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Il rosso muove e vince. Da Bush a Bush, in «La Rivista del Manifesto», n. 56, dicembre 2004, pp. 21-4.

Posted in Saggi

Per quanto tempo ancora l'America Red and Blue, l'America Rossa e Blu a schizzata fuori dalle urne di novembre, mancherà di un cantore adeguato? Sicuramente essa non ha ancora ispirato chi - come Goethe per la Germania - sappia eternare altre, storiche scissioni e lacerazioni: «Dentro il cuore, ah, mi vivono due anime/ e l'una dall'altra si vuole dividere» 1. Tanto meno sono alle viste ideologi capaci di ricomporre le fratture politiche e geografiche evidenziate da quel voto in una qualche epocale cosmogonia, simile a quella, ad esempio, disegnata per la modernità da Carl Schmitt nel suo Terra e mare 2.
A far difetto, in realtà, non sono gli interpreti. Ve n'è anzi gran folla, tutta intenta e accomunata a sottolineare l'epocalità dell'evento e del processo che vi ha fatto capo. Ma l'accordo termina lì: nella rilevazione dell'incubo - questo sì comune - che il rosso e il blu, finora fusi nelle Stars and Stripes del vessillo americano, diventino fronti contrapposti di un conflitto incomponibile. Spaventosa si materializza la prospettiva di quella Disuniting of America, «disunione dell'America», paventata, in altra epoca e contesto, da Arthur M. Schlesinger e rilanciata ora dagli angosciosi interrogativi di Samuel P. Huntington sull'identità nazionale, sulla capacità degli Usa di ricomporsi in nuova unità, di rinascere E Pluribus Unum 3. 
Al capezzale dell'epocale lacerazione le ricette si rincorrono e moltiplicano. Per molto tempo ha tenuto banco in entrambi i campi la categoria delle culture wars: di fatto irriconoscibile e quasi sfigurata nella letterale, ma edulcorata traduzione italiana di `guerre culturali'. Dovendo evitare l'immediatezza, ma anche l'inevitabile slittamento di significato di un `guerre di civiltà', troppo corrivo al manifesto politico-ideologico dell'Huntington dello «scontro di civiltà», si impone, in realtà, il ricorso - di qua dell'Atlantico - ad un pregnante, e volutamente aspro, «guerre di religione». Perché di questo si è trattato e si tratta: del cozzo di visioni del mondo e di valori alternativi, di universi simbolici fieramente confliggenti, ad altissimo e devastante impatto nella comunità. Originata sul terreno cangiante del multiculturalismo, la categoria di culture wars è stata adoperata variamente, su più timbri analitici e per più piste investigative: impugnata volta a volta per evidenziare la divisione tra empito cosmopolita e chiusura nazionale, stretta liberista e legame sociale, libertà individuale e responsabilità comunitaria. Quando lo scontro si è fatto al calor bianco, quando la parola è passata ai comitia, alla messa in campo degli eserciti contrapposti, le culture wars sono divenute le Two Americas: ora di Stanley B. Greenberg, analista principe di Clinton - prima che di Rutelli - e fine indagatore degli universi elettorali americani 4; ora di John Edwards, autore nel dicembre 2003 di una celebrata performance oratoria a Des Moines, nell'Iowa, valsa a conquistargli la candidatura democratica alla vice-presidenza, nell'illusione di irrobustire con una iniezione di sano populismo la figura di Kerry e di conservare magari, con l'evocazione e la messa in campo dell'`altra America', l'allarme e la fiammata accesi da Howard Dean nella mobilitazione dell'elettorato e degli attivisti democratici.

Opportunamente, in sede di bilancio della battaglia data e della sconfitta subita, John Judis, Ruy Teixeira e Marisa Katz, esponenti di punta dell'intellighentzia democratica, hanno parlato di una nuova «Guerra dei Trent'anni» vinta per ora da Bush 5. Con l'utilizzo di una lente siffatta, l'analisi non solo si slarga proficuamente all'epoca tutta marcata dallo spartiacque degli anni '70, ma permette di padroneggiare più piani: intanto riconduce, quanto alla scena interna, i terreni accidentati e malfermi delle culture wars, delle `guerre di religione', entro il ciclo lungo di una nuova, devastante «seconda guerra civile americana»; sul piano internazionale, poi, ricolloca quella incandescente fucina di una America nuova nel tentativo di rilanciare l'egemonia e il primato americani, di marchiare a stelle e strisce anche il XXI secolo. Nazionale e globale si tengono, mentre scompaiono le ricostruzioni astratte, a tavolino, di una storia ora volontaristicamente immiserita a improbabili complotti planetari, ora pateticamente irrigidita nelle geofilosofie esibite dai geni originari e immodificabili di popoli e civiltà: Occidente versus Oriente; Usa contro Europa.
Tornano a campeggiare - nella stagione contrassegnata dalla rinnovata vitalità del capitalismo, sospinto per nuovi planetari sviluppi da processi di inusitata privatizzazione del globo e della vita - i processi di formazione di élites e gruppi dirigenti, la loro capacità di individuare punti d'attacco, aggregare blocchi sociali - e scomporre quegli altrui -, dettare parole d'ordine e alimentare nuovo conformismo, riplasmare lo spirito pubblico. 
A irrobustire questo impianto di ulteriori e più articolate chiavi di lettura provvede la proposizione della categoria di radcon, `conservatori radicali', avanzata nel suo ultimo lavoro da un altro liberal, esponente di spicco del Partito democratico: Robert Reich, già ministro del Lavoro nella prima amministrazione Clinton 6. Piuttosto che focalizzare l'attenzione sul segmento sottile dei cosiddetti neoconservatori - figli di una mutazione di pelle e di campo in alcuni dei settori più intransigenti della vecchia e nuova sinistra - egli si concentra sulla trasformazione complessiva intervenuta nel Partito repubblicano e nel fronte conservatore con l'avvento di una nuova classe dirigente, figlia del baby boom post-bellico che aveva già partorito, sull'altra sponda, Bill Clinton. È essa che attornia ora Bush e che ha conquistato la leadership del Great Old Party rimodellandolo dal profondo. Là dove, all'insegna di Edmund Burke, imperavano un tempo saggezza e passi felpati, nell'orrore dell'intervento umano sull'ordine naturale delle cose, ora prevale il sovvertimento programmato e gridato dell'eredità novecentesca. Coloro che in un'altra età marchiavano col timbro della follia ogni utopico tentativo di reindirizzare secondo ragione e diritto la marcia dell'uomo e del mondo, oggi impugnano l'utopia negativa della `guerra preventiva' come rimedio ai mali del mondo e alle loro nuove incarnazioni. Quel che più importa, però, è che lungo questi sentieri di lettura viene evidenziata la capacità dei radcon di alimentarsi della crisi altrui, di impadronirsi di parole d'ordine e metodi dell'avversario per farli propri e riproporli come propellente di una generale rivoluzione passiva. È nel suo grembo che si ridisegna ab imis la società americana tutta e nei suoi rapporti col mondo, in un imponente mutamento dello stesso terreno di battaglia, degli spalti e casematte che un tempo munivano e trinceravano i rispettivi schieramenti. È il caso, ad esempio, delle campagne sui diritti civili e del modo in cui esse provavano a rieticizzare la politica professionalizzata o, ancora, della critica alla massificazione della società moderna, ridigerite e ripresentate come `valori morali' della nuova `maggioranza silenziosa' o `maggioranza morale' e come carburante del turbo-liberismo di terzo millennio.
Seguendo le piste di questa trasformazione epocale, si può risalire ai suoi primi conati e alla reazione aggregata dall'estremismo di Barry Goldwater in risposta alla rottura ideale e politica degli anni '60. Senza alcuna indulgenza verso le teorizzazioni di una destra cospiratoria emerge la trama di un disegno politico intenzionalmente disposto, fin dall'inizio, a misurarsi sui tempi lunghi di un progetto di rivolgimento epocale della politica, disposto attorno agli spazi e alle forme nuove acquisite dall'informazione, dalla comunicazione planetaria, dall'invadenza dello schermo Tv. Marco D'Eramo ne ha efficacemente tratteggiato i primi passi sulle colonne del «manifesto» 7. Sarà Richard Nixon il primo a rompere a Sud l'egemonia del blocco storico cementato attorno agli istituti e alle politiche del New Deal, a penetrare nel ventre molle dei democratici sudisti, per ridisporli come pezzi di una nuova maggioranza silenziosa terrorizzata dalla campagna per i diritti civili e dai disegni di Great Society, di nuova stagione del Welfare, lanciati dalla presidenza Johnson. Toccherà a Reagan poi esibire - in uno con la promozione del passaggio al post-fordismo, con il mutamento complessivo della geografia economica statunitense e la meridionalizzazione del suo baricentro - un superiore potere federativo, il tocco magico nella comunicazione affabulatoria e nell'amalgama di nuove coalizioni. 
Non a caso è a lui che più direttamente si rifà Bush, sia pure irrigidito da eloquio e sguardo inespressivi. Ma si tratta di handicaps apparenti che non mortificano la forza rivelata dalla capacità di federare, come Reagan, coalizioni di interessi apparentemente divergenti, in cui si combinano Brooks Brothers e Val-Mart, alta società e masse di ceto medio e popolo. Egli vince aggiudicandosi nettamente il voto degli ultraricchi, con il 63% degli elettori con oltre 200 mila dollari di reddito annuo, ma anche portando dalla sua il 53% degli elettori sforniti di diploma di scuola superiore. Soprattutto è capace di arginare e a volte di invertire, più o meno parzialmente, lo smottamento a sinistra, verso Kerry, del voto delle minoranze - ispaniche soprattutto e qualche volta nere -, così come delle donne o del lavoro dipendente. Vi riesce, come sottolineano con forza in un primo esame del voto James Carville e Stanley Greenberg, perché sa sì mobilitare e unificare la destra, e innanzitutto quella cristiana a forte impronta confessionale, ma soprattutto sa volgere a proprio vantaggio la generale voglia di cambiamento dell'elettorato americano 8. La trasforma in vento nelle proprie vele grazie soprattutto alla messa in campo di una macchina politica ben più attrezzata di quella democratica. Bush batte Kerry sia facendo della `maggioranza silenziosa' o `morale', che dir si voglia, un blocco sociale e politico più unificato e coeso di quello democratico. Sia capovolgendo l'agenda stessa delle elezioni: sotto il fuoco di riflettori e telecamere, al vaglio del popolo, non finisce la sua presidenza, ma le paure e i timori di un elettorato assediato da Osama bin Laden e Saddam, e terremotato fin nel focolare domestico dal pervertimento della famiglia, traviata tanto da inedite, libertine coniugazioni quanto dalla legalizzazione di pulsioni omicide. Ed è su questo superiore potere di fuoco che conviene per un momento sostare, per provare a penetrare il terreno particolarmente scivoloso delle culture wars, delle battaglie attorno ai cosiddetti `valori morali', in condizioni di assenza di egemonia.

È ingeneroso oltre che suicida provare a rimproverare Kerry per una presunta incapacità a farsi carico dell'americano medio, dei suoi timori e valori. Lungo questo declivio, alimentato dalla strumentalità di calcoli di corto respiro, si perdono dati di realtà essenziali. Innanzitutto i 5 milioni e mezzo di voti guadagnati rispetto al risultato del 2000, in una campagna elettorale assai aspra ma di mobilitazione e impegno straordinari: ancora tutta da valutare quanto a partecipazione, in assenza ancora dei dati definitivi su votanti ed elettori abilitati al voto. Si è trattato di un farmaco miracoloso per risollevare il tono e le sorti dell'organizzazione politica democratica. Di questa Reich con pagine di rara efficacia - che ad altre, più europee latitudini si farebbe bene a mettere a frutto - aveva già magistralmente tratteggiato lo stato di coma permanente, periodicamente interrotto da chimeriche sessioni di auto-coscienza sul `Futuro del Partito democratico'. Indirizzandosi in tal direzione, si perde di vista piuttosto il fatto che, paradossalmente, sono stati i repubblicani a far tesoro della lezione `estremistica' di Howard Dean, di quell'urlo che aveva suonato la diana democratica, inventando nuovi moduli organizzativi e di comunicazione politica, lanciando in campo la nuova forza d'urto di Internet. 
Certo Karl Rove, lo stratega elettorale di Bush, s'era mosso per tempo. Soprattutto nella chiamata a raccolta e compattamento delle destre religiose. Ma la superiore potenza di fuoco che egli ha potuto e saputo esibire - oltre 3,4 milioni di repubblicani nuovi iscritti alle liste elettorali, un'armata di 1 milione e 400 mila volontari al lavoro - non è frutto di un trapianto in terra americana di una qualche ricetta di stampo europeo. Così come è stato per il XX secolo, con il suo `governo di partito', il `partito pigliatutto' o il `neopopulismo', anche nel XXI secolo il male o il tormento maggiore della politica e delle sue forme è costituito dalla sua costante e perdurante americanizzazione. La nuova macchina politica schierata in battaglia dai repubblicani - e la lingua qui volutamente non batte sul dente cariato dai moduli bellici del Politico novecentesco - è frutto di un ingegnoso ripensamento, che ha saputo allargare partecipazione e mobilitazione ben oltre i confini del partito tradizionalmente inteso. Da un lato, sospingendo ed organizzando la molteplicità di organizzazioni - la società civile in movimento 9 -, cui la nuova legge sul finanziamento elettorale permette di raccogliere fondi e di intervenire direttamente in campagna elettorale, d'occupare gli schermi televisivi, di inondare di messaggi le terminazioni nervose di Internet. Dall'altro, sfruttando appieno proprio possibilità e caratteristiche dei nuovi mezzi di comunicazione: ed è qui che Rove ha saputo far propria la lezione delle letture più avanzate sui nuovi territori dell'informazione.
Contrariamente alle analisi a tutto tondo dei teorici di nuovi imperi e moltitudini, la comunicazione globalizzata e istantanea non alliscia mondo e popoli in indistinti ed omogenei universi. In costanza di differenze culturali profonde, più essa si fa rapida e istantanea più rende l'altro vicino, fino a fare ossessivamente incombente quello che un tempo appariva favoloso e remoto, magari inoffensivo perché distante, oggetto al più d'antropologiche elucubrazioni. Permanendo la differenza, la differenzia ed esalta a dismisura. E piuttosto che affratellare finisce spesso con l'inimicare quanti adesso insistono su spazi comuni e se ne disputano il controllo e possesso. Su Internet e ancor più nei circuiti delle cable-Tv pochi riescono, per dovizia di mezzi e risorse, a condividere con gli altri un universo. Per lo più lo si sceglie e costruisce assieme ai propri simili. Si parteggia esplicitamente e senza pudori, senza più il feedback, la reazione salutare dell'altro, la comunione delle differenze. Si vive in tribù. 
Karl Rove ha messo a frutto questa lezione, soprattutto in riferimento ai tanto celebrati e citati `valori morali'. Ha fatto propria, innanzitutto, la lezione di una delle muse del pensiero radcon, Gertrude Himmelfarb, moglie del ben più famoso esponente neocon Irving Kristol. Come ella non si stanca di ripetere «c'è molto più in comune tra due famiglie di intensa pratica religiosa, di cui una sia di classe operaia, che non tra due famiglie di classe operaia, di cui una sola sia praticante». O ancora: «i neri dei ghetti urbani mandano i loro figli alla scuola cattolica, non perché praticano quel credo religioso, ma perché lì si riceve una formazione più rigorosa e si vive in un ambiente più disciplinato» 10. Nelle mani dell'armata repubblicana, queste massime si sono fatte scalpello per irrompere nelle fila del blocco democratico e sfaldarlo o quanto meno impedirne o renderne difficile l'aggregazione su altri terreni. A rinsaldare il proprio fronte ha provveduto piuttosto lo scatenamento di ben altri universi valoriali e simbolici. È bastata la parola d'ordine della ownership society a scatenare l'egoismo fiscale dei più, l'individualismo diffuso, per aggregarlo su Internet e nei comitia, dargli dignità di manifesto politico generale e trasformarlo in una formidabile massa d'urto a coloritura nativista: zoticoni contro sapientoni, terra versus mare. Cosa v'è di più mobilitante nei grandi spazi americani dell'individualismo, della carica mitologica della `società dei proprietari' contro i gravami collettivi della social security, della vita metropolitana? Con buona pace di Jeremy Rifkin e della sua era dell'accesso, il suo de profundis sul diritto di proprietà non consegna le chiavi del XXI secolo. Come ha ben mostrato Zygmunt Bauman, il turista e il vagabondo sono le figure emblematiche della globalizzazione neoliberista. Ma nelle sue congenite e laceranti asimmetrie il turista può vantare gradi di libertà che l'altro può solo sognare. La proprietà in qualunque sua forma - e intanto di se stessi - è ancor più di ieri l'unico passaporto che abilita alla navigazione e all'accesso universali.
E che non si tratti di simboli vuoti o di mero egoismo provvede a chiarirlo la destra liberista più estrema, allineata ma ipercritica nei confronti del nuovo statualismo radcon. Un acuminato rapporto del Cato Institute sottopone ad un vaglio certosino il bilancio federale, portato da Bush dal 18% sul Pil del 2000 al 20% del 2004 11. A farlo più grasso ha provveduto sì la spesa militare. Ma nel suo picco finale essa non ha supera il 4,5% sul Pil. Ben lontana dalle cime del 13,2% della Guerra di Corea, dal 6,2% dell'era reganiana o dal 5,6% ancora toccato nel 1989 fatale. Di mezzo, a indicare l'avvento di altre leggi di funzionamento del complesso militar-industriale, ci sta la potatura del settore amputato di oltre 3 milioni di addetti, tanto nell'industria quanto nell'apparato militare. A crescere con una progressione seconda solo a quella dei tempi d'oro di Johnson stanno le spese discrezionali, governate dal Congresso, pari ormai a quelle militari e lungo impennate superiori a quelle registrate dagli esborsi dei grandi istituti del Welfare: sicurezza sociale, Medicare, Medicaid. Attorno alla ownership society Bush e i suoi radcon dispongono e oliano la rete formidabile del conservatorismo compassionevole, un misto di big government, terzo settore e volontariato, originalmente e potentemente disposto a macchina propulsiva dei `valori morali' repubblicani. 
Sarebbe utile vedere come e perché questo armamentario di tipo nuovo si disponga in radicale discontinuità rispetto alla complessiva tradizione politica statunitense. O, ancora, per quali canali esso possa esercitare un fascino calamitoso su altri laboratori anch'essi alle prese con transizioni difficili. Ma lo spazio è tiranno. 
Come in Iraq, anche in casa propria Bush shocks and awes, colpisce e terrorizza. Ma non conquista. La vittoria è ancora zoppa d'egemonia. Né è dato vaticinare su un secondo mandato, specie quando aperto in maniera così avventuristica dalle promozioni di Condoleezza Rice e Alberto Gonzales. Conviene semmai rammentare che la prima Guerra dei Trent'Anni fu chiusa, quasi per esaurimento dei suoi contendenti, dal Trattato di Westfalia: un atto che avviò il XVII secolo, `il secolo di ferro', ad una chiusura epocale sigillata - come ricorda Henry Kamen - dalla «vittoria del potere e della proprietà». A noi figli del '900 non è permesso il lusso della stanchezza. Rischieremmo di pagarlo troppo caro.




note:

a Nella tradizione americana i `rossi' sono i repubblicani e i `blu' i democratici, dai colori dei rispettivi partiti (NdRM)
1  Faust, nella traduzione italiana di F. Fortini, Mondadori, Milano 1990, p. 87.
2  Vedilo ora ripresentato, con nuovi apparati e un saggio di Franco Volpi, nella traduzione di G. Gurisatti: Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo, Adelphi, Milano 2002.
3  A. M. Schlesinger jr., The Disuniting of America: Reflections on a Multicultural Society, W. W. Norton, New York 1991, tr. it. La disunione dell'America. Riflessioni su una società multiculturale, Diabasis, Reggio Emilia 1995; S. P. Huntington, Who Are We?, Simon & Schuster, New York 2004.
4  The Two Americas: Our Current Political Deadlock and How to Break It, Thomas Dunne Books, 2004.
5  30 Years' War. How Bush Went Back to the 1970s, in «The New Republic», 5 novembre 2004.
6  Reason. Why Liberals Will Win the Battle for America, Knopf, New York 2004, malamente tradotto quanto al titolo - nell'evidente tentativo di cavalcare una vittoria democratica - in un enfatico Perché i liberal vinceranno ancora (Fazi, Roma 2004) che amputa il titolo originario del tratto distintivo di uno schieramento - Reason, la Ragione - e soprattutto tradisce l'impasto originale di «pessimismo dell'intelligenza e ottimismo della volontà» trasfuso in quelle pagine.
7  Si vedano le puntate dedicate alla progettazione e alla nascita del network di think tank conservatori: La lunga marcia a destra di Dio e I serbatoi d'odio fanno il pieno del 10 e del 13 novembre.
8  J. Carville e S. Greenberg, Re: Solving the Paradox of 2004. Why America Wanted Change but Voted for Continuity, rinvenibile su www.democracycorps.com.
9  Nel gergo politico e giornalistico quest'area attiva della società è stata ribattezzata, nelle sue concrete manifestazioni, 527 Organizations, dalla sezione del Codice tributario che ne disciplina e regola le possibilità di intervento
10  One Nation, Two Cultures, Vintage Books, New York 1999, pp. 116-7.
11  V. de Rugy, The Republican Spending Explosion, in «Cato Briefing Papers», n. 87, 3 marzo 2004.