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Di regioni, nazioni e nuovi principati

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“Di regioni, nazioni e nuovi principati”

Bari 19 dicembre 2014

Intervento al convegno su

Stati, regioni e nazioni nell’Unione Europea”

 

«Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia»[1].

Ossessivi questi versi rimbombano in testa mentre qui, tra noi, si distendono e accavallano i racconti dei tumulti che da qualche tempo colorano l’Europa, ne macchiano e agitano cuore e angoli remoti.  E il rimbombo diviene ancor più assordante a fronte della constatazione che ormai, in tanti dei casi qui sottoposti alla nostra attenzione, la realtà ha ragione anche della fantasia più sfrenata.

In queste pagine, grazie ad una messe di analisi che difficilmente trovano audience nel nostro paese o nei circoli dell’europeismo più blasonato, ci siamo avventurati per le geometrie non euclidee del post-statuale, in quelle volute in cui popoli e élites provano a riconquistare sovranità, riconfigurando, accavallando in forme inedite regioni, nazioni e unioni sovranazionali. Il più delle volte si è costretti a stringere le pupille, nel tentativo di aguzzare la vista, provare a distinguere nella marea di soggetti che sembrano farsi avanti, affollarsi, fin quasi a sommergerci. La prima impressione è quella di una moltiplicazione di nuove figure costituenti, di un far massa che preme e rompe le vecchie mura, i recinti tradizionali.

In realtà, ad uno sguardo più attento, ad una valutazione più distaccata e alta non sfugge come questi movimenti improvvisi e disordinati siano spesso il prodotto di una scena che in realtà si rattrappisce, a somiglianza della famosa scatola sperimentale che stringe le sue pareti su topolini costretti a subire una progressiva restrizione dello spazio vitale e lanciati perciò per rincorse e scontri sempre più parossistici. All’occhio dell’osservatore più disincantato non sfuggirà il quadro di insieme: un deserto sempre più ampio avanza e si allarga a contornare queste oasi affollate. Così come all’orecchio più allenato non sfugge il progressivo arrochirsi delle voci che di lì si levano, la loro costante, inevitabile mutazione in grida disperate. Eccola la nota dominante: l’accavallarsi di voci, spesso cacofonico e convulso, ma sempre vario e mutevole, ha da tempo lasciato spazio ad un urlo monocorde, ad una politica rattrappita attorno ad un diffuso, lacerante rancore sociale.

Altri osservatori, altri critici, dotati magari di sonde più acute e smaliziate, vorranno o potranno scorgere nei mutamenti sempre più rapidi della scena sociale e politica europea le mosse convulse di un ceto politico onnivoro, attento alla manutenzione di regole e ambienti funzionali soprattutto alla manutenzione e alla perpetuazione nel XXI secolo della «clase discutidora» eternata un tempo da Donoso Cortés. Sotto questo profilo analitico, appare quanto mai istruttivo il laboratorio italiano. Come sempre, il Belpaese ha rivelato proprietà e capacità anticipatrici rispetto al Vecchio Continente e ad ogni sua realtà nazionale. È sulle nostre rive che i comandamenti della nuova Unione europea – quella congerie di direttive e regolazioni riassunta sotto il termine onnicomprensivo ‘austerità’ - hanno saputo produrre mutamenti rapidissimi quanto radicali del sistema politico. Sotto quella sferza, prima che in qualsiasi altro paese europeo, la nostra giovane Repubblica si è avventurata per una precoce quanto precaria e ininterrotta metamorfosi dei propri assetti istituzionali e politici. Come dimenticare che in meno di un ventennio abbiamo già accumulato più o meno infruttuosamente tre tentativi di riforma costituzionale: in primis, la precaria e avventurosa riforma del Titolo V della Costituzione e dei rapporti tra Stato centrale e Regioni, promossa e imposta dal centro-sinistra; successivamente quella ancor più radicale, per il suo impatto istituzionale, voluta dal centro-destra e definitivamente bocciata dagli Italiani con il referendum del giugno 2006; infine quella del 2012 sul pareggio di bilancio, in omaggio ai dettami europei di politica economica e monetaria. Come non sottolineare soprattutto come questi complessivi mutamenti, accumulati nell’ultimo ventennio, non abbiano affatto prodotto stabilità. Tutt’altro: sono oggi tutti materia incandescente di un confronto politico e istituzionale che sta impegnando severamente, e per alcuni aspetti corrodendo, le residue energie politiche e istituzionali di un paese giunto a livelli di sfiducia e astensionismo politico finora impensabili. 

Da tempo e da più parti, con l’impiego delle chiavi interpretative più varie, si insiste per provare ad orizzontarsi e inquadrare queste convulsioni, sulla corsa a ricollocarsi nel mondo indotta dallo spaesamento prodotto dai processi di globalizzazione. Le coordinate geografiche abituali non bastano più a ridar nome alle cose e ai processi, a recuperare ed esercitare soggettività, identità. Né soccorrono le vecchie appartenenze: troppi vessilli ammainati frettolosamente o improvvidamente agitati. Vi è bisogno di una nuova più puntuale ricognizione del terreno. Né si può cedere alla tentazione semplicistica, oggi fin troppo abusata, di ricorrere alla strumentazione più semplice per provare – magari illudendosi - a ridare una parvenza d’ordine al tumulto che ci contorna. Il palmo della mano, la falcata del passo, il colore della pelle o del nostro credo non ci aiutano più, nemmeno in quel ‘locale’, ossessivamente praticato ma oggi irrimediabilmente dilatato e screziato da un mondo divenuto vita quotidiana.

Servirà allora un ricorso più sorvegliato alla categoria di globalizzazione per evitare di limitarsi alla semplice evocazione di un ‘nonluogo’[2]. Intanto per ricollocarsi in un tempo preciso, non prefato più da un indistinto ‘post’ buono a tutti gli usi: sia esso post-moderno, post-novecentesco o, più generalmente, post-89. La caduta del Muro ha davvero fatto epoca e come tale ha bisogno ormai d’esser distanziata così come l’illusione allora fatale che la storia fosse finita. Di lì è iniziato piuttosto un nuovo galoppo da cui siamo ancora strattonati disordinatamente. E perciò abbiamo ancor più bisogno di partire nell’epoca nostra, sezionare, per orizzontarci. E provare così a riconoscere il tempo nuovo in cui siamo stati scagliati dall’11 settembre e dalla successiva guerra al terrorismo allora proclamata con tanto di corollari sulla «esportazione della democrazia». Per provare magari a contornare il fallimento dell’unilateralismo USA, la rovinosa crisi dell’egemonia a stelle e strisce causata da quegli atti e i nuovi attori e processi attivati da quelle scelte. Per questa via, magari, riusciremo a collocarci meglio sulla mappa del mondo di Terzo Millennio da tempo avviato ad una radicale rivisitazione dei rapporti di forza, non più segnati dal dominio unilaterale sul globo imposto per oltre tre secoli dall’Occidente capitalistico.

Con l’aiuto di queste ultime prospezioni analitiche potremo magari illimpidire lo sguardo su alcune delle pagine più discusse della presidenza Obama e su qualcuno dei mutamenti che stanno scuotendo il terreno su cui poggiano i nostri piedi. Su tre di essi converrà, in particolare, appuntare l’attenzione: un riequilibrio complessivo sta intervenendo nel metabolismo di un globo unificato dall’Europa conquistatrice ma ora rimodellato dal ritorno sulla scena dell’Asia e dei suoi giganti; gli USA non dipendono più dal petrolio come per il passato, quel passato che portava Franklin Delano Roosevelt, di ritorno da Yalta, all’incontro fatale con i Saud o il Presidente Carter a proclamare nel 1980 il Golfo Persico zona di «vitale interesse per gli USA»[3]; più che mai oggi il mondo non è più abitato in forma esclusiva ed omogenea dallo Stato-nazione e dai suoi multipli o sottoinsiemi. Il globo come cipolla rivela ad ispezioni accurate varie stratificazioni. Il suo metabolismo denuncia reti e flussi sempre più intricati. Prima ancora degli studi pioneristici di Saskia Sassen sulla città globale e sulle sue reti[4], la fantascienza e la letteratura cyberpunk ci avevano introdotto al mondo ridisegnato attorno allo Sprawl[5], la città diffusa ridisegnata dalle reti e dai flussi di merci e comunicazioni che stringono il globo. Già nel 2007 le Nazioni unite segnalavano il sorpasso della popolazione rurale da parte di quella urbana, divenuta nel 2014 il 53% del totale. Accostando la lente a questa mutazione, si può scoprire che le cosiddette ‘megacittà” con oltre 10 milioni di abitanti - appena 2 nel 1950 - sono cresciute a 10 nel 1990 e 28 nel 2014; le 21 città che nel 1990 vantavano tra i 5 e i 10 milioni di abitanti sono raddoppiate a 43 nel 2014, mentre le ‘piccole’ città collocate tra 1 e 5 milioni di abitanti sono passate da 239 a 415. Sulle coste cinesi tra il 2007 e il 2010 tre città – una per anno – hanno raggiunto lo status di megacittà con oltre 10 milioni di abitanti[6].

Di fronte a questi sviluppi è quanto mai illusorio e fuorviante ostinarsi nel disegnare la parabola complessiva del neoliberalismo, egemone indubbio del nostro tempo, come una resa – più o meno ordinata - o, peggio, una rotta - magari rovinosa - della politica rispetto al mercato e al suo potere sovraordinante. Converrà ancor oggi mettere a frutto la lezione, la strumentazione analitica che in un’altra età Antonio Gramsci proponeva per la comprensione del capitalismo novecentesco e degli immensi processi di socializza­zio­ne  attivati dalla deflagrazione del primo conflitto mondiale e dalla Grande Crisi. Egli allora sottolineava che «anche il liberismo è una “regolamentazione” di carattere statale, introdotto e mantenuto per via legislativa e coercitiva: è un fatto di volontà consapevole dei propri fini e non l’espressione spontanea, automatica del fatto economico. Pertanto il liberismo è un programma politico, destinato a mutare, in quanto trionfa, il programma dirigente di uno Stato e il programma economico dello Stato stesso»[7]. Nella costanza di questa lezione, immutata rispetto ai vari ‘neo’ che hanno provato a complicarla, i mutamenti che si sono prodotti hanno solo confermato le intuizioni allora messe a frutto sulla distinzione solo metodica, affatto organica, da osservare rispetto alle categorie di Stato e società civile. Colpisce piuttosto l’unicità di accenti con cui – rispetto a Gramsci ma a distanza di tempo e da ben altre sponde culturali e politiche – un pensatore come Michel Foucault ha indirizzato la sua ricerca su neoliberismo e biopolitica: «nel regime del liberalismo la libertà non è un dato, un ambito già costituito che si tratterebbe semplicemente di rispettare; se lo è, lo è solo parzialmente, regionalmente, in questo o quell’ambito particolare ecc. La libertà è qualcosa che si fabbrica in ogni istante. Il liberalismo, pertanto, non è di per sé accettazione della libertà, ma è ciò che si propone di fabbricare la libertà in ogni istante, suscitarla e produrla, con ovviamente [tutto l’insieme] di costrizioni, di problemi di costo che questa fabbricazione comporta»[8].

Sarebbe davvero illusorio nel mondo di terzo millennio provare a rintracciare l’equivalente binomio di società civile e Stato, uno Stato mondiale che sia forma della società civile globale. Questa rimane ‘informale’. Non conosce governo globale, mentre concretamente derubrica Stati e governi a maglie e nodi particolari della propria rete. Si dibatterà a lungo se questa assenza o carenza sia un segnale di imperfezione e incompiutezza o forma di una politica che nel multinazionale o globale è più o meno destinata o condannata a complicarsi, ad abbandonare  la geometria piana euclidea della statualità, per avventurarsi su costruzioni multilivello, post-moderne o neomedievali che siano. Il globo occupato dallo Sprawl ha abbandonato da tempo le geometrie piane dell’ordine di Westphalia, abitato dall’onnipotenza di Stato e politica e dalle loro ordinate movenze. Il governo – ovvero la configurazione eminentemente istituzionale della sovranità - sempre più ha dovuto cedere spazio alla governance, ovvero a quella «struttura di regole, istituzioni e pratiche che – secondo i rapporti sullo sviluppo umano delle Nazioni Unite[9] -  stabiliscono limiti sui comportamenti di individui, organizzazioni e società e che sovraintendono all’evoluzione della società, dell’economia e dell’ambiente». Oggi le maglie e i flussi transnazionali, le commistioni di pubblico e privato, il fitto reticolo di istituzioni sovranazionali hanno trasformato la sovranità nell’esercizio di un potere condiviso da molti, spesso esercitato a più livelli, attraverso meccanismi di controllo e di indirizzo o tramite procedure negoziali, crescentemente segnato dal protagonismo su scala regionale – ovvero continentale – di uno o più attori, e progressivamente influenzato da soggetti transnazionali o da una grande varietà di gruppi di pressione e di organizzazioni non governative. Entro questa nuova geometria dei poteri, immersa nelle dinamiche che muovono queste reti, la vita di ognuno è costretta a misurarsi con l’invadenza sempre più quotidiana e stringente del mondo, col fatto che ai «rapporti interni di uno Stato-nazione si intrecciano i rapporti internazionali, creando nuove combinazioni originali e storicamente concrete», col fatto magari che «una ideologia, nata in un paese piú sviluppato, si diffonde in paesi meno sviluppati, incidendo nel gioco locale delle combinazioni». Bisogna allora saper fare i conti fino in fondo con il mondo attuale e le sue dinamiche e complicazioni. Da tempo la scena mondiale ha smesso di assomigliare, per dirla con John W. Burton[10], ad un liscio bigliardo su cui, come palle, corrono solo gli Stati, cozzando e interagendo reciprocamente secondo precise e predeterminate traiettorie, nella assoluta impenetrabilità dei corpi postulata dalla fisica e dalla diplomazia classiche. Ora il bigliardo della globalizzazione è diventato molto più affollato e complicato e non contempla più la legge sovrana per cui due corpi solidi non possono occupare contemporaneamente la medesima porzione dello spazio. Lo Stato non ha più a proteggerlo e schermarlo la vecchia corazza: adesso politica interna e politica estera comunicano e si intrecciano. Il metabolismo della comunità non rimane più sigillato entro i confini nazionali.  Né la statualità nazionale ha saputo conservarsi come organizzatrice unica della vita civile a livello sovranazionale. Una miriade di altri soggetti – economici, civili, religiosi quando non criminali - adesso influisce, spinge o frena. Si moltiplicano pressioni e interazioni che rendono sempre più improbabili e improponibili cadute e assalti repentini.

L’uomo di terzo millennio vive – soffre - da tempo un nuovo “Ellenismo”. Come ha notato Marco d’Eramo, già in un’altra età dopo Alessandro il Macedone, «il mondo mediterraneo apparve improvvisamente troppo grande per gli strumenti tecnici della democrazia di quell’epoca, troppo sterminato per essere amministrato dai meccanismi della polis … L’individuo fu confrontato a una economia-mondo, a una organizzazione sociale e politica che non era più alla sua misura. Non era più credibile l’orgoglio del sofista Protagora: “L’uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono per quel che sono e di quelle che non sono per quel che sono”. Tutto si fece smisurato: le vite dei singoli diventavano percorsi caotici all’interno di un “mondo complesso”»[11]. Ai giorni nostri questo spaesamento ha ormai assunto tratti patologici, volta a volta e nei più diversi contesti mutato in agorafobia, paura dei grandi spazi, o subìto come minaccia, pericolo. Il cartiglio «Hic sunt leones» ora spunta ad ogni pie’ sospinto. Il mondo ci si rivela privo d’ogni metro o compasso: senza più «né cosmospolis»[12]. La ricerca di vie di fuga, approdi sicuri, e anche di isolamento, recinti, muri protettivi, si fa sempre più spasmodica. A mano a mano che l’urto delle comunicazioni realizza quel miracolo già intravisto da Marx, «l’annullamento dello spazio per mezzo del tempo»[13], siamo trascinati, confusi in una «modernità come incessante, sempre più turbinoso, vortice dei corpi e delle merci, oltre che delle parole e delle immagini»[14].

Come è stato efficacemente sottolineato, «tutte le identità collettive sono rimescolate dal faccia a faccia brutale dell’individuo e del pianeta: per riprendere il titolo di un libro, razza, classe e nazione sono sempre state identità ambigue»[15]. Lungi dall’appiattirsi sotto la livella della globalizzazione, il rullo compressore dell’americanizzazione, l’identità diviene proprio a contatto con quei solventi una ricerca incessante, rovello quotidiano, tizzone ardente. Essa però si rivela anche nella sua evidente storicità un costrutto, un artifizio: «al meglio, una costruzione culturale, una costruzione politica o ideologica, ovvero una costruzione storica»[16]. Sezionata dalla lente dell’analista rivela la sua dimensione processuale, duale: «l’identità di ogni organismo, individuale o collettivo, è fatta di una negoziazione perpetua tra continuità e mutamento (tra fedeltà e innovazione), e tra se stesso e il suo ambiente, tra l’interno e l’esterno, tra il sé e gli altri. Nel loro caso, questa doppia negoziazione tra il tempo e lo spazio è essa stessa moltiplicata»[17].

Il tema, non nuovo, ha conosciuto nel tempo analisi approfondite che ci hanno rivelato segreti e pulsioni dei meccanismi che nel tempo hanno presieduto all’«invenzione della tradizione» o alla promozione delle «comunità immaginate»[18]. A sospingere da sempre questo motore di innovazione politica sta – in particolare nella tradizione occidentale, fin dalla creazione della polis[19] – quell’attore individuato come immaginazione costituente: «una facoltà, ma nel senso kantiano del termine; è trascendentale, costituisce il nostro mondo invece di esserne il lievito o il demone. Soltanto … questo trascendentale è storico, perché le culture si susseguono e non si assomigliano. Gli uomini non trovano la verità: essi la costruiscono come costruiscono la loro storia, ambedue secondo la loro utilità»[20]. Ai nostri giorni - più che in ogni altra epoca, in omaggio proprio allo straordinario potere di manipolazione e artificializzazione del globo che l’umanità rivela ogni giorno - «questa verità è figlia dell’immaginazione. L’autenticità delle nostre credenze non si misura a seconda della verità del loro contenuto … siamo noi a costruire le nostre verità e non è ‘la’ realtà che ci porta a credere. Poiché essa è figlia dell’immaginazione costituente della nostra tribù»[21].

Nella polis del V secolo Clistene con la sua riforma – con la sua particolarissima immaginazione costituente - seppe trasformare le tribù in popolo, in comunità politica. Da allora quel miracolo, quell’artifizio si è perpetuato più volte innovando ogni volta nel composto, nella miscela irripetibile di ogni patto politico, poi sedimentata – nei tempi a noi più vicini – in patti e carte costituzionali: un giuramento per il futuro di una comunità, i suoi propositi, i suoi programmi per il mondo a venire. Oggi, nel mondo, nell’Europa di Terzo Millennio, assistiamo – come qui del resto è ampiamente documentato – ad una moltiplicazione di soggetti e piani costituenti. Perché questa esplosione? E soprattutto in che rapporto essa sta – se c’è rapporto – con la mutazione d’ambiente e intima che avviene in e attorno a quel motore costituente? Cosa accade all’immaginazione, quando il suo tempo non scorre e si innalza più sicuro innanzi, ma si incurva, quando gli orizzonti si oscurano? Anzi, quando il futuro più che farsi incerto assume sempre più le fattezze dell’incubo, quando si disegna peggiore per gli eredi di quello ereditato dai nostri progenitori.

A far da discrimine nel mutamento dei tempi e da contorno alle eccitazioni dei nuovi costituenti c’è l’avvento, la massiccia, inarrestabile marcia del vuoto. Là dove prima vi erano strade e piazze colme di popolo, ora dominano rarefazione e abbandono. Sezioni e urne elettorali un tempo piene sono sempre più disdegnate da iscritti e elettori in libera uscita. Paradossale la tendenza rivelata dai più recenti trend elettorali nel Belpaese: l’«inedita topografia dell’astensionismo», la sua «rivoluzione geografica». La partecipazione al voto sul territorio nazionale ormai rovescia in forme spesso clamorose la graduatoria che eravamo abituati a rilevare, con un Nord con le sue virtuose, altissime percentuali di votanti, di contro a Mezzogiorno e Isole, abituali fanalini di coda. Adesso «sono proprio le aree del Nord, e con esse le regioni rosse, quelle in cui con maggiore evidenza gli argini si sono rotti, e si sono verificate le più massicce ‘fuoriuscite’ di elettori»[22]. Più in generale, in tutta Europa il comportamento elettorale rivela che è in profondo rimescolamento quella genealogia della azione collettiva e della politica individuata da Albert Hirschman ormai quasi mezzo secolo fa[23]. A farla da padrone ai giorni nostri, a convincere i più, la maggioranza spesso, è proprio la defezione, l’exit, l’abbandono del terreno di gioco: l’astensione. Di contro, lealtà e protesta divengono prerogativa di minoranze massicce le une contro le altre ferocemente armate, tenute assieme e sospinte – spesso in ibride combinazioni - dalle nuove miscele di leaderismo e populismo.

Fatichiamo a comprendere questi nuovi sommovimenti. Le nostre vedute sono ancora tutte traboccanti di quella ribellione delle masse che ha dato colore e spessore ad un’età, cosicché fatichiamo a cogliere il cambio di stagione intervenuto alla svolta di secolo con la rivolta delle élites[24]. Ma è con questi drammatici cambi di passo, con le divaricazioni sottostanti che bisogna fare i conti se si vuole riagguantare il bandolo della matassa, ricominciare a tessere tela. Intanto mettendo sotto la lente dell’osservazione le diseguaglianze, fonte primaria dello scasso di politica e democrazia.

Credit Suisse e, sulle sue piste, Oxfam International hanno evidenziato il picco toccato dalle diseguaglianza globali: a fine 2014 l’1% più ricco dell’umanità controlla ormai  quasi la metà, per la precisione il 48%, della ricchezza globale[25]. A ridosso di questa divaricazione planetaria, una immensa bibliografia prova da tempo a misurare ed apprezzare, per ogni angolo del mondo, repliche e inflessioni particolari di questa ferrea, quasi inarrestabile deriva[26]. Di fatto non c’è paese al mondo che abbia saputo o voluto contrastarla, semmai emergono casi particolari – ad esempio, per l’Italia – in cui assieme all’ampliarsi delle diseguaglianze è andato di pari passo un innalzamento straordinario dei livelli di povertà, il più ampio tra tutti i paesi dell’UE nel primo decennio del secolo, con conseguenze devastanti in termini di disagio  sociale e mutamento dello spirito pubblico[27].

Anche in  questo caso un pensiero che viene da lontano può far da bussola. In questo caso è Aristotele con il suo ammonimento sulle origini stesse della stasis, della guerra civile come dissoluzione della polis: «la ribellione nasce ovunque dalla diseguaglianza». Con impareggiabile maestria il suo scalpello mostrava già come nel mondo antico un irriducibile contrasto opponesse i pochi, oligoi, i migliori, beltistoi, i ben nati, gennaioi, la gente per bene, chrestoi, ai molti, polloi, gli inferiori, cheirones, il popolino, ochlos, la canaglia, poneroi. Il punto è che a rendere inarrestabile il conflitto non era solo la dinamica sociale. A pesare in maniera decisiva – egli statuiva – era «la ricerca di eguaglianza» attivata dall’integrale sottomissione della polis e dei suoi equilibri alla volontà degli uomini che la popolano e che la animano, alla loro capacità di imporre o di accordarsi attorno a regole e leggi: l’isonomia, l’uguaglianza di fronte alla legge[28]. Già allora si individuava un solco incolmabile tra democrazia e ricchezza dei pochi. Il XXI secolo ora fa emergere nuovi aristoi, forti non solo di immense, abituali ricchezze ma di un inedito controllo sulla natura e sul globo. La tentazione allora diviene fortissima per provare a tradurre diseguaglianze e gerarchie generate dalla globalizzazione neoliberista in una nuova oligarchia. Fatto sta che sono proprio scienza e comunicazione, le potenze unificatrici del globo, a rendere oltre misura intollerabili le divisioni del mondo odierno e a rinverdire drammaticamente l’ammonimento di Aristotele. Contrariamente ai tanti miti propalati dalle più diffuse e fortunate utopie tecnocratiche, la tecnologia non acqueta il mondo. Non lo addormenta né smussa asperità o contrasti. All’indomani del II conflitto mondiale, quando si apriva una nuova pagina della nostra storia, Arnold Toynbee annotava con straordinaria lungimiranza che «mentre prima, la ineguale distribuzione dei beni di questo mondo fra una minoranza di privilegiati e una maggioranza sprovvista di privilegi era considerata un male inevitabile, oggi le ultime invenzioni tecniche del mondo occidentale l’hanno fatta diventare una intollerabile ingiustizia». L’hanno elevata al rango di «una enormità morale, poiché ha finito di essere una necessità pratica»[29], ha smesso di esistere come espressione dei limiti imposti dalla scarsezza dei mezzi o dalla natura matrigna.

Oggi, quando moneta e vita ormai si dissolvono e vengono ricomposte nei flussi di bits e nei codici di finanza e biotecnologia regolati e controllati da un pugno di aziende, queste pulsioni e tendenze stanno venendo a punti di tensione insopportabile. Soprattutto qui in Europa dove da oltre un ventennio - mentre ci si sforza di stare al passo, se non alla testa della corsa universale verso la «società della conoscenza» - si prova a modellare e completare il più ambizioso degli artifizi: con il forcipe dell’euro estrarre dall’utero dell’Unione Europea, nata a Maastricht sulle rovine del Muro, il demos europeo. Inchiodato da un ventennio ai precetti e ai comandamenti dell’austerità, quel progetto, dopo l’incrocio con la crisi finanziaria internazionale, appare mutarsi in incubo. La ricerca del demos lentamente ma inesorabilmente ha attivato sì l’immaginazione costituente, ma sempre più spesso, assieme ad essa, anche demoni. A mano a mano che il tessuto delle democrazie europee, lo stato sociale, quel sostrato unificante di una civiltà, di un comune sentire di gran parte dell’Europa comunitaria è stato sottoposto ai morsi della crisi e della regolazione neoliberista dettata dall’UE, speranza e fiducia hanno lasciato il campo a sconforto e disillusione. Ne è vivida testimonianza il mutar di tono e d’accenti della pubblicistica che sempre più copiosa s’affolla a commentare ogni passaggio della vicenda comunitaria ed europea. Là dove nei titoli che accompagnavano l’albeggiare di Maastricht e dell’euro campeggiavano un tempo apertura al futuro e fiducia nel controllo del pianeta e del secolo nuovo, oggi dominano chiusure ed espressioni cupe quali «colpo di Stato» e «collasso», «fallimento» e «tramonto» o «Titanic», quando non addirittura evocazioni infernali: si pensi al «mostro» - per quanto «buono» - di Enzensberger o al «risveglio dei demoni» di Pisani-Ferry[30]. La scalata disinvolta del XXI secolo ha lasciato posto all’assedio del «mondo grande e terribile», alla chiusura claustrofobica di chi si rinserra a difesa del mondo di ieri, preda di pulsioni identitarie, quando non xenofobe,  e di un sordo «sciovinismo da benessere»[31].

Demos e demoni si frammischiano e sospingono a vicenda nella ricerca di spazio e legittimazione. I sommovimenti, vari e convulsi, in genere, trovano un terreno fertile nelle regioni ricche di un aggregato nazionale. A minimo comune denominatore vi è quasi sempre la richiesta di un federalismo spinto che, in nome di un presunto europeismo, vuole eguaglianza e promozione di opportunità per le parti più ricche di Europa. Di qui un ruolo sempre più centrale delle metropoli, di distretti e centri direzionali. Lo Sprawl della letteratura cyberpunk si vendica, mimando lo Stato e supponendo sovranità, rotonde e piene, che non esistono più nel mondo reale.

Cosa poi accade quando si paga un tributo così alto alla ricchezza come motore e principio costituente? Come si farà a negare allo stesso principio di mutarsi in regolo ordinatore di tutte le dinamiche, interne ed esterne, dell’area? Ad arrivar primi saranno sempre e soltanto i ricchi, i più dotati. Che magari per ora provano a maneggiare ricchezze straordinarie, senza accorgersi magari del rischio che esse possono tramutarsi in monocolture rischiose. Si pensi oggi al peso del petrolio del Nord nel dibattito e nelle dinamiche dell’indipendentismo scozzese. Lo scenario in poco tempo è stato terremotato dalle volute del prezzo crollato a livelli che possono renderne persino anti-economica l’estrazione: il supporto di una piena sovranità all’improvviso è apparso traballante e azzardato, una rischiosa prigione, di fronte alla prospettiva che anche la dismissione di pozzi debba abbisognare di investimenti.

Improvvisamente, e ad ogni latitudine, sotto i colpi della crisi fiscale dello Stato causata dallo stallo della crescita, il federalismo è stato investito da una clamorosa delegittimazione esistenziale e di prospettiva. Sembrava – in Italia soprattutto, con il corollario della riforma del Titolo V della Costituzione - la chiave di ingresso alla governabilità del XXI secolo. Doveva alleggerire la pressione fiscale e garantire una spesa pubblica ottimale. Si è rivelato un calvario. Ha inacidito i contribuenti. Deluso gli utenti. Arricchito corrotti e criminali. Adesso spesso lascia il campo al più radicale dei sogni o degli incubi: la flat tax.

Il risultato fondamentale di questa epocale spaccatura è un reciproco e vicendevole ritrarsi nelle proprie sfere di cittadini ed élites, di gente comune e governanti, fino al costituirsi di due mondi contrapposti: «c’è allora un mondo dei cittadini … e un mondo di politici e di partiti, con interazioni tra le due sfere in calo radicale. I cittadini mutano da partecipanti in spettatori, mentre le élites conquistano spazi sempre più estesi nei quali poter perseguire i loro particolari interessi. Il risultato è l’inizio di una nuova forma di democrazia, in cui i cittadini stanno a casa mentre i partiti continuano a governare»[32]. Osservata dall’alto, da un osservatorio sovranazionale, questa progressiva divaricazione si rivela come una radicale evaporazione di Stato e democrazia. Di fatto, il potere si sposta verso l’alto e altrove (l’Europa, le istituzioni sovranazionali). Alla fine non rimane che arrendersi all’amara constatazione di un potere sovranazionale, l’Unione europea, che risucchia tutte le politiche, senza però conquistare la politica o un popolo, un demos. Sul campo rimangono Stati alle prese con una politica senza politiche[33]. La si etichetti con Colin Crouch postdemocrazia[34] o con Mair politica senza popolo, assistiamo al passaggio ad una democrazia senza partiti, in cui il partito politico non è più casa del cittadino né abito del leader. Crollano i livelli di partecipazione politica così come l’affluenza alle urne. Muta drammaticamente la fedeltà dell’elettore. Ovunque in Europa i sistemi politici sono in crisi profonda, ovunque vanno in frantumi le tradizionali coordinate bipartitiche che un tempo reggevano il sistema (la stessa Germania, icona della stabilità, ha visto i suoi due tradizionali partiti dell’alternanza, SPD e CDU, passare dal 90% a poco più del 56% delle preferenze elettorali nel 2009). Ovunque la politica incrocia e subisce l’onnipotenza della comunicazione diventando spesso -  a fronte dell’immediatezza, delle urgenze di quest’ultima – incomunicabilità, disperazione. Nella sfera onnipotente della comunicazione la politica come strumento della partecipazione finisce sotto osservazione come pezzo, segmento di un mondo più largo e disteso – la vita - in cui finiamo con l’osservare la politica come una sfera estranea alla nostra esperienza complessiva: qualcosa che riguarda la governabilità, di esclusiva pertinenza delle élites. E’ così che alla fine rimangono sul terreno partiti senza militanti, in un «processo di inesorabile ritiro dei partiti dal campo della società civile verso quello del governo e dello Stato»[35]. Da agenti della rappresentanza si mutano o pervertono in agenzie della governabilità.

In Europa più che altrove questo processo sta conoscendo le sue evoluzioni più radicali. Qui più che altrove nel mondo la governance – nei suoi molteplici tentacoli e nelle sue mille declinazioni – è divenuta una calamita inesorabile. Si pensi al Belgio e alla crisi di governo durata per anni: non vi sono state conseguenze drammatiche. Quasi nessuno si è accorto dell’assenza di un governo appesi di fatto al paracadute della governance sovranazionale.

Qui più che altrove una straordinaria immaginazione costituente prova ad edificare e conquistare un popolo europeo, segando allo stesso tempo, con le politiche di austerità, il ramo di quello stato sociale europeo su cui da decenni poggia una reale, possibile identità europea. Perché meravigliarsi se, marchiando lo Stato sociale europeo come ruggine, eurosclerosi, immediatamente il percorso di «una unione sempre più stretta tra i popoli d’Europa» si è popolato di ostacoli e sommovimenti, se già l’annuncio dell’euro ed i primi referendum si mutarono in crisi dello SME, se il tentativo di rinsaldare il rapporto tra il mondo del lavoro e l’UE con il Piano Delors e il trattato di Amsterdam ha poi dato vita al Patto di Stabilità, se diritti e poteri conquistati con il Trattato di Lisbona pervertono nei nuovi lacci costituzionali del pareggio di bilancio.

In questa inesorabile – almeno finora – evaporazione del politico, sembrano emergere due risultati, due prodotti su cui converrà tener desta l’attenzione: «società incivile» e «bipensiero». 

Con la prima espressione intendiamo quell’insieme di modificazioni strutturali che, nei complessivi processi di deregulation, consegnano a nuove, inedite e a volte innominabili combinazioni di pubblico e privato, uno straordinario potere di condizionamento della vita civile e politica. Che si parli delle moderne oligarchie, figlie di decisioni politiche, o di mafie e poteri criminali capaci di espandersi ora ben al di là degli originari distretti, in forza dei nuovi meccanismi di governance, siamo di fronte a fenomeni modernissimi non più catalogabili sotto le tradizioni etichette della perversione corruttrice. Su di essi vale la pena di dirigere uno sguardo continuo e specifico.

E così anche per il «bipensiero» o «doublethink» eternato da Eric Arthur Blair (alias George Orwell) nel suo 1984: «Il bipensiero è l’anima del Socing, perché l’azione fondamentale del Partito consiste nel fare uso di una forma consapevole di inganno, conservando al tempo stesso quella fermezza di intenti che si accompagna alla più totale sincerità. Raccontare deliberatamente menzogne ed allo stesso tempo crederci davvero, dimenticare ogni atto che nel frattempo sia divenuto sconveniente e poi, una volta che ciò si renda di nuovo necessario, richiamarlo in vita dall'oblìo per tutto il tempo che serva, negare l'esistenza di una realtà oggettiva e al tempo stesso prendere atto di quella stessa realtà che si nega, tutto ciò è assolutamente indispensabile. Perfino quando si usa la parola bipensiero si cancella questa consapevolezza, e così via, all’infinito, con la menzogna in costante posizione di vantaggio rispetto alla verità»[36].

Converrà tenere a mente queste parole nell’osservare la politica e le sue epocali mutazioni.

 



[1] W. Shakespeare, Amleto, atto I, scena V; traduzione di Goffredo Raponi, LiberLiber.

[2] M. Augé, Non-Lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité, Paris, Seuil, 1992; trad. it. Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Milano, Elèuthera, 1996

[3] Per uno sguardo d’assieme, cfr. D. Yergin, The Prize: The Epic Quest for Oil, Money  and Power, New York, Free Press, 1991, tr. it. Il premio. L’epica corsa al petrolio, al potere, al denaro, Milano, Sperling & Kupfer, 1991.

[4] Tra tutti basta citare Cities in a World Economy, Thousands Oaks, Pine Forge Press, 1994 tr. it. Le città nell’economia globale, il Mulino, Bologna 2010.

[5] Vero e proprio fondale della trilogia cyberpunk di William Gibson: Neuromante, Count Zero e Monna Lisa Cyberpunk.

[6] Urban World. Cities and the Rise of the Consuming Class, McKinsey Global Institute, june 2012.

[7] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Torino, Einaudi, 1975, vol. III, pp. 1589-90.

[8] M. Foucault, Naissance du biopolitique. Cours au Collège de France 1978-1979, Paris, Seuil-Gallimard, 2004, tr. it.: Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Milano, Feltrinelli 2005, p. 67.

[9] In particolare, UNPD, Human Development Report 1999, Oxford, Oxford University Press, 1999, tr, it. Rapporto sullo sviluppo umano: vol. 10, La globalizzazione, Milano, Rosenberg & Sellier, 1999, p. 51.

[11] M. d’Eramo, Lo sciamano in elicottero. Per una storia del presente, Milano, Feltrinelli, 1999, p. 210.

[12] P. Hassner, La terreur et l’empire. La violence et la paix II, Paris, Éditions du Seuil, 2003, p. 352.

[13] K: Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie, Berlin, Dietz Verlag, 1953, tr. it. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Firenze, La Nuova Italia, 1970, vol. II, p. 160.

[14] D’Eramo, op.cit., p. 154.

[15] Hassner, op. cit., p. 51, che cita in proposito l’opera di E. Balibar – E. Wallerstein, Race, class, nation: les identités ambiguès, Paris, La Découverte, 1988, tr. it. Razza nazione classe. Le identità ambigue, Roma, Edizioni associate, 1991.

[16] Jean-François Bayart, L’illusione identitaire, Paris, Fayard, 1966, posiz. 69.

[17] Hassner, op: cit., p.51.

[18] Valgano per tutti i riferimenti a E. J. Hobsbawm, Nations and Nationalism since 1870, tr. it. Nazioni e nazionalismo dal 1780. Programma, mito, realtà, Torino, Einaudi, 1991; E. J. Hobsbawm- T. Ranger (eds.), The Invention of Tradition, Cambridge, Cambridge University Press, 1983, tr. it.  L’invenzione della tradizione, Torino, Einaudi, 1987; P. Anderson, Imagined Communities, London-New York, Verso, 1983, tr. it. Comunità immaginate. Origini e diffusione del nazionalismo, Roma, manifestolibri, 1996.

[19] Cfr. in generale C. Meier, Die Entstehung des Politischen bei den Griechen, Frankfurt am Mein, Suhrkamp Verlag, 1980, tr. it.  La nascita della categoria del politico in Grecia, Bologna, il Mulino, 1988, in particolare le pagine dedicate alla riforma di Clistene.

[20] P. Veyne, Les Grecs ont-ils cru à leurs mythes?, Paris, Éditions du Seuil, 1983, tr. it. I Greci hanno creduto ai loro miti?, Bologna, il Mulino, 1984, p. 32.

[21] Ivi, p. 187.

[22] Una puntuale ricognizione in M. Revelli, Finale di partito, Torino, Einaudi, 2013, posiz. 158.

[23] A. O. Hirschman, Exit, Voice and Loyalty. Responses to Decline in Firms, Organizations and States, Cambridge MA., Harvard University Press, 1970, tr. it. Lealtà, defezione, protesta. Rimedi alla crisi delle imprese, , dei pariti e dello Stato, Milano, Bompiani, 1982.

[24] Quasi scontati i richiami a J. Ortega y Gasset, La rebelión de las masas, Madrid, Ediciones de la Revista de Occidente, 1930, tr. it. La ribellione delle masse, Bologna, il Mulino, 1962 e 1984, e Ch. Lasch, The Revolt of the Elites  and the Betrayal of Democracy, New York-London,  W. W. Norton & Co., 1995, tr. it. La ribellione delle élites. Il tradimento della democrazia, Milano, Feltrinelli, 1995.

[25] Credit Suisse Research Institute, Global Wealth Databook 2014, october 2014 e Oxfam International, Wealth: Gaving It All and Wantin More, january 2015.

[26] Tra tutti, B. Milanovic, Worlds Apart. Measuring International and Global Inequality, Princeton University Press, 2005, tr. it. Mondi divisi. Analisi della diseguaglianza globale, Milano, Bruno Mondadori, 2007; U. Beck, Die Neuvermessung der Ungleichheit unter den Menschen, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 2008, tr. it. Disuguaglianza senza confini, Roma-Bari, Laterza, 2011, T. Piketty, Le capital au XXI siècle, Paris, Éditions du Seuil,  2013, tr. it. Il capitale nel XXI secolo, Milano, Bompiani, 2014.

[27] M. Revelli, Poveri, noi, Torino, Einaudi, 2010, pp. 25-34.

[28] Aristotele, Politica, Roma-Bari, Laterza, 1993, pp. 85-6, 153.

[29] A. J. Toynbee, Civilization on Trial, New York, Oxford University Press, 1948, tr. it. Civiltà al paragone, Milano, Bompiani, 1983, pp. 39-41

[30] Tra tutti cfr. H. M. Enzensberger, Sanftes Monster Brüssel oder Die Entmündigung Europas, Berlin, Suhrkamp Verlag, 2011 tr. it. Il mostro buono di Bruxelles, ovvero l’Europa sotto tutela, Torino, Einaudi, 2013;  J. Pisani-Ferry, Le Reveil des Démons. La crisi de l’euro et comment nous en sortir, Paris, Fayard, .

[31] L’espressione di Elmar Altvater fu coniata di fronte alle prime manifestazioni di chiusura identitaria e intolleranza nel 1993 nell’Europa del Centro-Nord: «il Manifesto», 30 maggio 1993.

[32] P. Mair, Ruling the Void. The Hollowing-Out of Western Democracy, London and New York, Verso, 2013, posiz. 1453.

[33] V. A. Schmidt, Democracy in Europe. The EU and National Politics, Oxford, Oxford University Press, 2006, p. 51 (citato in S. Goulard - M. Monti, De la Démocratie in Europe, Paris, Flammarion, 2012, tr. it. La democrazia in Europa. Guardare lontano, Milano, Rizzoli, 1992, p. 51).

[34] C. Crouch, Postdemocrazia, Roma-Bari, Laterza, 2003

[35] .Mair, op. cit., posiz. 1253.

[36] Milano, Mondadori, 1950, posiz. 3263.