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Una crisi organica

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Oligarchie e piazze, dall'alto e dal basso, strappano a morsi, e non solo virtualmente, quel che resta della repubblica, costretta all'ennesima, livida metamorfosi. 

La rappresentazione più limpida è naturalmente in Gramsci: «A un certo punto della loro vita storica i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali, cioè i partiti tradizionali in quella data forma organizzativa, con quei determinati uomini che li costituiscono, li rappresentano e li dirigono non sono più riconosciuti come propria espressione dalla loro classe o frazione di classe. Quando queste crisi si verificano la situazione immediata diventa delicata e pericolosa, perché il campo è aperto alle soluzioni di forza, all'attività di potenze oscure, rappresentate dagli uomini provvidenziali o carismatici.

Come si formano queste situazioni di contrasto tra «rappresentati» e «rappresentanti» che dal terreno dei partiti ... si riflettono in tutto l'organismo statale, rafforzando la posizione relativa del potere della burocrazia (civile e militare), dell'alta finanza, della Chiesa, e in generale di tutti gli organismi relativamente indipendenti dalle fluttuazioni dell'opinione pubblica? In ogni paese il processo è diverso, sebbene il contenuto sia lo stesso. E il contenuto è la crisi di egemonia della classe dirigente, che avviene o perché la classe dirigente ha fallito in qualche sua grande impresa per cui ha domandato o imposto con la forza il consenso delle grandi masse (come la guerra) o perché vaste masse ... sono passate di colpo dalla passività politica a una certa attività e pongono rivendicazioni che nel loro complesso disorganico costituiscono una rivoluzione. Si parla di «crisi di autorità» e ciò appunto è la crisi di egemonia, e crisi dello Stato nel suo complesso (...)

La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati»

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E la chiamano antipolitica

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Ormai è agli sgoccioli una tornata elettorale in cui politici blasonati hanno lasciato a Berlusconi la vita (il lavoro, la casa, il fisco che ti macina le ossa ecc.) e a Grillo la piazza (il capolavoro finale sarà San Giovanni a Roma). Quando la politica è nutrice dell'antipolitica

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Foibe e totalitarismi

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Nella mia vita ho avuto la fortuna di godere di una seconda madre, la sorella maggiore di mia mamma. A casa sua sono cresciuto a penne col pesto, peperoni, pastiera, e racconti su Pola e l'Istria. Lì aveva vissuto i suoi primi anni da napoletana sposata ad un carabiniere. Ne era stata scacciata poi con la fine della guerra: la seconda. Ne aveva ricavato danni grandissimi - tutto perso  - e poco onore: la qualifica per se e la famiglia di «profughi istriani». Per tanto tempo un inutile bollino. Nel suo ricordo però, assieme a tante brutture, vivissimi erano ricordi e lacrime per i tanti e le tante, soprattutto le vicine, che avevano accolto la sposina dell'altra Italia come figlia e sorella.

Perciò, crescendo, mi hanno sempre colpito silenzi e strumentalizzazioni su quel pezzo della storia nostra. Di qui la voglia di capire. E perciò giù a leggere e cercare, perché non c'è altro modo per capire. Sapendo anche che è uno scavo mai chiuso, mai definitivo, perché non ha  mai fine l'impegno, la lotta per cambiare il mondo. Come spiegava il maestro del liberalismo italiano e non un comunista, Benedetto Croce, la storia è sempre «storia contemporanea» perché «storia riferita al bisogno e alla situazione presente nella quale quei fatti propagano le loro vibrazioni».

Di quelle ricerche ho ricavato finora un ammonimento: il cosiddetto totalitarismo - coperta troppo corta per tante cose - non è escrescenza, cane morto del passato, ma patologia, portato della modernità e delle sue contraddizioni. Per farci veramente i conti, bisogna conoscerlo bene e saperlo riconoscere subito quando, in forme vecchie o nuove, rialza la testa. E può aiutare allora la lezione di un altro grande liberale, un francese, Raymond Aron, grande studioso del Novecento. Parlando della comune appartenenza al totalitarismo di nazismo e comunismo, invitava a non scordare mai come per il primo lo sterminio di un popolo rappresentasse la conseguenza logica della predicazione su gerarchie naturali e superuomo e per il secondo, invece, il gulag fosse una contraddizione e un esito tutti da spiegare rispetto alla predicazione sull'eguaglianza degli uomini e l'umanità tutta illuminata dal sol dell'avvenire. Di qui anche la diversa collocazione rispetto a quella Carta costituzionale di cui siamo tutti figli: fieramente e a gola spiegata antifascista.

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Antipolitica?

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Elezioni. Boom di simboli: 215 richieste presentate al Viminale, rispetto alle 181 del 2008. E quasi tutte evidenziano un nome, il proprio. Alla faccia dell'antipolitica. Se la si odia tanto perché le si dona se stessi? perché si vuole marchiarla con la propria immagine? Non si ha paura di sporcarsi?

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L'incombenza del "mamozio"

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Il "mamozio" incombe e il frastuono più assordante miracolosamente diviene silenzio, assoluta mancanza di risposte

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Presidenzialismo all'italiana

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Napolitano, ovvero il presidenzialismo all'italiana. Per collasso dei partiti e della cosiddetta "Seconda Repubblica"

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Birilli

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Birilli
Bossi, Berlusconi Di Pietro: simul stabunt, vel simul cadent. Come birilli trascinano nella loro caduta la Seconda Repubblica. Monti e l'euro fanno strike.
Verificare come e perché Rifondazione comunista, nata con il I congresso nel dicembre 1991, non abbia anticipato eventi e processo con il terremoto, screziato d'arcobaleno, del 2008.

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Macchinazioni suicide

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Nel Mezzogiorno le primarie stanno tenendo a battesimo soprattutto volenterosi costruttori di liste civiche. Bari, Napoli, Palermo, i casi più eclatanti. Bersani terrorizzato contempla immobile, presagendo il disastro. Altri a sinistra e più in là non si accorgono che spesso accatastano fascine per costoro. Come diceva un grande vecchio: a sinistra soprattutto si finisce vittima delle proprie macchinazioni

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LACRIMONI SENZA STORIA

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LACRIMONI SENZA STORIA

Che mondo strano quello che si rivela in un qualsiasi paesino d'Italia o del mondo all'indomani di una sconfitta della nazionale di calcio. O meglio fin troppo limpido e trasparente. L'universo dell'informazione ufficiale fa il pieno naturalmente delle solite cose. Tuttologi che sproloquiano su Conte, la formazione e magari l'arbitraggio. E così è avanti a ogni bar o circolo o ritrovo. Quelli della vita vera in comune.

Muto e silente, assente del tutto, quel mondo variegato che in un piccolo paese - a rimorchio dei social network - è solito animare il dibattito (?) con la pubblicazione sui vari siti cittadini di note e veline le più varie. Su tutto e anche sul calcio o meglio sul tifo pagine intere, traboccanti di foto e aggettivi. Su esplosioni (non solo di gioia) e caroselli (a volte, vandalici) della tifoseria scatenata.

Ieri sera tornando a casa ho incrociato qualche bambino o ragazzetto, a rimorchio dei genitori, con bandiera ripiegata in spalla e lacrimoni mal dissimulati. Nessuno che si sia preso la briga di immortalarli e raccontarli all'indomani come meritavano. La sconfitta non esiste per questo mondo. Il loro racconto è solo per i vincenti, per chi magari approda di straforo alla trasmissione di successo. Il giorno dopo, quando in genere scompare dal video, nulla. 

Tutto per chi appare. Per gli invisibili, i perdenti, quel bambino coi lucciconi, niente.

Non è un bel racconto della vita. Quella vera

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Illuminazioni

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Ieri su un bus a Parigi. Salgo e, come al solito, preferisco mettermi in piedi in un angolo. Con la coda dell’occhio noto nell’apposito spazio riservato  - e in Italia? - una carrozzina, anzi una motoretta per invalidi. Non è delle solite. Un po’ chiassosa, giallo sole, giovanile. C’è una ragazza: piccola, con una grande frangetta, stampelle in grembo. Noto distrattamente che usa lo specchietto retrovisore per truccarsi. E’ un’operazione lunga e accurata, intervallata da velocissimi messaggi sul telefonino. Mi colpisce la naturalezza, la disinvoltura, la calma con cui le sue mani si muovono. Ci sono posti liberi di fronte e allora mi siedo. Voglio osservare senza dare nell’occhio, senza divenire molesto.

Dapprima è il phard, lento, insistito. Passa al rossetto. E’ il turno di ciglia e sopracciglia. Tutto con grande precisione. Estrae i vari astucci e pennellino da una borsa appesa al manubrio, lato sinistro. Controlla con cura il risultato nello specchietto. Ritocca,  riguarda finché non è soddisfatta. A destra c’è un’altra busta appesa al manubrio, trasparente. E’ gonfia di una bella bottiglia di champagne e una scatola. Sembrano dolci. Spiegano tutto. Soprattutto perché è così assorta, così lontana da chi la circonda.

Arriva la fermata. Devo scendere. Mi alzo ma devo cederle il passo. Scende anche lei. Lo fa in retromarcia verso la porta, con la naturalezza di una lunga abitudine. Sfreccia nella folla su Boulevard Saint-Michel e mi distanzia. Negli occhi mi resta impressa la scritta incisa sul sedile: “À bientôt, j'espère”.

Ho gli occhi umidi. Mai vista tanta voglia di vivere, tanta ricerca di gioia e futuro.

 

Una nota forse inutile: “À bientôt, j'espère” è anche il titolo - divenuto modo di dire - di un famoso film del ’68 operaio francese in cui si lottava non solo per il salario ma per un’altra forma di vita