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Tradizione

on . Posted in Comunicazione

Ogni tanto nello strapaese moderno, nel frastuono di stereo a palla, tra i gas di auto e moto, si invoca. si celebra la tradizione. Che importa se si mischia spiritualità e consumismo, tamburelli e reggae, dialetto e slang americano. In genere, incomprensibili alla stragrande maggioranza dei festanti, quando non agli stessi improvvisati cantori. E che importa se oggi a dimenarsi stanno ragazzine discinte, assistite da amorevoli madri. Tutte intente a celebrare la famiglia del tempo che fu: quando un padre-padrone, all'ombra di un pagliaio o alla luce di un falò, magari vendeva assieme pecore e figli al mercante o al feudatario di turno.

Per capire, vale la pena di rifarsi a Furio Jesi, storico, morto giovanissimo, nel 1980, a 38 anni ma già autore di studi oggi ancor più preziosi. Egli parlò di «idee senza parole», a proposito di un linguaggio «che presume di poter dire veramente, dunque dire e al tempo stesso celare nella sfera segreta del simbolo, facendo a meno delle parole, o meglio trascurando di preoccuparsi troppo di simboli modesti come le parole che non siano parole d'ordine. Di qui la disinvoltura nell'uso di stereotipi, frasi fatte, locuzioni ricorrenti; non si tratta solo di povertà culturale, di vocabolario oggettivamente limitato per ragioni di ignoranza: ciò che conta è la circolazione chiusa del “segreto“ - miti e riti - che il parlante ha in comune con gli ascoltatori, che tutti i partecipanti all'assemblea o al collettivo hanno in comune». 

Tradizione, appunto. Di che, di cosa? Chissà