ben altra disponibilità ad apprendere da questi passaggi fondamentali di vicende relegate in angoli remotissimi di una memoria troppo spesso tribalizzata da una comunicazione frettolosa e strumentale. È in questi frangenti che la storia torna ad esser utilmente maestra.

(Una anticipazione, assai più breve, di questo contributo è stata pubblicata sulla «Gazzetta del Mezzogiorno» del 27 marzo 2022)

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LO SGUARDO DI PUTIN

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Lo sguardo di Putin

(pubblicato su «Fuori collana» 1 aprile 2022

Nel mirino l'accerchiamento calamitoso dell'Occidente: «Il collasso dell’Unione Sovietica è stato il maggiore disastro geopolitico del XX secolo». Ma «abbiamo saputo risollevarci», individuando nuovi vettori di sviluppo nella salvaguardia dei valori autenticamente russi».

Smarrimenti e incertezze
Sprofondiamo ormai da tempo. A precipizio, sia pure con attriti assai urticanti. Ancora impossibile valutare profondità e ampiezza della voragine aperta dell’89 e dai suoi vari post, con le loro scansioni del nostro ingresso nel Terzo Millennio. Né va meglio con l’esame puntuale di cause e antecedenti. Anche quando scevri da ogni malaccorta e sia pure inevitabile nostalgia per il «bel tempo andato»: «quando partiti e sindacati erano vivi …, un tempo ci si muoveva nelle sicure geografie di destra e sinistra. …. ecc ecc».
Arranchiamo a comprendere soprattutto se e come riusciremo a tradurre in soggettività politica, più o meno organizzata, l’immensa socialità profusa a piene mani nell’inesausta artificializzazione del mondo che ci circonda. L’abbiamo dissolto nei bit di una comunicazione infinita e negli atomi di un post-umano in perpetua interrogazione dell’ignoto. Ma lungi dal librarci nella libertà sconfinata promessa dal neoliberismo, corriamo verso una catastrofe ambientale, quando non finiamo prigionieri di inedite e mortificanti tribalizzazioni. Sono il frutto di una socialità eccitata da una individualizzazione senza freni, che puntualmente ci condanna al ruolo di apprendisti stregoni, vittime predestinate delle proprie macchinazioni. Quando la giostra si acqueta, puntuali e forzute si fanno avanti formule antiche, coriacee, con la loro offerta di ancoraggi sicuri alla mobilità e all’insicurezza picare e zingaresche delle reti: familismo, nazionalismo, sovranismo tutte dotate di solidi scettri, con autorità riconosciute, paternità onnipotenti.
Arranchiamo ancor più dal 24 febbraio, presi dal vortice di una «terza guerra mondiale». Al pari delle altre due, iniziata come «guerra civile europea». Come tale concepita e annunciata da Putin: una «operazione militare speciale» in un pezzo di mondo, l’Ucraina, che «è una parte inalienabile della nostra storia, cultura e spazio spirituale … i nostri compagni, le persone a noi più care – non solo colleghi, amici e persone che hanno servito insieme, ma anche parenti, persone legate dal sangue, dai legami familiari». Il tutto promettendo, a chi volesse opporsi, «conseguenze che non avete mai visto nella storia». E per non lasciar dubbi: «Siamo pronti per qualsiasi scenario. Tutte le decisioni necessarie al riguardo sono state prese, spero di essere ascoltato».
L’«impensabile» – l’«unthinkable» di Herman Khan, lo stratega della Rand Corporation immortalato come «Stranamore» da Stanley Kubrik – è tra noi. È divenuto incubo quotidiano, titolo di testa d’ogni giornale o annuncio televisivo. Radicato in uno scenario altro da quelli che hanno contornato le due catastrofi del XX secolo. Ora ci muoviamo in una geografia terremotata dall’innovazione radicale annunciata nel 1990 dall’allora segretario di Stato americano, James A. Baker III: «gli USA sono e resteranno una potenza europea». L’impegno, l’hanno mantenuto: nella Bosnia e nel Kosovo, sulla spinta innanzitutto delle divisioni e dell’ignavia europee. Su quelle onde hanno poi consolidato il loro ruolo di colonna portante dell’ordine continentale, saldi alla guida di una Nato divenuta faro e calamita nella disgregazione complessiva dell’Est europeo. Come dimenticare la discussione e lo scandalo suscitati nel 2003 dalle due contrapposte etichette apposte da Donald Rumsfeld alla Old Europe – Francia e Germania, soprattutto, dubbiose sulla proclamata «guerra al terrorismo» e sull’avveniente avventura irachena – e alla New Europe: l’ampio stuolo di paesi, nuovi membri o candidati, ansiosi di contribuire all’allargamento della Nato?
È al cuore di questa Europa che Putin mira quando scatena il maglio dell’aggressione all’Ucraina. Nel mirino l’accerchiamento calamitoso esercitato dall’Occidente, ad un tornante della storia in cui s’affollano liste e pressioni dei nuovi attori globali. Le parole impiegate negli annunci di guerra sono chiare: «Mentre la NATO si espande a est la situazione per il nostro Paese peggiora sempre di più, diventando pericolosa … Questa presenza a est sta nutrendo nei territori storicamente affini alla Russia un sentimento di ostilità verso la nostra Patria. Si tratta di territori posti sotto il pieno controllo esterno fortemente plasmato dalle forze della NATO. Questa situazione porta la Russia di fronte un bivio: vita o morte? Da questa decisione dipende il nostro futuro, come Stato e come persone … C’è in gioco la sovranità della Russia. La linea rossa, citata diverse volte, è stata superata. Loro l’hanno superata». Il tutto condito da ricostruzioni circa la capacità ucraina di padroneggiare l’energia nucleare, appresa in età sovietica, e di poterla ora riattivare con l’aiuto atlantico: «Se l’Ucraina ha un’arma di distruzione di massa, la situazione nel mondo cambierà drasticamente, soprattutto per noi» (così l’annuncio in tv dell’attacco all’Ucraina il 24 febbraio).
Lo scenario disegnato a teatro della decisione fatale è ultimativo e senza scappatoie. Vale la pena allora di provare a fermarsi un istante per comprendere meglio i timori che lo sommuovono e i disegni che se ne dipartono. Almeno per provare a non perdere orientamento e speranza.

Affreschi istituzionali e tentazioni geopolitiche
Doveva terminare la storia in quel fatale 1989 o magari distendersi in una lunga, interminabile stagione neoliberale. E invece hanno preso avvio scossoni e terremoti che hanno reso assai accidentato il passaggio al XXI secolo: Guerra del Golfo, fine dell’URSS, disintegrazione jugoslava, Bosnia, Kosovo. L’11 settembre ha poi fatto da porta ad un Terzo Millennio che non ci ha risparmiato né crisi finanziarie sconvolgenti né guerre: da quella impossibile «al terrorismo», alla seconda interminabile in Afghanistan, alla seconda guerra del Golfo nel 2003, per passare poi a Libia, Siria, o ai vari conflitti civili o variamente colorati su e giù per il globo, soprattutto a Sud. Fino ai tragici, ripetuti annunci di Papa Francesco «sulla Terza Guerra Mondiale a pezzetti».
Dall’89 ad oggi l’intero nostro presente è di fatto mappato, contornato da guerre: raramente con timbro ONU. Tutte con le loro etichette epocali, con i loro ossimori. Due tra tutte: «guerra umanitaria», «guerra al terrorismo». Sempre e solo «guerre celesti», quasi sempre a guida o conduzione «a stelle e strisce». Tutte ossessionate e istruite dall’esperienza vietnamita, dalla sconfitta e dalle perdite dolorosissime lì rimediate, e in parte da quella vista – e in un qualche modo sobillata – nell’Afghanistan invaso dall’URSS. Unico il comandamento messo a frutto: condurre possibilmente il tutto a distanza di sicurezza: ‘celestiale’, persino. E nelle forme più rapide: magari per ripristinare diritti nella paradossale negazione di quello fondamentale alla vita. Il tutto per risparmiare perdite e dolori al proprio campo. Tragiche illusioni pagate a carissimo prezzo. Basti pensare all’Afghanistan, il conflitto durato più a lungo nella storia USA. Soprattutto basta riflettere sul riflesso, sul rinculo domestico di quelle guerre: amplificazione e incrudelimento della «guerra civile», di quelle «cultural war» che da decenni – almeno dalla stagione della lotta per i diritti civili – scuotono e polarizzano la società americana; accentuazione ovunque del senso di smarrimento e insicurezza, corsa al rifugio – illusorio e impotente, il più delle volte – di nazionalismi e sovranismi.
Meno nota – magari appena evocata ma relegata in un angolo – la mappa delle guerre che hanno scandito la metamorfosi sovietico-russa e, soprattutto, l’ascesa di Vladimir Putin. L’elenco è noto: due interventi in Cecenia, fino al 2009, poi l’impegno in Georgia, con il riconoscimento come entità indipendenti di Abkazia e Ossezia del Sud (applicando il modello occidentale del Kosovo, gestito anche dalla Russia con la com-partecipazione alla Kosovo Force), l’intervento in Crimea (applicato richiamandosi all’intervento americano in Iraq), quello in Siria e infine in Kazakhistan. Il tutto giustificato dalla necessità di garantire la tenuta del tutto, spesso costellato dall’intervento di servizi e forze di sicurezza in emergenze non sempre limpide e comunque indirizzato – soprattutto nei primi anni Duemila – alla costruzione di una salda leadership di governo. Sono quelli gli anni più bui della presidenza eltsiniana e della devastazione oligarchica del paese.
Con perseverante applicazione la guerra è stata costantemente impugnata a strumento principe per preservare e conservare l’intero. Ma anche – e soprattutto – a colonna portante di una riscrittura dall’alto delle regole di convivenza in un organismo complesso sottoposto a tensioni inaudite, paventate ai primi passi della neonata CSI come dissoluzione imminente. La frammistione continua tra guerra e separatismi – ora avversati, si pensi alla Cecenia; ora promossi, Abkazia e Ossezia o più recentemente Crimea o Donetsk e Lugansk – di fatto si è affermata come elemento cardine di quella costruzione della «democrazia sovrana» o «democrazia gestita», secondo la traduzione di Timothy Snyder, che costituisce l’elemento distintivo del putinismo: una riscrittura sistemica delle regole istituzionali che dall’alto ha irregimentato la dialettica sociale e ridisegnato convenienze e opportunità del sistema economico. L’anarchia di oligarchie, il più delle volte a formazione e struttura regionali, dedite al saccheggio delle risorse e del patrimonio pubblico è stata lentamente ma decisamente destrutturata, per riorientarla nella decisa affermazione di una cleptocrazia istituzionalizzata a vari livelli, contigua allo Stato. Il tutto per effetto di uno scontro formidabile sostenuto in forme molteplici tra gli oligarchi dell’epoca eltsiniana, variamente legati spesso a organizzazioni criminali, e la classe dei “siloviki”, uomini d’apparato, spesso provenienti dai servizi o in senso lato da settori della sicurezza statale, ricollocati nei gangli fondamentali dell’amministrazione pubblica, deputata istituzionalmente alla ristrutturazione di ampi settori produttivi: riorganizzazione generale, fortemente centralizzata, di finanza, industria estrattiva e pesante, media, produzione di armi ecc.
La riconquista di una certa stabilità istituzionale è divenuta perciò la chiave per una parziale ricucitura sociale che ha permesso – sia pure nella parossistica esaltazione di straordinarie diseguaglianze sociali – la diffusione e lo sviluppo di un consumismo vagamente orientato a modelli occidentali, fondativo di ampie fasce di ceto medio. Il balzo delle quotazioni del petrolio (da 35 dollari per barile fino a 150) proprio all’alba della prima presidenza Putin fu manna dal cielo. Nel frattempo si iniziava a rimodellare ampiamente dall’alto l’armatura istituzionale, costruendo la cosiddetta «verticale del potere»: revisione della legge elettorale con innalzamento della soglia di sbarramento, riorganizzazione a maglie larghe del sistema federale e dei vari governatorati, ora di nomina presidenziale, sottomissione al parere del presidente dell’intero percorso legislativo, rivisitazione del sistema politico, con la tappa fondamentale della fondazione del partito putiniano «Russia Unita». A vari livelli si iniziava a picconare decisamente il sistema di formazione delle oligarchie regionali, riportando sotto il controllo centrale gangli fondamentali della vita pubblica e della regolazione politico-economica.
Sono anni in cui le essenziali cure di governo – spesso militari – sono tutte rivolte all’interno, finalizzate alla conquista di stabilità e sviluppo. In politica estera si afferma una linea attendista. Non vengono sottaciuti appunti e critiche al modo in cui la dissoluzione del vecchio blocco di Varsavia e di parti dell’ex URSS lentamente vengono a disporsi nell’Unione Europea o nella Nato che si allargano ad Est. Ma esse sono di fatto composte entro forme di consultazione e collaborazione, più o meno istituzionalizzate. Putin non ha mai minimamente messo in discussione le formule di cooperazione ereditate da Eltsin, in particolare l’ Euro-Atlantic Partnership Council (1991), il programma di Partnership for Peace (1994) oppure il fondamentale Founding Act on Mutual Relations, Cooperation and Security firmato a Parigi nel maggio 1997 fondativo del Permanent Joint Council. Anzi, dopo l’11 settembre 2001, la Russia concede l’utilizzazione del suo spazio aereo alla coalizione internazionale impegnata nella campagna in Afghanistan e, soprattutto, nel maggio del 2002 al Summit Nato di Roma viene raggiunto un accordo complessivo per dar vita al Nato-Russia Council allo scopo di combattere il terrorismo e approfondire la cooperazione in campo militare, anche attraverso esercitazioni comuni e l’approfondimento dell’inter-operabilità.
Mugugni e divisioni momentanee turberanno il clima di collaborazione: ad esempio, per il riconoscimento del Kosovo, dal lato occidentale, o per gli interventi in Georgia da parte della Russia. Ma non vi saranno grandi sconvolgimenti quando verranno a conclusione i due grandi round di allargamento: Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia che diventano membri dell’Alleanza nel 1999 dopo la candidatura al vertice Nato di Madrid del 1997; Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Slovenia, Slovacchia e Romania nel 2004. Seguiranno poi nel decennio successivo e per varie tappe Albania e Croazia, Montenegro e Macedonia del Nord. Meno spigoloso ancora l’atteggiamento della Russia e del primo Putin, nei suoi iniziali due cicli di presidenza, nei confronti dell’Europa o dell’Occidente tutto. Basti pensare alla partecipazione della Russia e dello stesso Putin al G8 sino alla crisi del 2013-2014 causata dall’intervento in Crimea.

Vecchi sipari e nuove attrattive
Rispetto al mugugno continuo con cui dal lato russo l’allargamento della Nato sarà accompagnato, poche voci si leveranno in Occidente a suonare l’allarme per la pace e la stabilità future. George Kennan, padre putativo del contenimento e del mondo bipolare – sia pure in aperta critica delle loro accentuazioni militaristiche – parlerà di «errore fatale»: nella sua visione, l’allargamento appariva come detonatore per future pericolose fiammate del nazionalismo russo anti-occidentale. L’occasione per il suo allarmato editoriale sul «New York Times» del 5 febbraio 1997 saranno le prime notizie sulle candidature di Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia. Anni dopo, allo scoppio della crisi in Crimea, sarà un altro grande della diplomazia a «stelle e strisce», Kissinger, a sollevare il problema in un editoriale sul «Washington Post» e nel suo fondamentale World Order: evitare rotture irreparabili, l’Ucraina magari aderisca all’UE ma non alla Nato e si provi a risolvere il problema della Crimea consensualmente.
A dar voce, invece, al mainstream atlantico ha provveduto per anni Zbigniew Brzezinski. Fin dal 1993, nel suo Out of Control, passando per The Grand Chessboard (1998), fino a The Choice del 2004 egli ha insistito a senso unico sulla centralità dell’Ucraina negli equilibri geopolitici complessivi: «l’Ucraina è un cardine geopolitico, nel senso che la sua stessa esistenza come Stato indipendente contribuisce alla trasformazione della Russia. Senza l’Ucraina la Russia cesserebbe di essere un impero euroasiatico». Al contrario, «se la Russia conquisterà il controllo dell’Ucraina», con le sue risorse e il controllo del Mar Nero, ritornerà automaticamente un «potente Stato imperiale, tale da abbracciare Europa ed Asia, con ripercussioni immediate sull’Europa centrale, con la Polonia trasformata nella zona cardine del confine orientale di una Europa unita». Di qui la sua insistenza e la sua collaborazione nel rafforzamento del generale accordo sulla formazione della Confederazione degli Stati Indipendenti, CSI, ad opera nel 1991 di Federazione Russa, Bielorussia e Ucraina, conseguito con il Memorandum di Budapest del 5 dicembre 1994. Una pagina poco nota e commentata, ma di fondamentale importanza per gli avvenimenti successivi. Con quell’accordo storico l’Ucraina aveva deciso di smaltire l’enorme scorta di armi nucleari ereditato con la dissoluzione dell’URSS, aderendo al trattato di non proliferazione delle armi nucleari. Le migliaia di testate nucleari sarebbero poi state inviate in Russia per lo smantellamento nei successivi due anni con l’aiuto finanziario anche degli USA. In contropartita Russia, Stati Uniti e Regno Unito – seguiti poi da Cina e Francia – assicuravano all’Ucraina sicurezza, indipendenza ed integrità territoriale nei confini riconosciuti al momento della formazione della CSI. In questo modo, senza mortificare la voglia di indipendenza della stragrande maggioranza degli ucraini – celebrata dal referendum generale del 1° dicembre 1991, con oltre l’84% di partecipazione popolare, il 90% di sì e persino il 54% di favorevoli nella russofona Crimea – si provava ad offrire alla Russia una garanzia inoppugnabile sulla perpetua volontà di amicizia e buon vicinato. Più tardi allo scoppio della crisi in Crimea Brzezsinki avrebbe indicato la via d’uscita in una ‘finlandizzazione’ condordata dell’Ucraina.
Speculari a quelle di Brzezsinki – ma senza esasperazioni – le posizioni prevalenti nelle principali correnti di opinione in Russia nei primi anni Duemila: il rapporto con l’Ucraina è decisivo per il futuro della Russia e della sua influenza nel mondo. Del resto si trattava di una postura tradizionale, vero e proprio fulcro della geopolitica classica. Superfluo il richiamo ai grandi del passato – da Karl Haushofer a Halford Mackinder – e alle loro elucubrazioni sull’«Eurasia», regione perno, vero e proprio Heartland, «cuore della Terra», da cui dipendono le sorti degli equilibri mondiali. Il dibattito, il confronto e a volte lo scontro accompagneranno il cosiddetto «allargamento della Nato» ad Est nel passaggio agli anni Duemila. Il tutto in una sostanziale riproposizione del vecchio bipolarismo e a dispetto del suo sostanziale tramonto anche in quest’area.
Alcuni dati, però, finiscono con l’essere trascurati in questo scenario dominato dall’egemonia americana e dal nuovo clima imposto soprattutto dall’11 settembre. Relegati sul fondo rimangono alcuni dati essenziali, destinati però ad esercitare il loro peso sia nell’immediato sia a distanza di tempo.
Come e quanto pesa lo strumento militare ampiamente e senza molti limiti utilizzato da Putin – ad esempio in Cecenia, soprattutto nella seconda tornata di quella guerra – nello spingere in pratica la totalità degli Stati dell’ex Patto di Varsavia o ex sovietici a cercare sicurezza, a chiedere l’adesione alla Nato? Perché un movimento tanto unitario e compatto di un intero mondo? Tutto frutto del potere di attrazione, del soft-power a «stelle e strisce»? O, peggio, di una caparbia volontà degli USA di scavare in quella miniera geopolitica, magari sotto l’influsso esercitato dai neocons di Bush II, alla ricerca di una chiara supremazia anche rispetto agli antichi alleati europei. È il caso sicuramente già segnalato di Rumsfeld e delle sue elucubrazioni su Old e New Europe, «Vecchia e Nuova Europa».
A cercar meglio si possono trovare altri dati che spiegano i movimenti sulla scena: ma di tutti i protagonisti. Gli Europei non sono stati con le mani in mano dopo la caduta del Muro. E anche loro hanno funzionato da calamita. La deriva da Est verso Occidente non è a senso unico verso la Nato. Anche la UE appena nata a Maastricht sfodera attrattive. Ma non a tutto campo. Quando ha provato a fare il salto da comunità economica a unione politica non ce l’ha fatta. Non è riuscita a liberarsi dal generale quadro di condizionamento segnato dalla Guerra del Golfo, e dallo strapotere lì esercitato dagl USA. Si è divisa infine nei suoi ranghi alti al G7 di Londra sugli aiuti a Gorbaciov e rispetto ai primi passi della dissoluzione jugoslava. E così, avviandosi al traguardo di Maastricht, ha mancato l’appuntamento sulle questioni fondamentali della politica estera e di sicurezza. Ha finito col dividersi tra due ipotesi: quella franco-tedesca di cominciare a costruire un esercito europeo e quella anglo-italiana di non abbandonare il coordinamento strategico con la Nato. E così nelle tavole della legge per la nuova Europa non v’è posto per una politica estera e di difesa comune ed è rimasto l’abbraccio atlantico per gli stati che aderiscono a quel Patto.
Più al fondo del dibattito tra i costituenti europei – scandagliati solo dagli specialisti e di fatto sottaciuti al grande pubblico – alcuni grandi nodi. Inghilterra e Francia, Grandi Europei, hanno atomica e potere di veto in Consiglio di Sicurezza all’ONU. A chi passerebbe l’esercizio di queste supreme, ultime, prerogative se si riuscisse a dar vita ad una configurazione federale di politica estera e di sicurezza simile a quella prefigurata in campo monetario con l’Euro? E poteri siffatti sarebbero compatibili con una seconda corazza atlantica? O la renderebbero obsoleta o magari bisognosa di un ripensamento radicale?
L’Unione Europa nasce così monca a Maastricht e amputata di prerogative nel campo della sicurezza. Sprigiona fascino per attrarre ma non in misura sufficiente a guarire da vecchi mali. E nei paesi che da Est vengono ad allargare il perimetro pesano vecchi malanni e abitudini consolidate: meglio non cedere completamente sovranità. Piuttosto contrattarla e duramente. Visegrad diventerà l’etichetta di un allargamento continuamente rimesso in discussione, costantemente chiamato a nuove conferme dall’esercizio della «democrazia sovrana». Più sicuro e limpido l’orizzonte della Nato. Almeno fino a che le acque non si intorbidano.

Uno sguardo cangiante e ossessivo
Il cielo comincia ad oscurarsi già nel 2005, quando Putin inizia a traguardare l’inevitabile passaggio di consegne presidenziali a Medvedev e all’indomani di quelle «rivoluzioni colorate» che nel biennio 2003-2005 hanno rimesso in discussione tra Georgia, Ucraina, Kirghizistan e Bielorussia i vecchi poteri. Soprattutto hanno rivelato profondi influssi occidentali. Nel discorso presidenziale alla Duma del 25 aprile 2005 inaugura quello che diverrà un leit-motiv permanente, sottoposto poi nel tempo ad arricchimenti progressivi: «il collasso dell’Unione Sovietica è stato il maggiore disastro geopolitico del XX secolo». La Russia intera ne è stata sconvolta, sì da far temere lo sfascio definitivo come agonia prolungata del sistema sovietico sotto l’assalto del terrorismo, di oligarchie senza scrupoli, di un’economia in rotoli e di una arrembante povertà. Ma «abbiamo saputo risollevarci», individuando nuovi vettori di sviluppo nella salvaguardia dei valori autenticamente russi.
Ecco: combinare bisogno di innovazione e tradizione per conquistare la stabilità. E quale migliore scelta se non il privilegio e la primazia accordati alla Chiesa ortodossa nella chiamata a soccorso al capezzale di una realtà uscita boccheggiante dagli anni di Eltsin? O ancora lo strumento della repressione – anche crudele – per ogni atto di separatismo, ogni conato terroristico – reale o esagerato, magari costruito – che si affacci a turbare la vita comunitaria. Di qui l’accento continuo, condito anche dall’esibizione esteriore della propria religiosità, sulla centralità della Ortodossia nella lunga storia russa, come perno capace di conferire unità ad una realtà multi-etnica e multi-culturale. Di qui il privilegio accordato, fin dai primi passi come presidente, a consiglieri quali Tikhon Shevkunov, teorico della Russia come «Terza Roma», ultimo baluardo rispetto alla corruzione di Bisanzio, mai contrastata dall’Occidente traditore e in disarmo spirituale. Di qui l’inizio di tante celebrazioni per tanti momenti della lunghissima vicenda russa, sì da mettere in parentesi il periodo sovietico e da iniziare a differenziare meriti e colpe storiche di questo o quel leader: ad esempio, la lenta ma continua rivalutazione di Stalin, eroe della guerra nazional-patriottica contro il nazismo, o la condanna per il Lenin che tratta con la Germania e tiene a battesimo l’Ucraina novecentesca.
Nel biennio 2007-2008 inizia un nuovo ciclo a partire dalla chiusura della guerra cecena e dalla cesura nella carica presidenziale, dopo i primi due mandati consecutivi. La «democrazia sovrana» di Vladimir Surkov, specialista di pubbliche relazioni assurto al ruolo di consigliere principe di Putin, inizia a dispiegare tutto il suo potere suadente, mentre inizia a farsi ossessivo il richiamo a Ivan Alexandrovich Ilyin, filosofo espulso nel 1922 dalla Russia, riparato dapprima a Berlino e poi a Zurigo, profondamente influenzato dalla vicenda fascista e nazista, e approdato a concezioni filosofiche fortemente segnate dal misticismo religioso. Col tempo, il richiamo a questa figura centrale nella cultura russa di stampo conservatore e nelle elaborazioni putiniane si farà così continuo da convincere alcuni attenti studiosi – tra i quali, ad esempio, Timothy Snyder – a intravedere nel filosofo il teorico di una sorta di «neozarismo» putiniano. E così sulla scorta delle suggestioni fornite da Ilyin, sulla necessità di trasfigurare nell’eterna, necessitata figura del «redentore», la più moderna affermazione di un «dittatore democratico», Surkov ridefiniva come pilastri del nuovo Stato russo e delle sue rivisitate istituzioni democratiche la centralizzazione, la personificazione e l’idealizzazione del potere. Di qui il bisogno di unità dietro un solo individuo: s’avverava il sogno di Ilyin di un individuo che si riscopre libero immergendosi in una comunità che si sottomette ad un leader.
Il tutto favorito da una economia in cui la crescita inizia a sfiorare il 7% annuo, grazie ai prezzi vantaggiosissimi sui mercati internazionali dell’energia. E così Putin, traguardando già oltre la futura presidenza Medvedev, può mettere in cantiere la riforma dell’istituto presidenziale, portato da 4 a 6 anni a partire dal 2012, quando potrebbe essere rieletto (nel 2020 si provvederà ad allungare la presidenza di altri due possibili mandati). Intanto si conduce la guerra in Georgia, conclusa con il riconoscimento dell’indipendenza di Ossezia e Abkazia, e inizia lo smarcamento in campo internazionale rispetto al basso profilo finora osservato.
Di rilievo due discorsi del biennio 2007-2008. Nel primo, partecipando all’abituale appuntamento in Germania, a Monaco, sulla sicurezza europea, si produce in un forte attacco alla Nato, dichiarando che la sua estensione «non ha alcuna relazione con i bisogni della sua modernizzazione». La denuncia è molto netta: è in atto «una seria provocazione che riduce il livello della reciproca fiducia». L’anno seguente, poco prima di lasciare la presidenza della Federazione Russa, partecipa direttamente nell’aprile 2008 ad un meeting della Nato a Bucarest. I toni sono particolarmente diretti e combattivi. Dopo aver contestato l’opportunità e la legittimità di basi per la «difesa missilistica avanzata» in Polonia e Repubblica Ceca, dirige un attacco frontale al ventilato, sia pur lontano, ingresso di Ucraina e Georgia nell’Alleanza atlantica: «la Nato non può garantire la propria sicurezza a spese della sicurezza di altri paesi» e denuncia la «totale demonizzazione della Russia» in corso ad opera di paesi un tempo alleati.
Si gettano così le basi per una complessiva revisione della politica estera. Quando Putin quattro anni dopo riassumerà le sue vesti presidenziali i toni muteranno definitivamente. Intanto lentamente si darà corso ad una ulteriore revisione costituzionale ed istituzionale, particolarmente attenta alla nuova permeabilità di idee e comunicazioni veicolata dai social network. Memori dei vari sommovimenti variamente colorati negli anni passati, ora si mette sotto torchio le ONG, di qualsiasi colore o radice, nazionale o straniera: sottoposte a controllo della Corte costituzionale, possono vedere i propri membri multati o imprigionati per possibili minacce all’ordine costituzionale o alla sicurezza. Il giro di vite si allarga anche alle nuove società di comunicazione online, costrette a conservare su server sul territorio russo i dati su ogni utente, pena la cessazione delle attività. Si penetra infine nel sancta santorum familiare: con il sostegno della Chiesa ortodossa si procede alla depenalizzazione di buona parte delle violenze domestiche. Val la pena anche di ricordare ora come, nel 2011 sul finire del mandato presidenziale di Medvedev, si tenga il congresso fondativo di «Russia Unita», il cui momento culminante sarà costituito dall’annuncio della terza candidatura di Putin a presidente.
È a partire da questo momento che il suo sguardo si colora ora di nuove, più accese sfumature, mentre la spesa per armamenti raddoppia il suo peso nel bilancio pubblico statuale. Il pensiero di Putin si arricchisce di nuovi apporti, come frutto della diffusione anche in Russia di esperienze quali quelle tipiche nel mondo anglo-sassone dei think-tank. Spiccano tra i tanti, per l’assiduità della loro attività, circoli di discussione e elaborazione teorica quali il Valdai Discussion Club, omaggiato annualmente dalla presenza di Putin al periodico meeting, o l’Izborsk Club, fondato dallo scrittore neofascista Aleksander Prochanov e vagamente ispirato alle dottrine del filosofo cristiano Nikolaj Alexandrov Berdjaev o dello storico Lev Gumilev. Al centro delle teorizzazioni di quest’ultimo gruppo una netta propensione geopolitica, ma soprattutto geo-filosofica, sull’Eurasia, o meglio sulla Mongolia come fonte autentica del carattere russo, tale da tenerlo al riparo dalla decadenza occidentale. Lì una possibile patria, sorgente di una comunità allargata dall’Oceano Pacifico fino alla malaticcia penisola europea ad Occidente. Pronto ad attivarsi entro queste generali prospezioni, un personaggio come Alexandr Dugin, assai presente in varie iniziative europee ed italiane, con le sue teorizzazioni sull’Ucraina come barriera frapposta al destino euro-asiatico della Russia contemporanea. Per questi tratti del suo pensiero assai vicino a Putin e alle sue teorie sull’Ucraina come parte costitutiva della civiltà russa.
Riecheggiando le idee di Carl Schmitt su terra e mare, rivisitate da Dugin, le teorie propalate dall’ Izborsk Club, fondato non a caso nel 2012, si appuntano sull’eterna lotta del sano e virtuoso popolo della terra contro il popolo del mare, vuoto e astratto. La geopolitica vira in filosofia e battaglia delle idee o di civiltà contrapposte. L’Europa sta morendo insidiata da mali molteplici: matrimoni gay, promozione della pederastia, crisi della famiglia. L’Occidente ha però attivato anche una macchina ideologica formidabile che ora minaccia dall’interno la società russa, in un cannoneggiamento diretto verso la Chiesa ortodossa, base spirituale della nazione.
Bisogna perciò reagire attraverso un piano straordinario di mobilitazione, culturale e economico, per concentrare ogni risorsa nella preservazione della sovranità russa e della sua cultura profonda. Questo martellamento produce un mutamento fondamentale negli indirizzi di politica estera. Lo testimonia il documento ufficiale di politica estera, il Foreign Policy Concept del 18 febbraio 2013, firmato dal ministro degli Esteri Lavrov e approvato direttamene dal presidente Vladimir Putin. In un futuro dominato dai processi di globalizzazione e da caos e lotta per l’accaparramento delle risorse, è necessario riconquistare grandi spazi adeguati a preservare patrimoni, giacimenti di cultura e civiltà. Di qui la necessità di garantire rapporti e legami nell’intera area euro-asiatica. Perché non prevedere perciò che nei colloqui in corso su futuri legami tra Ucraina e UE venga inclusa anche la Russia, grazie soprattutto al suo retroterra vitale in tempi così bui e di crisi dei meccanismi decisionali.
In quello stesso 2013, al Valdai Club, a settembre Putin si spinge anche più avanti. Sull’onda sempre del pensiero di Ivan Ilyin parla di un «modello organico» russo di cui l’Ucraina fa da sempre organicamente parte: «Abbiamo tradizioni comuni, una mentalità comune, una storia e una cultura comuni». Perché rompere questa unità con i colloqui in corso tra Ucraina e UE sotto la presidenza Janukovic?
Inizia allora una attenzione spasmodica nei confronti dell’Europa e della politica europea. Nascono molteplici tentativi di penetrare in quel mondo, di intessere legami, provare ad esercitare influenza. Di qui i rapporti intessuti con vari leader: da Gerhard Schröder al ceco Milos Zeman, eletto presidente nella Repubblica Ceca nel 2013, o Silvio Berlusconi, dal 2011 periodicamente ospite di Putin in Russia. O l’appoggio, la lenta penetrazione in partiti e movimenti contrari all’approfondimento dell’UE o votati a forme regionali o nazionali di ispirazione sovranista o separatista. Si pensi ancora alla preferenza accordata a leader quali Nigel Farage o Marine Le Pen, su una rete televisiva come Russia Today, con i suoi canali in varie lingue, oppure financo i finanziamenti, più o meno occulti, a questo o quel partito o movimento. Si pensi ad esempio all’accordo di cooperazione con gli austriaci del Freiheitliche, premiati nel 2017 con il 26% dei voti e ammessi a dicembre nel governo di coalizione. Oppure – caso assolutamente eclatante – alla figura di Donald Trump e alla relazione speciale istituita con Putin sulla base di una ventilata reciproca simpatia, oltre che di una serie di ‘affari’ in terra russa in corsia preferenziale. È assai arduo comprendere quanto e come la facilità nello stabilire simili relazioni abbia favorito la visione presso le élites raccolte attorno a Putin di un Occidente di fatto senza più spina dorsale, incapace di decisioni risolute in tempi bui. A testimoniarlo, comunque, stanno parole precise di Putin, assai simili a quelle pronunciate dal patriarca Kirill in una analoga occasione. Per Putin, sempre al Forum di Valdaj del settembre 2013, «Molti Paesi euro-atlantici stanno negando le loro radici, tra cui i valori cristiani che sono alla base della civiltà occidentale. Stanno negando i principi morali e la propria identità: nazionale, culturale, religiosa e perfino sessuale. Mettono in vigore politiche che pongono allo stesso livello delle numerose famiglie tradizionali, le famiglie omosessuali: la fede in Dio equivale ormai alla fede in Satana».
Su questo stesso sfondo, ma ancora più deciso, Dugin, sulle orme di Samuel Huntington e del suo «scontro di civiltà», identifica in Ucraina il punto focale di uno scontro non più contenibile. Qui l’universalismo liberal-americano, l’atlantismo, l’occidentalismo incarnati dall’attuale dirigenza ucraina si scontrano con la tradizione euro-asiatica ortodossa, russa, anti-americana ma non anti-europea: perché l’Europa ha il suo vero cuore pulsante nella sua dimensione continentale terrestre, nei suoi legami euro-asiatici. Con mosse simili, di fatto la Russia prova a mettersi alla testa di un vasto e variopinto fronte, accomunato da una grande attenzione per le mosse di Vladimir Putin e per una possibile rivoluzione conservatrice. Unico il grido levato da tutti: «rischiamo di vivere nel mondo descritto dai romanzi di Aldous Huxley e Anthony Burgess, una società edonistica, ignara della Patria, della Famiglia, di Dio».

Conclusioni provvisorie
Se questo è lo sguardo con cui Putin legge il mondo che ci circonda, sono chiare le motivazioni dell’attacco all’Ucraina. Riguadagnare spazio vitale, intanto verso il Mar Nero e le promesse che di là vengono di nuove «vie della Seta». Subito dopo muovere nei confronti di una Europa in bilico e in difficoltà nel dialogo con l’«amico americano», indebolito dallo scisma di Trump e dall’amarissima ritirata afghana. La minaccia subito brandita persino dell’arma fatale, serve a complicare subito la ricerca di una risposta efficace da parte della comunità atlantica tutta, costretta immediatamente a contemplare precipizi fatali. A ingarbugliare il tutto ci si è messa però la inattesa resistenza ucraina. Adesso è tutto più difficile. E vengono fuori i lati più deboli.
Una sfida geostrategica è stata gestita tramutandola – sulla scorta di una attivistica rivisitazione dello «scontro delle civiltà» di Huntington – in una «crociata» della civiltà mongola contro quella occidentale, di una sana Russia profonda contro la decadente Bisanzio d’Occidente, contro la sua deboscia inarrestabile. A chiamare alla battaglia è però una élite tra le più debosciate al mondo, una oligarchia dimentica di fatto della propria patria e dei propri simili e dedita ad una delle spoliazioni più radicali del proprio pezzo di mondo: pronta poi ad esportare la ricchezza conquistata ovunque, al sicuro da possibili, sia pure improbabili, ganasce dello Stato russo. Di qui la teorizzazione tanto insistita quanto risibile del nuovo nazismo annidato in Ucraina e Occidente: un male da estirpare, mentre ogni giorno si celebra l’abbraccio con una destra radicale assai tiepida nella presa di distanza da tristi ascendenze novecentesche. Sono tutti fronti che rendono debole la posizione di Putin, in un momento in cui la guerra non solo si prolunga ma soprattutto sparge attorno a sé miasmi di lunga durata e persistenza. Quanto costerà il post-guerra, se e quando verrà? E non solo in termini economici, ma di inimicizie durature, di rotture assai difficili da sanare?
Meglio non avventurarsi in simili prospezioni assai rischiose e inutilmente fantasiose. Meglio interrogarsi su alcune pressanti domande dirette. Può l’Europa o meglio l’UE reggere ancora e in queste forme, nel carapace atlantico, uno scontro di queste dimensioni e pericolosità? Avviarsi finalmente per la costruzione di una vera identità, di una reale presenza globale non è questione di un 2% nelle spese militari. Sono ben altre le decisioni da assumere, ancora più complicate ora che l’Inghilterra se ne è andata e premono quelli di Visegrad. Quale Europa, con quali poteri e quali visioni del mondo? Ancora minacciato dall’atomica? È il caso o no – su questo terreno fondamentale su cui si gioca davvero la partita per una reale identità europea – di giocare fino in fondo la partita? A partire da una firma decisa su quel trattato di proibizione delle armi atomiche su cui soprattutto alle nostre latitudini hanno imperversato finora silenzi e reticenze