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Dell'ONU e della riforma impossibile, in «Costituzionalismo.it», n, 1-2006, Sovranità-sovranazionalità.

Posted in Saggi

Il lavoro di Sisifo

 

Dilatato oltre misura da inesausti, ma inconcludenti, rimpalli e lavorii diplomatici, il macigno dell’ONU e della sua riforma non fa a tempo ad issarsi al top dell’agenda politica globale, che inesorabilmente, come perseguitato da malefico editto, rotola a valle. A farne le spese, naturalmente, sono chiamati i suoi segretari generali: moderne incarnazioni di Sisifo, alle prese con l’ira degli dei a stelle e strisce e l’inconcludenza degli altri attori assisi nell’Olimpo internazionale.

Nell’era dell’asimmetria post-bipolare, questa è già stata la sorte di Boutros Boutros-Ghali, giustiziato al momento della sua possibile rielezione, nel novembre 1996, dal veto americano. Con toni decisi, si era smarcato più volte dalle omissioni così come dalle prepotenze consumate dai Grandi in Rwanda, Bosnia o Libano. Ma soprattutto, con la sua Agenda for peace, aveva osato nel giugno 1992 offrire una seconda chance alle Nazioni Unite: le voleva a pietra angolare di un «nuovo ordine mondiale», ma senza i cardini apprestati dagli USA con l’intervento nel Golfo. Dovevano divenire un soggetto di diplomazia preventiva, peace-making, peace-keeping e peace-building, capace cioè di imporre, mantenere o costruire la pace. Era troppo anche per il «multilateralismo aggressivo» di Bill Clinton[1], a caccia di un secondo mandato e in precipitoso avvicinamento al centro bipartisan del Congresso.

Ora è la volta di Kofi Annan, navigata creatura dell’universo ONU, preferito allora – proprio per queste sue diplomatiche virtù – al più schietto e spigoloso egiziano. Era stato promosso su quella sella proprio per la sua affinata conoscenza dell’universo onusiano. Il mandato era di potarne l’elefantiasi: una questione di natura e definizione incerte, ma di accesi dibattiti. Soprattutto, a lungo impugnata, a mo’ di devastante scalpello, dalla destra repubblicana americana e, più di recente, dal fronte neoconservatore per costringere l’ONU ad un consistente dimagrimento o, meglio, ad una sostanziale emarginazione. Adesso Annan è alle prese con l’incerto sgocciolio del suo quarto progetto di riforma, finito anch’esso nel fuoco di sbarramento sollevato dalle critiche di sistematica, corrotta inefficienza: insomma con l’accusa, più o meno velata, di aver chiuso un occhio – padre debole di un figlio disinvolto - sulla corruzione veicolata dal programma di gestione del petrolio iracheno, Oil for Food. Sotto i colpi di un incalzante martellamento sono puntualmente finiti i disegni di riforma via via presentati, compreso l’ambizioso progetto di revisione generale del Consiglio di sicurezza e delle sue regole avanzato con il rapporto del settembre 2005 In Larger Freedom[2]. Ogni volta ha avuto la meglio lo stillicidio pilotato delle accuse. Per quanto smentiti nei rapporti ufficiali, i boatos su Annan sono stati continuamente ritradotti e rilanciati dal tam tam quotidiano su altri sprechi, abusi, assurde derive burocratiche.

In realtà, musica e passo del confronto sono cambiati con la proclamazione della guerra all’Iraq e all’indomani dell’attentato al quartiere generale delle Nazioni Unite di Baghdad dell’agosto 2003, costato la vita, oltre che di tanti funzionari e dipendenti, dell’alto commissario ONU Sergio Vieira de Mello. Da un lato, Annan ha via via abbandonato le abituali cautele, indurendo la sua posizione fino all’intervista alla BBC del 15 settembre 2004, in cui dichiara «illegale» la guerra all’Iraq di Saddam Hussein. Dall’altro lato, sul Palazzo di Vetro - già alle prese con le obiezioni americane per la questione della propria,  complicata  e costosissima, ristrutturazione immobiliare – è calato John R. Bolton, plenipotenziario USA di spiccata schiatta neoconservatrice. Il mandato affidatogli da George W. Bush emerge limpidamente dalla filigrana  del duro confronto ingaggiato ad ogni livello, in Assemblea come in Consiglio di sicurezza. Basta con il defatigante e inutile sforzo di pressare e condizionare l’azione ONU per allinearla o ravvicinarla agli interessi e strategie USA. Basta soprattutto con la babele di un’organizzazione condannata all’inazione dall’eterogeneità dei suoi attori, quando non delegittimata nei suoi fini più nobili – la promozione dei diritti umani – dalla presenza e dall’azione di regimi illiberali e totalitari. Si promuova l’azione unitaria delle democrazie, fino a far emergere nel cuore delle Nazioni Unite o vari e definiti Democracies Caucuses, raggruppamenti ad hoc delle democrazie su singoli problemi o campi di intervento, o una Comunità o Alleanza delle democrazie, tanto coesa per principi ispiratori, struttura socio-politica e intenti missionari da ergersi a contraltare della stessa ONU.

A poco vale rilevare adesso di quale pagliuzza delegittimante parli chi, vantando il «destino manifesto» di guidare il mondo sui lidi della libertà e dell’abbondanza, ha piantato nel cuore delle Nazioni Unite la delegittimazione assoluta della guerra e della tortura. Importa ora sottolineare natura e portata della proposta avanzata da Bush II e dai suoi Vulcans[3], per meglio decifrare il mutamento di fase attraversato dalla lunga e defatigante storia della riforma ONU. Si tratta di un progetto dalle radici antiche che affonda nel malmosto del mondo schizzato via dagli equilibri instabili del bipolarismo e nelle tentazioni dell’unilateralismo statunitense. Con gradazioni e sfumature molto diverse, avevano preso a lavorarvi già Bill Clinton e Madeleine K. Albright fin dalla assemblea costitutiva, nella Varsavia del 2000, della Community of Democracies[4]. A fondamento teorico v’era l’analisi di Max Singer e Aaron Wildavsky: nel mondo postbipolare risplasmato dalla globalizzazione neoliberista la terra si spacca irrimediabilmente in due aree molto precise, ricchezza e povertà, pace e guerra[5]. Di qui l’ammonimento a non illudersi di poterla governare oltre con strumenti unitari, quali l’ONU. Meglio provare a farlo stando tra simili, dando forma e sostanza all’alleanza tra democrazie, tra paesi sviluppati e forti. Insomma, ad oligarchie su scala globale unite e solidali nel progetto di espansione della democrazia. Il ridisegno istituzionale, avviato a Varsavia, ha poi guadagnato compattezza e consistenza con il cambio di mano presidenziale e l’avvento di George W. Bush, soprattutto a partire dal suo secondo mandato.

E’ stata avanzata in merito a questa ultima cesura e ai mutamenti che hanno caratterizzato l’entourage presidenziale – tra l’altro: l’accantonamento di Powell e la promozione della Rice a segretaria di Stato, l’invio di Wolfowitz alla World Bank, i vari avvicendamenti nell’ambasciata e sul fronte iracheni come all’ONU – la tesi di un indebolimento della cosiddetta «cabala neoconservatrice»[6], il gruppo di persone che contorna e ‘aiuta’ Bush nella determinazione dell’agenda di lavoro alla Casa Bianca e nel disegno della postura statunitense nel mondo. In realtà, proprio le prime mosse compiute alle Nazioni Unite suggeriscono un’altra chiave interpretativa. Alle prese con le straordinarie contraddizioni suscitate – in patria e all’estero - dalla «guerra al terrorismo» e dal nuovo imperativo categorico di «esportare la democrazia», Bush II e i suoi, piuttosto che indietreggiare, rilanciano, raddoppiando la posta. L’intento è di sfondare là dove le difese sono più deboli, l’avversario più sguarnito e screditato, le difficoltà più acute, per poi ritornare con la massa d’urto accumulata là dove la resistenza si è rivelata più forte e tenace, più organizzata e in riserva di fiato. E quale luogo migliore dell’ONU per sferrare l’attacco? Dove trovare un ventre più molle? Interlocutori più disuniti e dispersi?

 

 

Una tesi infondata

 

Nella sua opera di sfondamento, il ‘riformismo’ bushiano si fa portavoce di una agenda internazionale alimentata da una visione storica dell’ONU e dei suoi problemi strumentalmente distorta. Troppo a lungo ibernate nell’inverno bipolare dall’equilibrio a deriva catastrofica della deterrenza,  le Nazioni Unite sono ora bloccate nel loro ruolo di garanti e ancelle di una possibile democratizzazione del mondo – fondata sull’operare congiunto di mercato e diritti umani - dall’azione di nuovi totalitarismi. Sono essi che alimentano le gesta di gruppi terroristici, grazie anche alla sopravvivenza di fondamentalismi culturali e religiosi refrattari alla modernizzazione e disposti a ricettacolo di perdenti e scontenti. L’inazione un tempo necessitata o favorita dal bisogno di mantenere in equilibrio la bilancia bipolare non è più tollerabile. Nel mondo che si va sempre più costituendo in casa comune dell’umanità, segnerebbe il trionfo della più terribile ipocrisia rispetto all’etica imposta dall’obbligo umanitario. Diverrebbe soprattutto complice di dittature e terrorismi, del male proteso all’acquisizione di armi di distruzione di massa, modellate a misura di globalizzazione. Le Nazioni Unite devono liberarsi della zavorra burocratica ereditata dalle costrizioni della «guerra fredda» e dagli egoismi nazionali o regionali che ne tarpano le ali.

Troppo facile confutare questa lettura, sottolineando magari le primarie responsabilità odierne e passate degli USA nella promozione di fondamentalismi vecchi e nuovi, più o meno laici, o come centro di alleanze, antiche o recentissime, con totalitarismi, tanto medievali quanto postmoderni. Preme piuttosto andare più a fondo del rimpallo polemico, per provare soprattutto a individuare il male antico e strutturale che puntualmente azzoppa l’ONU nei suoi tentativi di autoriforma. Indubbiamente vi sono questioni che chiedono d’essere risolte per rimettere l’organizzazione al passo del mondo. Pesano, e tanto, i suoi tratti storicamente eurocentrici: riconquistati in verità grazie all’eredità lasciata dalla guerra fredda – al cui centro, l’Europa si ergeva o meglio s’accucciava a bersaglio – e a dispetto dell’originario disegno avanzato da Franklin D. Roosevelt. La sua individuazione dei «quattro poliziotti» - Usa, URSS, Inghilterra e Cina – era tesa piuttosto a dissolvere la centralità vantata dall’Europa nel mondo colonizzato. La terra globalizzata di Terzo Millennio tende ora invece ad incardinarsi sul Pacifico e a scendere a Sud. Di qui la richiesta di aggiornare equilibri e rappresentanze. Ma insistendo su questi dati si rischia la più vieta tautologia. Non è in questa direzione che difettano consapevolezze e volontà. Urge piuttosto individuare la tara originaria di cui soffre l’ONU fin dalle origini. E’ lì che s’annida il tarlo della riforma impossibile, è lì che bisogna incidere, pena l’inesorabile cancrena di un organismo da tempo adagiato in uno stato vegetativo. Converrà per un momento rivisitare un lontano passato perché solo così si può sperare di far luce sull’oggi.

Il 26 giugno 1945 a San Francisco i rappresentanti di 50 paesi segnano la Carta delle Nazioni Unite, che solo il 24 ottobre però – al momento segnato dalle debite ratifiche del trattato – si avviano realmente per la loro vita istituzionale. Di mezzo c’è la cesura epocale del 6 agosto: all’ombra del fungo di Hiroshima inizia l’era atomica. Il percorso iniziato con l’illuminismo contempla il crocicchio di un paradossale, formidabile dualismo. L’enunciato di Condorcet - «l’umanità è opera di se stessa» - trova ora compiuta realizzazione. A quella Carta delle Nazioni Unite sta infatti per seguire alla fine del 1948 la proclamazione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: l’umanità si nomina regolo universale del mondo. Ma dal 6 agosto tra le sue mani ha anche l’arma finale, quella con cui poter decidere ciò che finora si pensava impossibile, inimmaginabile: il proprio suicidio. E l’Olocausto sta lì a dimostrare che nulla può essere escluso. Nel 1947 alla livida luce di quel secondo sole Max Horckheimer e Theodor W. Adorno scriveranno che ora «la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura», incitando a comprendere perché «l’umanità invece di entrare in uno stato veramente umano, sprofondi in un nuovo genere di barbarie»[7].

E’ Albert Einstein però, responsabile di gran parte di quel balzo, il più lucido analista del possibile precipizio sul cui orlo ora sosta il mondo: «la prima bomba atomica ha distrutto più della sola Hiroshima, giacché ha fatto saltare in aria tutte le nostre teorie politiche obsolete e anacronistiche». Per Einsten «l’irrompere dell’energia atomica ha cambiato a tal punto ogni cosa che il nostro precedente modo di pensare è diventato obsoleto. Siamo di fronte ad una catastrofe senza precedenti. Se l’umanità vorrà sopravvivere dovrà pensare in modo completamente nuovo». La sua conclusione è sconvolgente: «la scienza non ha ancora trovato una forma di difesa da queste armi», ovunque sulla terra «lo Stato moderno non è più in grado di provvedere ad un’adeguata difesa dei suoi cittadini». Il dogma assoluto della sovranità statuale è infranto con decenni d’anticipo rispetto alla vulgata della globalizzazione ma in forme ben più drammatiche: «tutti siamo consepevoli della difficile e minacciosa situazione in cui si trova la società umana, stretta in una sola comunità da un destino comune».

Pensare di poter governare il nuovo, terribile mondo con gli strumenti ereditati dalla Seconda Guerra Mondiale è illusorio. La critica di Einstein nei confronti dell’ONU è precisa e circostanziata: «le Nazioni Unite, quali sono al giorno d’oggi, non posseggono né la forza militare né il fondamento legale per realizzare uno Stato di sicurezza internazionale. Né tengono conto della reale distribuzione delle forze». Per Einstein bisogna osare di più: iniziare a realizzare una «denazionalizzazione della forza militare» ovvero l’«instaurazione di una organizzazione internazionale con i poteri legislativi ed esecutivi sufficienti a garantire la pace». Con lucido realismo – rispetto allo squilibrio segnato nel dopoguerra dal monopolio americano dell’atomica -  egli propone che sia l’URSS incaricata di elaborare una bozza preliminare di Statuto per il nuovo organismo, su cui iniziare le discussioni: di fatto il contrario di quanto si sarebbe fatto – come si vedrà successivamente - con il Piano Baruch.

Ma sarà lo sguardo di una donna quello capace di andare più avanti, di scavare più in profondità nella nuova era atomica e nelle contraddizioni aperte nella nascente Organizzazioni delle Nazioni Unite. E’ Freda Kirchwey. Anima e dirige da anni «The Nation», dal 1865 cuore e cervello della sinistra americana e del dissenso, da sempre coscienza critica degli States e delle campagne politiche, sociali e culturali che li hanno percorsi e trasformati. Un suo acuminato editoriale, pochi giorni dopo Hiroshima, sceneggia il Brave New World precipitato sulla Terra dritto dalle pagine di Huxley. Anche per lei come per Einstein l’atomica impone una «rivoluzione nel pensiero degli uomini e nella loro capacità di reinventare società e politica». La bomba assieme all’altro lascito della guerra – missili e radar – rende obsolete frontiere, flotte e basi militari. Illusorio e pericoloso il monopolio dell’arma vantato dal neopresidente Truman. Ma soprattutto incompatibile con la possibilità stessa di mantenere rapporti internazionali su un piano di equità ed eguaglianza. Già a Potsdam il monopolio di un’arma così definitiva si è rivelato inconciliabile con la possibilità stessa di patti collettivi. Adesso, il potere sull’atomo dovrebbe quanto meno essere affidato alle Nazioni Unite.

Ma è qui che la critica della Kirchwey si rivela acutissima e preveggente, proprio rispetto alla struttura oligarchica dell’ONU, articolata sui due livelli dell’Assemblea e del Consiglio di sicurezza, a sua volta organizzato attorno all’equilibrio garantito dai Grandi e, in ultima istanza, al loro potere di veto[8]: di fatto, «non c’è un diritto al quale tutte le nazioni siano egualmente soggette. L’ autorità delle Nazioni unite si fonda in realtà sull’accordo tra i Grandi che costituisce il suo nucleo vitale». Cosa accade di essa quando uno dei Grandi ha il potere di «ridurre il mondo in schiavitù, o in polvere?». Con radicale realismo e assoluta preveggenza Freda Kirchwey conclude: «Nello spazio di un giorno l’ONU è passata dall’infanzia alla vecchiaia. Adesso deve essere ripensata». Il dado della riforma impossibile è tratto al culmine di una sfida angosciosa: «siamo di fronte ad una scelta: tra un mondo o il nulla, One World or None». A quel crocicchio mortale l’umanità tutta - rattrappita nello spazio e nel tempo da comune terrore prima ancora che da flussi produttivi e mediatici, informatici - è tuttora bloccata, così come l’ONU con la propria autoriforma.

E la storia suonerà immediatamente a conferma. Durante la sua prima sessione a Londra, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 14 gennaio 1946 affrontò come suo primo punto all’ordine del giorno proprio la creazione di una “commissione incaricata di studiare i problemi sollevati dalla scoperta dell’energia atomica”. Ne sarebbero nate le trattative per il disarmo e l’internazionalizzazione del controllo sull’energia atomica poi passate alla storia come «Piano Baruch», dal nome del miliardario americano che Truman pose a capo della delegazione americana. Le sue disinvolte e avventurose proposte, assieme all’ossessione staliniana per la sicurezza sovietica e alla ricerca spasmodica americana di una assoluta supremazia militare e politica, portarono al naufragio dell’iniziativa diplomatica.

Il potere di veto iniziava a fare le sue prime vittime. Intanto il Secondo Sole acceso su Hiroshima e Nagasaki dissolveva, assieme al «Piano Baruch» l’illusione rooseveltiana su una rivisitazione a scala mondiale di quella Santa Alleanza che con il suo balance of power aveva garantito in e attorno all’Europa la lunga pace post-napoleonica. In luogo dell’oligarchico, ma virtuoso equilibrio tra i Grandi, come realistica cornice per permettere all’Assemblea delle Nazioni di segnare nuove vie al cammino dell’umanità, il bipolarismo nascente, insediato a partire dal 1949 dal condominio atomico russo-americano,  imponeva la corazza orrifica della deterrenza nucleare, la minaccia continua e assillante dell’ultimo giorno. L’atomica sfuggita al morso delle Nazioni Unite, diverrà pascolo delle superpotenze e gabbia, essa sì, dell’ONU e del mondo. Entrambi conosceranno in quel corsetto angusto la stretta della «guerra fredda», il mistero – anzitempo segnalato da George Orwell – di «una guerra che non è guerra e una pace che non è pace»[9].

Saranno anni grami per le Nazioni Unite, ibernate in quel lungo inverno, a mala pena rotto soprattutto dalle sporadiche iniziative con cui gli USA proveranno ad avvantaggiarsi sull’URSS dando strumentalmente voce all’Assemblea generale. Sarà così allo scoppio della guerra di Corea, quando grazie all’assenza dal Consiglio di sicurezza dell’URSS ritiratasi per protesta su un suo Aventino, gli USA seppero approfittare di una Assemblea particolarmente ben disposta nei confronti del blocco anglo-americano. Il frutto fu la risoluzione n. 377 del 3 novembre 1950 - Uniting for Peace, Unità per la Pace - in cui si stabiliva che, laddove il Consiglio di sicurezza, a causa della mancanza di unità dei suoi membri permanenti, avesse mancato al suo compito primario di mantenere la pace e la sicurezza internazionale, si sarebbe fatto ricorso, in caso di crisi internazionali o di atti di aggressione, all’Assemblea generale. Su richiesta di almeno sette membri (oggi nove) del Consiglio di sicurezza o della maggioranza dei membri dell’Assemblea, questa si sarebbe riunita, in sessione anche straordinaria nel giro di ventiquattro ore, per rivolgere ai membri dell’ONU e ai suoi organi le raccomandazioni più appropriate per l’assunzione di ogni misura utile – compreso l’uso della forza – a mantenere o ripristinare condizioni di pace o sicurezza internazionale. Si trattò allora di un atto creativo che avrebbe, però, avuto il suo utilizzo più fortunato - tra i pochi che avrebbe poi collezionato - in occasione della crisi di Suez, in Medioriente. Allora la risoluzione fu impugnata vittoriosamente dagli USA contro alcuni dei suoi alleati. Piegò il possibile veto in Consiglio di sicurezza da parte di Francia e Inghilterra e ne determinò il ritiro dal Canale, segnando uno dei momenti cruciali della liberazione dal colonialismo.

 

 

L’altra atomica

 

Ci vorrà oltre un ventennio perché nel fatale 1968 l’ONU, sia pur rispettosa dell’equilibrio bipolare e delle sue prerogative, si riappropri dell’agenda atomica con il Treaty on the Non-Proliferation of Nuclear Weapons, NPT. La Terra e l’Umanità avrebbero fatto intanto  conoscenza con la folle tensione della crisi di Cuba, ma soprattutto con i nuovi scenari determinati dallo scoppio, per esplosioni successive, di un altro tipo di atomica: la decolonizzazione. A determinare ora il campo è la nuova tempesta attivata dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, quella che Hedley Bull chiamerà «la rivolta contro l’Occidente»[10]. Come ricorderà con straordinaria efficacia Geoffrey  Barraclough, «All'inizio del XX secolo in Asia e in Africa la potenza dell'Europa era al culmine; sembrava che nessuna nazione potesse resistere alla superiorità delle armi e del commercio europeo. Sessanta anni dopo, della dominazione europea rimanevano solo le vestigia. Fra il 1945 e il 1960 si rivoltarono al colonialismo e conquistarono l'indipendenza non meno di quaranta paesi, con una popolazione di 800 milioni, più di un quarto della popolazione mondiale. Non era successo mai, durante tutta la storia dell’umanità, un rovesciamento così rivoluzionario in un tempo così breve ... Il risultato è stato una rivoluzione della posizione relativa dell’Asia  e dell’Africa nel mondo, che è quasi certamente la rivoluzione più significativa del nostro tempo»[11].

Di quello scioglimento della ghiacciaia coloniale l’ONU è solvente risolutivo, con la sua Carta e soprattutto con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. La promessa di «sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio dell'eguaglianza dei diritti e dell'auto-determinazione dei popoli, e prendere altre misure atte a rafforzare la pace universale»[12], assieme alla proclamazione del diritto di «ogni individuo» a « un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e la libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati»[13], diviene nel Sud del mondo leva di un rivolgimento storico. Come nell’aprile 1955 ricorderanno a Bandung i 29 paesi destinati a divenire il fulcro dei Non-Allineati, quel complesso di statuizioni e diritti, intesi intanto come diritto alla differenza, chiede di andare oltre le proclamazioni di principio del 1945. Come affermazione di un ordine globale nuovo, fondato sul riconoscimento più pieno della dignità umana, impone una lotta risoluta al razzismo e ad ogni sopravvivenza del colonialismo, assieme alla promozione della cooperazione economica internazionale come via maestra per un diverso equilibro tra le varie aree del pianeta.

Nel mirino non poteva non finire la nuova barriera vantata ora dal Nord trincerato dietro l’arma atomica. Il pacifismo di nuovo tipo che di lì a poco avrebbe ricevuto il suo battesimo con il Manifesto Einstein-Russell[14] – fondato sulla realistica rivendicazione di disarmo e nonviolenza come vie obbligate per evitare l’Olocausto nucleare – vedeva già le sue fila slargate a parte grande dell’umanità. I firmatari di Bandung, chiedendo all’ONU di rivedere la struttura oligarchica del Consiglio di sicurezza, gridano al mondo che «disarmo e proibizione della produzione, sperimentazione e uso delle armi nucleari e termonucleari sono imperativi per salvare l’umanità e la civiltà dalla paura e dalla catastrofe finale».

Le Nazioni Unite, sia pure ibernate dai giochi a somma zero del bipolarismo, erano state lievito e nutrici del Terzo Mondo e della sua ascesa. Per fatale contrappasso, a conferma di uno strale giunto a bersaglio, finiranno a loro volta stravolte e quasi travolte dalla sua avanzata irresistibile. E se l’atomica aveva sconvolto gli equilibri del Consiglio di sicurezza, adesso è direttamente l’Assemblea delle Nazioni Unite sconvolta dal tifone delle giovani nazioni figlie della lotta anticoloniale. Il numero degli Stati aderenti cresce a dismisura, determinando nuovi equilibri: alla fine del 1960, Adlai Stevenson, ambasciatore USA all’ONU, era costretto ad ammettere che, «data l’ammissione di tanti nuovi paesi, gli Stati Uniti e le democrazie occidentali non avevano più il controllo delle Nazioni Unite»[15]. Una lezione ancor più dura da digerire, quando essa di lì a poco, nel 1964, si sostanzia nella rivendicazione da parte del Gruppo dei 77, novella incarnazione dello «spirito di Bandung», di un «nuovo e giusto ordine  economico globale»[16].

 

 

La revisione neoconservatrice

 

«It’s Democracy, Stupid», avrebbe probabilmente detto un Bill Clinton d’anzitempo. Parte di lì la disaffezione degli USA nei confronti dell’ONU, la figlia prediletta di quel multilateralismo che nel secondo dopoguerra aveva tenuto a fausto battesimo l’egemonia americana. L’arma del veto trapassa dal campo sovietico a quello statunitense. E con sempre maggiore frequenza ora sono gli ambasciatori «a stelle e strisce» ad alzare il braccio e a bloccare tutto. A differenza dei sovietici, però, che vi ricorrevano per sottrarsi alla superiore e più elastica capacità di manovra del cosiddetto «mondo libero», gli USA ora il più delle volte impugnano l’arma finale del no direttamente contro l’espressione democratica del voto assembleare. Di fatto è l’anticipazione di una strategica revisione del rapporto intrattenuto dagli USA con la democrazia. La promuovono una serie di circoli moderati e conservatori. Di lì a poco, nelle stanze ovattate della nascente Trilateral Commission suonerà per bocca di Samuel P. Huntington – operosissimo facitore di epocali manifesti – la diagnosi sulla «crisi di legittimità» della democrazia: incalzate dai nuovi movimenti di contestazione e scossa dai nuovi equilibri planetari, le democrazie occidentali promettono troppo e finiscono con il non mantener nulla; meglio rivedere le agende di lavoro e dar fiato e spazio agli esecutivi, alla loro competente e più elastica, disinvolta capacità di governo[17]. Rimpolpata dall’unilaterale revisione degli equilibri mondiali promossa da Nixon – con la rescissione dei contratti stipulati a Bretton Woods dal dollaro e l’apertura alla Cina e al Pacifico – quella ricetta avrà straordinaria fortuna, soprattutto quando saprà far proprie le teoriche neoliberiste e le loro parole d’ordine: lotta all’inflazione, come via maestra per lo sviluppo; promozione del mercato come allocatore ottimale di libertà e risorse.

E’ in questo calco che, a dispetto dei ricorrenti vaticinii sull’irreversibile declino americano[18], gli USA con Nixon e poi con Reagan, passando per la contraddittoria presidenza di Jimmy Carter, sapranno far riprendere il largo al vascello statunitense. A soffiare nelle vele ora c’è una accentuazione particolarissima sul credo democratico e sul nuovo «destino manifesto» degli USA come alfieri dei «diritti umani» nel mondo[19]. Un crescendo retorico che culminerà a volgere di secolo e di millennio nei fasti ossimorici della «guerra umanitaria» e nella santificazione della «democrazia da esportazione». In realtà, la talpa della rivoluzione neoconservatrice provvede a stravolgere il rapporto tra Stati Uniti, democrazia e mondo. Nel secondo dopoguerra gli USA si erano affacciati sul globo forti sì dello stato di superpotenza loro consegnato dall’atomica, ma soprattutto disposti a mutare il mondo, a provvederlo di pace e sicurezza e sviluppo, come strada principe per curare il legno storto della democrazia americana, per sospingerla oltre le libertà ereditate dalla storica Dichiarazione di indipendenza. Era questa la sostanza del rooseveltismo, la sua proclamazione delle Quattro libertà, la sua teorizzazione di un Economic Bill of Rights a coronamento della rivoluzione promossa con il New Deal: la libertà per affermarsi non aveva più bisogno solo di contrapporsi al potere, ma anche di piegarlo, addomesticarlo, dirigerlo, in una nuova e inedita alleanza, così da espandersi in campi nuovi, per coniugarsi come eguaglianza e incarnarsi in nuovi diritti politici, civili e sociali[20]. Nelle parole del teologo Reinhold Niebuhr, nume tutelare del pensiero democratico statunitense, o di George F. Kennan, padre del contenimento o delle letture del mondo sottese al Piano Marshall, la democrazia «è qualcosa che dobbiamo perseguire non qualcosa che incarniamo naturalmente, qualcosa che conquistiamo non esortando gli altri, ma combattendo il male che è in noi stessi. L’ironia dell’eccezionalismo americano di allora era di ispirare il mondo riconoscendo la propria fallibilità»[21].

Altro e d’opposto segno  il messaggio predicato dai neoconservatori, a partire dalla fine degli anni Sessanta[22]: gli USA come moderna, risplendente incarnazione di A City on the Hill, «una città su una collina, gli occhi del mondo fissi su di noi», così come tramandata nell’iconografia più classica dei Padri Pellegrini, fin dal sermone di John Winthrop a bordo dell’Arbella nel 1630. E’ da questo roccioso, esemplare e infallibile fondamento che essi muovono contro il male nel mondo, in lotta al fondamentalismo, moderna incarnazione del totalitarismo già due volte sconfitto nel Primo Novecento. La democrazia si può esportare perché essa è incardinata saldamente nell’American Way of Life: la sua riproducibilità, assieme ad un modello di mercato e di consumi, è garantita dal saldo possesso vantato sul suo copyright originario.

Gli USA – sia pure tra crescenti spaccature interne causate dalla potatura del Welfare e dalle Cultural Wars, le ‘guerre di religione’ tra blocchi contrapposti attivate fin dalla stagione gloriosa sui diritti civili – rinasceranno e conosceranno un nuovo e contraddittorio ciclo egemonico. La nuova dirigenza americana si ripensa nel mondo in discorde dialogo con il protagonismo critico, a forte caratura giovanile, emerso dalle pieghe del mondo post-bellico. Gli USA ripartono cioè dal rapporto con quella soggettività variamente etichettata come Sessantotto. Muovono di lì, dalla risposta a quel nuovo soggetto, a quella straordinaria e globale domanda di ripensamento della politica, di rottura dei vecchi assetti bipolari, per avanzare un nuovo «assalto al cielo» della politica mondiale. Mentre l’URSS inizia ad accartocciarsi in difesa, dietro i suoi carri armati e i suoi missili – dalla Cecoslovacchia all’Afghanistan – gli USA  si apprestano a digerire la sconfitta vietnamita e la crisi della «presidenza imperiale», finita impicciata nel Watergate. Il rilancio sarà poco spettacolare, ma profondo e duraturo. Nulla lo spiega meglio della gramsciana categoria di rivoluzione passiva. Ai giovani del ’68 e alla loro domanda di forme nuove di responsabilità e governo mondiale, gli USA risponderanno indicando a terreno di incontro e sviluppo individualismo e consumismo. Sarà in quelle forme che proveranno a riplasmare il mondo in forme sempre più parossistiche, a mano a mano che finanza e comunicazione imporranno al globo i loro nuovi diritti di signoraggio.

L’URSS e il suo sistema di socialismo realizzato usciranno stremati dal confronto, fino allo schianto finale. Ma la stesse democrazie occidentali finiranno affannate e con le gambe molli per la lunga corsa, asciugate di Welfare e socialità.

A sprofondare sarà soprattutto il Terzo Mondo. Da assediante delle cittadelle occidentali finirà spaccato – lungo la linea divisoria segnata dalla rendita petrolifera dell’Opec – e assediato dal debito estero, da una finanza scatenata alla conquista del mondo. Sono i frutti dei nuovi gradi di libertà conquistati dal dollaro e dell’ortodossia neoliberista che trasforma il ruolo stesso del Fondo monetario internazionale e della World Bank. Da strumenti della cooperazione internazionale essi si trasformano in occhiuti ed esigenti controllori delle finanze pubbliche d’ogni paese. A suon di liberalizzazioni e privatizzazioni imporrano sanguinosi programmi di riaggiustamento strutturale. A farne le spese sarà chiamato innanzitutto quello Stato imprenditore affermatosi ovunque nel mondo come volano di crescita e sviluppo economici.

Ma mentre la frattura s’allarga tra Nord e Sud del mondo e lo stesso Occidente sviluppato torna ad essere tormentato da diseguaglianze sempre più abissali, l’ONU viene con lentezza e costanza oscurato e marginalizzato. Non è sul suo tavolo che vengono poggiati i dossier più pesanti. Le svolte vere avverrano altrove, nel terreno di pascolo delle superpotenze. Sarà così per Helsinki, con la nascita informale della CSCE, prima, e la successiva trasformazione in OSCE, o con gli euromissili, quando i due Grandi, grazie anche alla statura politica di Reagan e Gorbaciov, con un tratto di penna materializzeranno l’opzione zero sino ad allora solo sognata dal nuovo pacifismo, delegittimando d’un colpo l’operato dell’intera classe dirigente europea.

Pesa in realtà l’operato delle istituzioni di Bretton Woods – FMI e World Bank – poste su una corsia privilegiata dal neoliberismo trionfante. Altro spazio poi è ulteriormente mangiato dalla scelta del campo occidentale di darsi un coordinamento informale per governare il pericolo della disarticolazione interna, dei regionalismi arrembanti e soprattutto della nuova presenza europea. A metà degli anni 70 è nato, tra incertezze ed approssimazioni successive, il G7 . E in quelle stanze dapprima discrete – a mano a mano che cedono le paratie ereditate dalla guerra fredda, che il Terzo Mondo si sfrangia e la Cortina di Ferro scricchiola fino al crollo del Muro –avanza irresistibile l’ambizione di conquistare a quel forum i poteri e le prerogative di un direttorio imperiale. Il fasto e i cimbali mediatici che sempre più ne accompagneranno le annuali adunanze sono indicativi della direzione di marcia intrapresa. A far da ostacolo si frapporranno problemi simili a quelli che proprio in sede ONU tormentano la riforma e l’adeguamento del Consiglio di sicurezza. L’Europa vi è sovrarappresentata, così da determinare un doppio cortocircuito: da un lato, con la stessa possibilità per la Comunità europea, mutatasi poi in Unione europea, di darsi una reale politica estera e – secondo lo sberleffo abituale di Kissinger – un numero di telefono unico; dall’altro, con la necessità di una rappresentanza realistica e adeguata di un mondo che ruota ormai decisamente verso il Pacifico, con l’emersione dei nuovi giganti d’Asia e d’America Latina.

 

 

La rivincita di Dio

 

Più in profondità, però, agisce un altro tarlo, ben più corrosivo: la crisi epocale dell’universalismo, secolare e feconda eredità della coscienza illuminista che assieme all’Europa ha conquistato e creato il mondo moderno. Boat-peoples e guerra intestina indocinese – tra Vietnam e Cambogia – squarceranno il velo: al culmine di un ciclo di lotte anti-coloniali e anti-imperialistiche, di una lotta di liberazione il cui cuore ha saputo pulsare all’unisono col mondo, non si materializza la pace promessa, ma un nuovo inferno.

In realtà, nel Terzo Mondo la discussione si è aperta da tempo, sia pure sotterraneamente. Sotto accusa è l’operato di élites in gran parte formate in gioventù nelle capitali occidentali. Il trapianto delle culture critiche lì digerite, per quanto ibridate, passate per il setaccio del meticciato, il più delle volte non è riuscito. Fuori d’Europa lo Stato-nazione stenta a tenere virtuosamente assieme la sua coppia costitutiva. Eppure, dappertutto i confini ereditati dalle nuove realtà nazionali insistono sui limina imposti e segnati dalla conquista coloniale. E spesso è proprio lì, su quelle artificiose barriere identitarie, che le frane sono più rovinose, specie quando alluvionate dalle mutazioni imposte dal neoliberismo e dai suoi agenti e gestori.

La ricerca di nuovi parametri, di nuove lenti per decifrare il mondo grande e terribile, di un nuovo metro di misura con cui perimetrare il proprio spazio vitale si fa così sempre più affannosa, soprattutto là dove la vita più ribolle e tumultua. Si ricorre allora a ciò che si ha a disposizione: il palmo della mano, la falcata del passo, il colore della pelle, la comune cultura e credenza. Matura così, al tramonto del Novecento, la «rivincita di Dio»[23], il ritorno prepotente sulla scena – in risposta alla modernità e alla sua crisi - di religioni e fondamentalismi. Ne è sconvolgente testimonianza l’Iran che, in risposta all’autoritarismo di Mohammed Reza Pahlavi foraggiato dagli USA e dall’Europa, si volge a Khomeini e s’avvolge nel velo fondamentalista.

Allora Michel Foucault rimase abbagliato da quella rivoluzione all’incontrario. Il fine analista della società occidentale e dei suoi poteri pervasivi e diffusi, il maestro di una gioventù lanciata in corsa a «sognare l’impossibile», provò entusiasticamente a capire «cosa sognano gli Iraniani?»[24]. E con il suo Taccuino persiano[25] scavò in quel moto e in quelle sabbie che un tempo avevano accolto e sospinto la nascita dello Stato e della politica. Non volle etichettarlo come «rivoluzione, nel senso letterale del termine». Vi lesse «una rivolta», una «insurrezione di uomini  dalle mani nude  che vogliono sollevare il peso formidabile che grava su ciascuno di noi, ma, più particolarmente, su di loro, lavoratori del petrolio, contadini alle frontiere degli imperi: il peso dell’ordine del mondo intero». Lo interpretò così come «la prima grande insurrezione contro i sistemi planetari , la forma più folle e più moderna di rivolta». Lo etichettò come «sciopero nei confronti della politica» cogliendo nel segno: nel mirino v’era l’universalismo tutto e i suoi messaggi, l’Occidente in tutti i suoi colori.

E anche dopo, quando furono erette le prime forche, e mozzate le prime mani, e a migliaia morirono o fuggirono, non cessò di provare a capire, a chiedere. Scrisse una lettera aperta al presunto leader di allora: Mehdi Bazargan. La risposta non giunse mai, e non poteva giungere. Di lì a poco a Teheran si insedia quel governo islamico che dapprima era apparso a Foucault animato dal bisogno di «introdurre nella vita politica una dimensione spirituale». Sarà invece censura e oppressione di ogni voce critica, anche di quelle volte a dar parola ad un islamismo altro da quello khomeinista.

Da allora Foucault tacque e non riprese mai più parola su quel mondo e l’Iran, sino alla morte. Un silenzio emblematico del destino toccato a quella gioventù che su scala mondiale aveva provato a «ridefinire la politica»[26], a parlare nel e col mondo: smarrita e dispersa, sceglierà anch’essa d’azzittirsi o ripiegare, quando non d’arrendersi o farsi morire. Ci vorrà tempo perché quella domanda di politica globale possa risorgere e riaffacciarsi, con la stessa lingua e «coscienza planetaria»[27], ma con «scorza diversa», come «seconda superpotenza»[28], al torno di secolo.

Altri saranno meno scrupolosi e discreti di Foucault. Proveranno ad approfittare dei gradi di libertà  e manovra che l’emergere dei nuovi fondamentalismi veniva a determinare. E così attiveranno – al di là e dietro le formali scomuniche – inedite e inconfessabili triangolazioni tra USA, Medioriente e America Latina – lo scandalo Irancontra destinato a tormentare l’amministrazione Reagan - o foraggeranno generosamente i nuovi signori della guerra islamista in funzione antiprogressista e antisovietica. L’URSS si accartoccerà sulle proprie gambe d’argilla, ma anche sotto i colpi portati dall’inedita alleanza tra ipertecnologia a stelle e strisce e Medioevo islamico. Il crollo dell’89 sarà però vanto solo Occidentale. All’Islam toccherà l’umiliazione del retrobottega e dell’emarginazione. Foriera di ira e volontà di rivalsa, di guerre e lutti infiniti.

E’ anche per queste vie che le crepe prodotte nell’universalismo novecentesco da quella prima frattura iraniana si sono allargate in fossati formidabili, nelle reciproche scomuniche di Orientalismo e Occidentalismo impugnate dagli opposti fondamentalismi. Lesto ne ha approfittato Samuel P. Huntington per provare ad additare all’Occidente nuovi nemici, nuove faglie e linee di frattura, sì da rimpiazzare con nuovi fronti – con lo scontro di civiltà[29] - la dissoluzione della vecchia Cortina di ferro. Il suo saggio diverrà il più citato – chissà quanto letto – in quel tratto di tempo racchiuso tra crolli che, da Berlino a New York, si contendono l’onere di tenere a battesimo l’epoca nostra. Anche da questa infausta fortuna presso uno spirito pubblico angosciato dal diffondersi di nuovi, postmoderni millenarismi, si può comprendere come e quanto, nel tramonto del Novecento, sia appassito il progetto di «salvare le future generazioni dal flagello della guerra» .

 

L’asimmetria del nuovo ordine

E’ il crollo del Muro nell’89 a riportare sugli scudi l’ONU e a ridare fiato e visibilità storica al sogno di conquistare alla comunità delle nazioni sedi e rappresentanze istituzionali effettive. Con la dissoluzione di quel bipolarismo che aveva sequestrato e distorto la vita delle Nazioni Unite e del mondo, la Terra sembra avviata – nelle parole usate dal presidente degli USA George Bush l’11 settembre 1990, in fatale coincidenza di un giorno destinato ad essere ricordato per ben più tragiche ricorrenze[30] - verso «un nuovo ordine mondiale: una nuova era, libera dalla minaccia del terrore, più forte nel perseguimento della giustizia, più sicura nella ricerca della pace». A segnare la discontinuità storica stanno già cinque risoluzioni del Consiglio di sicurezza: con il concorso diretto dell’URSS di Gorbaciov condannano l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam Hussein e fissano i termini per la soluzione della crisi e il ristabilimento della pace. Per il presidente americano «è iniziata una nuova era di cooperazione tra le nazioni», che – come preciserà in un successivo discorso all’Assemblea delle Nazioni Unite[31] – ci sta portando «in un mondo nuovo e diverso», un mondo in cui «stiamo finalmente vedendo la possibilità di usare le Nazioni Unite per gli scopi per cui furono concepite: come centro per la sicurezza collettiva internazionale».

Di lì a poco si darà avvio ad una guerra benedetta dal Consiglio di sicurezza e segnata dalla preponderanza politica, militare, economica degli USA. Segnerà il mondo per il tempo a venire e non certo in direzione del «nuovo ordine mondiale» promesso e vantato.

Quel che importa però ora non è sottolineare la discrasia tra parole e fatti. Urge piuttosto evidenziare il continente nascosto da quell’arioso annuncio della terra promessa: «nuovo ordine mondiale». Non è una espressione innocente. E soprattutto non lo è sulla bocca del presidente americano. E’ strappata al Terzo Mondo, che – come si è già visto – l’aveva utilizzata al culmine della propria vicenda, come Gruppo dei 77, per chiedere un mutamento dei complessivi equilibri mondiali. E’ strappata, scippata soprattutto a Gorbaciov, che l’aveva posta qualche tempo prima, il 7 dicembre 1988, al centro di un proprio, famoso intervento alla Assemblea generale delle Nazioni Unite[32]. Lì però il «nuovo ordine mondiale» veniva rivendicato come necessità storica per impedire che «la spontaneità non regolata» possa condurre il mondo «in un vicolo cieco». Emergeva perciò il bisogno non solo di «cooperazione», ma di «creazione comune» di un nuovo ordine, di «co-sviluppo». E a predicato di questa nuova forma delle relazioni internazionali Gorbaciov aveva posto una virtuosa compresenza di «differenze di sistema», come fattore di «arricchimento e avvicinamento reciproci», in modo da escludere sia che «i processi interni di trasformazione» procedano «lungo ‘corsi paralleli’  rispetto agli altri, senza utilizzare le conquiste del mondo circostante», sia che vi siano «ingerenze nei processi interni» tese a «modificarli sulla base di modelli ad essi estranei». Lungo questa linea Gorbaciov postulava una ripresa di centralità dell’ONU, ben salda al comando di una agenda della politica mondiale orientata da un punto preciso: il disarmo: Per il leader sovietico, senza di esso «nessun problema del XXI secolo può esser risolto». Al contempo annunciava un consistente, unilaterale taglio delle forze armate sovietiche e fissava gli obiettivi fondamentali cui ora si improntava la politica estera sovietica in tema di armamenti: «la costruzione di un mondo denuclearizzato», il passaggio «dal principio del superarmamento al principio della ragionevole sufficienza difensiva».

Invano si cercherebbe il termine ‘disarmo’ o un qualche riferimento ad esso nei due discorsi di Bush: una ricerca del resto improbabile in giorni in cui si sta già ammassando in Medioriente la nuova “Invincibile Armata”. Il suo «nuovo ordine mondiale» si nutre di altre dinamiche e visioni: a senso unico. Intanto muove dall’altrui collasso: siamo in un mondo altro da quello conosciuto, oltre «il contenimento e la deterrenza», a causa dei «cambiamenti che si sono prodotti in Unione Sovietica», esclama il presidente di fronte all’Assemblea delle Nazioni Unite. La «rivoluzione dell’89 ha spazzato il mondo» e «ha trasformato il clima politico dall’Europa centrale all’America centrale e toccato ogni angolo del globo». Né vi possono essere dubbi sulla direzione di marcia: è già possibile intravedere «un mondo in cui la democrazia continua a conquistare nuovi amici e a convertire vecchi nemici e in cui le Americhe – del Nord, del Centro e del Sud – come primo emisfero completamente libero del mondo possono funzionare da modello per il futuro dell’intera umanità»; così come è possibile vedere «un mondo che si costruisce sul nuovo modello di Unione europea, un mondo intero unito e libero, e non solo l’Europa».

Netto e limpido spicca l’ennesimo ciclo di rivoluzione passiva che gli USA di Bush si apprestano a lanciare all’inizio degli anni 90. Si appropriano della parola d’ordine di Gorbaciov, ma per stravolgerla a manto di una mutazione che contempla la coltivazione della asimmetria vantata dagli USA e dall’Occidente nei confronti tanto del Sud del Mondo che dell’Est. E che questa sia la direzione di marcia è reso subito evidente sia dalla condotta della guerra mediorientale, malamente mascherata da operazione di «polizia internazionale», sia dalla riunione del G7 a Londra del luglio 1991. Vi partecipa come invitato anche Gorbaciov. Chiede appoggio e aiuti. Con la rilevante eccezione di Andreotti e Mitterand che comprendono importanza e delicatezza del momento attraversato dall’URSS e dalla leadership gorbacioviana, gli altri Grandi chiedono rassicurazioni preventive, passi concreti e ultimativi su liberalizzazioni e privatizzazioni: un salto di sistema[33]. Fino alla fine tengono stretti i cordoni della borsa e della solidarietà politica. E’ la delegittimazione assoluta del gorbaciovismo, del tentativo di riformare l’URSS dall’interno. Un salto nel buio che si traduce immediatamente nel via libera ai golpisti, alla dissoluzione dell’URSS, al ‘riformatore’ Eltsin.

Da allora, da quel biennio fatale che avvia il mondo verso lidi sconosciuti, altri dalle nette distinzioni del bipolarismo, in virtù della formidabile asimmetria che si installa al cuore della globalizzazione trionfante, fortune e miserie delle Nazioni Unite e dei loro progetti di riforma e ristrutturazione inizieranno a vivere – e a perire - in stretta simbiosi e relazione con la politica estera americana e le sue rivoluzioni. E proprio negli USA, intanto, sono questi gli anni in cui si manifesta un’ala che preme da destra e che, libera dalle costrizioni del bipolarismo, vorrebbe procedere oltre i vecchi equilibri. Per ampi settori dell’establishment e della società americana non solo l’ONU, ma gli stessi patti con gli Alleati, coi propri simili, sono un morso: costringono al passo, in un mondo globalizzato che invece induce e spinge al galoppo. Ne esprime bene umori e obiettivi un columnist del «Washington Post», senza molti peli sulla lingua e assai introdotto negli ambienti repubblicani, Charles Krauthammer: basta con le illusioni sulle magnifiche sorti e progressive del multipolarismo avveniente; per almeno una generazione il mondo sarà «unipolare». Meglio attrezzarsi all’esterno e all’interno. Intanto facendola finita con il tentativo di mettere all’indietro l’orologio della storia, di ritornare al consenso bipartisan che aveva sostenuto la politica estera americana negli anni della guerra fredda. E’ l’ora di decisioni limpide: anche di divisioni, se necessarie alla chiarezza[34].

Non si tratta di umori, ma di politiche e strategie concrete. Lo rivela uno scoop del «New York Times» l’8 marzo 1992, mentre già infuria la campagna elettorale per le presidenziali: con due articoli appaiati pubblica la bozza della Defense Planning GuidanceLinee guida per la pianificazione della difesa – in corso di elaborazione per gli anni 1994-1999[35]. Il segretario alla Difesa, Richard Cheney, ne ha incaricato il sottosegretario Paul Wolfowitz e il suo vice I. Lewis ‘Scooter’ Libby. Lo scenario prefigurato è clamoroso: nel mirino non vi sono solo vecchi o nuovi, temuti avversari, ma soprattutto alleati. Gli USA faranno di tutto per rimanere nello stato di superpotenza solitaria. Non  tollereranno sfidanti alla loro egemonia globale o l’emergere di nuovi egemoni regionali in aree vitali per gli interessi americani, tanto nell’Europa occidentale quanto nell’Estremo Oriente. In particolare, cercheranno di preservare la Nato come strumento primario della sicurezza occidentale, nell’intento di evitare l’emergere di un patto politico-militare esclusivamente europeo. Potrebbe minare l’unitarietà della sicurezza atlantica. Dell’ONU non vi è alcuna menzione. Si dedica invece largo spazio alle armi di distruzioni di massa: da quelle chimiche a quelle nucleari. E si teorizza l’intervento preventivo o first strike per prevenire  lo sviluppo, la diffusione o l’utilizzo di questo tipo di ordigni o tecnologie.

L’impatto della rivelazione sarà devastante: nella campagna elettorale, come nelle capitali europee ed asiatiche. Il documento dovrà essere riscritto, così da smussare , senza riuscire a cancellare del tutto, le punte più aguzze[36]. I suoi estensori di lì a poco, con la sconfitta di George Bush, scompariranno dalla ribalta. Torneranno a nuova vita – in continuità con l’ispirazione originaria - come Vulcans, resuscitati e rinvigoriti dall’ascesa di George W. Bush.

Intanto il dibattito sul futuro degli States e della politica estera americana si fa accesissimo. E’ uno dei risultati più eclatanti indotti dalla dissoluzione della «guerra fredda», dei suoi orizzonti fissi e duraturi – di quella che Orwell aveva definito come «epoca dotata della stessa terribile stabilità degli antichi imperi schiavisti». Si realizza così la profezia di uno dei consiglieri di Gorbaciov, Georgi A. Arbatov: «priveremo l’America del nemico»[37]. Scuole e tendenze ora battagliano senza rete e senza più i sicuri fondali di un tempo. Si torna a discutere sopra i massimi sistemi e naturalmente tutti, dai Think Tanks più accorsati agli opinionisti e studiosi più celebrati combattono fieramente sul futuro dell’ONU e delle istituzioni internazionali, destinate ad arricchirsi di lì a poco di una new entry, la World Trade Organization. In apparente contraddizione con gli annunci di nuovo ordine mondiale, però, si staglia in questa discussione a tutto campo una più sobria e disincantata visione del mondo: ormai dalla corsa della globalizzazione ci si aspetta solo squarci e ferite qua e là per il mondo. La democrazia – in genere accompagnata dalla locuzione ‘di mercato’ - sarà pure trionfante, ma non porta pace. Riservando il termine ‘guerra’ al classico conflitto interstatale, in generale se ne constata l’assenza nel futuro più o meno interrogabile. In compenso, si teorizza la moltiplicazione di scontri e collassi substatali da curare – in verità senza molte attenzioni o scrupoli preventivi – con Nazioni Unite accuratamente riprogettate.

A sorpresa, però, giunge la rivelazione che lo scasso è straordinario proprio negli USA, ovvero in casa di chi fino ad allora riteneva di detenere saldamente il copyright di democrazia e libertà sì da progettarne la sistematica esportazione. La democrazia trionfante, che aveva assestato il colpo di maglio al Muro dietro cui si era acquartierato lo storico nemico, si rivela spaventata e sfrangiata. Da quasi un ventennio è sottoposta a sistematico dimagrimento, sì da giungere all’appuntamento dell’89 esangue, occupata da esecutivi e tecnocrazie, asciugata d’ogni partecipazione popolare e colma d’ansia e rancore sociale. Può accadere  così che complice la rottura dell’elettorato repubblicano causata dalla discesa in campo del miliardario Ross Perot – precursore di un protagonismo politico del denaro spesso imitato nel decennio - George Bush venga sconfitto. L’America spaventata dai  costi della guerra e dai tagli nella sua carne viva – sono gli anni in cui i tagli di organico nelle grandi imprese, il downsizing, raggiungono la massa dei quadri intermedi e gli uffici – si volge al democratico Clinton, alla sue promesse di copertura sanitaria universale e di globalizzazione dal volto umano, di dialogo con la società civile transnazionale in formazione, con la nuova ‘internazionale’ delle ONG, del volontariato, dei Summitt mondiali.

In realtà, per quanto riguarda la politica estera Bill Clinton – sia pure conservando una più accentuata propensione multilateralista come cornice entro cui ritradurre l’insistenza sull’eccezionalismo americano e l’intervento umanitario – è costretto da subito, fin dal 1994, a fare i conti con un Congresso a maggioranza o a forte protagonismo repubblicani. Nascono qui la duttilità o l’ondivago opportunismo volta a volta vantati o rimproverati: la necessità ovvero di filtrare accuratamente l’auspicato multilateralismo nella griglia di interessi strategici e geopolitici della superpotenza a stelle e strisce, secondo la congiuntura internazionale e soprattutto elettorale interna. Si interverrà selettivamente qua e là per il mondo – a Timor Est ma non in Rwanda - ritirandosi là dove i costi si rivelano troppo elevati – la Somalia – o facendosi pregare fino al punto più opportuno, quando si può incassare un dividendo politico molto alto: in Bosnia ad esempio, quando USA e Nato, per la prima volta fuori area, traggono dal pantano Europei e forze ONU.

Per tutto l’ultimo decennio del Novecento, una singolare rivisitazione del pensiero globalista, filtrata dalla lente dell’asimmetria, opererà nella reale condotta strategica americana. Nel resto del mondo vale la massima: pensa globalmente e agisci localmente. Per gli USA fa testo invece l’inverso: pensa localmente e agisci globalmente. Anche di questo si alimenta contraddittoriamente la ricerca ossessiva della preponderanza: la guerra condotta a distanza di sicurezza, a zero morti, in modo da minimizzare le proprie perdite, e sminuire le altrui, ribattezzate «effetti collaterali»; le copiose spese militari, tendenzialmente avviate a pareggiare quelle del resto del mondo.

Schmittianamente Clinton – sospinto anche dal Congresso a spiccato protagonismo repubblicano – riserva agli USA la decisione nello stato di eccezione: scegliere tra la guerra e la pace. All’ONU lascia più o meno volentieri, ma sempre lesinando mezzi e risorse, l’intervento di peacekeeping: le uniformi da crocerossina, con le pale e il mestolo del soccorso umanitario. Più in generale, egli dà spazio all’ONU e ai suoi Summit globali, ma conservando o vantando agli USA la primogenitura – volta a volta - progettuale, etica o logistica. Sarà un tratto permanente della sua presidenza il dialogo con la società civile trasnazionale emersa sempre più come attore globale, capace di affermare un nuovo senso comune planetario, nel tentativo di conquistare una egemonia sui processi di globalizzazione altra da quella regolata dalla business community, dal neoliberismo trionfante. Potrà accadere così che durante la sua presidenza abbiano modo di giungere a compimento e spesso di istituzionalizzarsi molte delle parole d’ordine sostenute dal nuovo globalismo democratico. Vedranno la luce i Protocolli di Kyoto e la Corte penale internazionale. L’ONU si darà una agenda di lavoro impegnativa – la Millennium Declaration – per i primi 15 anni del XXI secolo, con i suoi otto punti per il conseguimento di una giustizia e uno sviluppo umani reali. Su di essi Clinton però, pressato da un Congresso quasi sempre ostile, non riuscirà a chiudere le partite. Sarà perciò facile al suo successore denunciare e far cadere gran parte di quegli impegni, mentre su altri tavoli pian piano avrà la meglio la lesina delle risorse, l’avarizia e l’affamamento programmato, in particolare nei confronti delle Nazioni Unite. Di fatto, per tutto il decennio – da Boutros Boutros-Ghali a Kofi Annan - finisce con l’avere la meglio nettamente una linea di scientifica delegittimazione etica, organizzativa e finanziaria dell’organizzazione, a tutti i suoi livelli.

Esemplare delle ambiguità del clintonismo è il comportamento tenuto a Seattle, in occasione della storica protesta che, al volgere di secolo, nel dicembre 1999 costringe la WTO alla resa. In ballo ci sono il Trattato multilaterale sugli investimenti e le questioni straordinarie relative alla regolazione di OGM, copyright e nuovo diritto di proprietà. Nelle piazze si è realizzata, contro l’oligarchia globale dei governi e la loro agenda di lavoro, l’alleanza tra il sindacato americano e il nuovo globalismo democratico. Clinton tiene bordone, dà corda alla protesta e alla sua legittimità: diversamente, il suo vice Gore non avrebbe speranza nella battaglia presidenziale in corso. Ha bisogno del sindacato e dei voti lì orientati. Al contempo fa comodo che quel tavolo di lavoro salti per aria: c’è il rischio che si saldi contro gli USA una’alleanza tra Europei e alcuni paesi del Sud su alcune materie delicate. Meglio soprassedere e passare la mano a trattative bilaterali in cui è più facile avere la meglio.

Non c’è invece ambiguità nella scelta di lanciare la Nato in soccorso umanitario contro la Serbia di Milosevic. La partita è troppo ghiotta. Si possono saldare in uno molti conti: con la maggioranza repubblicana, con l’Europa in formazione, con la Russia che protesta contro l’allargamento Nato, con l’ONU che non vuol saperne della teoria – cara alla Albright – della Alleanza delle democrazie come perno di una mutazione dinamica e delle relazioni e organizzazioni internazionali. Via così alla guerra che – in rottura con il diritto internazionale, con la Carta delle Nazioni Unite e con lo Statuto stesso della Nato - raggiunge tutti i suoi obiettivi, nel trionfo dell’asimmetria manifesta ormai vantata dagli USA: nella Nato e nel mondo, sull’Europa e sull’ONU. A godere però di quei frutti saranno altri: apprendisti stregoni già pronti con i loro sortilegi, già determinati – su opposti fronti - a sospingere il mondo per nuove fantasmagoriche mutazioni.

 

 

La porta di fuoco del XXI secolo

 

In esplicito riferimento all’11 settembre, è toccato proprio a Kofi Annan lo storico paradosso di ritirare il Premio Nobel per la pace rendendo l’ennesimo, plastico tributo alla guerra, alla sua capacità di timbrare a fuoco storia e mondi: «siamo entrati nel terzo millennio per una porta di fuoco»[38].

Da allora l’umanità non cessa di interrogarsi su quel gesto estremo e sull’immediatezza con cui, nelle immagini delle torri dissolte in fungo e rifratte da miliardi di schermi nel mondo, si è scoperta, in un istante, «comunità di destino», bersaglio non più solo della decisione oligarchica di chi, da Hiroshima in poi, detiene un potere assoluto sul mondo, ma di uomini risoluti a mutarsi in kamikaze del XXI secolo. Una legge antica, intitolata ad Archimede, ha dettato nuovamente la sua verità: «dammi un punto d’appoggio e ti solleverò il mondo». E il fungo mortale sbocciato al centro dell’impero ha rivelato questa volta l’immane potenza accumulata non più in un ordigno, ma nelle reti della globalizzazione fatte corto-circuitare – voli civili contro grattacieli – dalla volontà di martirio. Gli zeloti del XXI secolo sono creature dei processi di globalizzazione. Nel deserto dei loro padri sono poveri, nudi ed inermi. E’ tra grattacieli o ferrovie, metropolitane o vacanzifici, che quella nuda vita diviene spoletta e, accendendendo la mostruosa potenza della complessità metropolitana, si tramuta in atomica[39].

Da allora il mondo è stato sospinto su una china rovinosa, veramente oltre i confini che per tanta parte del Novecento lo hanno trattenuto nel sistema della guerra fredda, poi sopravvissuto come deterrenza anche alla fine del bipolarismo. Quando quei kamikaze si sono immolati contro le Twin Towers, in realtà hanno lanciato una sfida – vita contro macchina – oltre la soglia mai varcata da alcuna superpotenza: nell’età bipolare infatti, come due scorpioni chiusi nella medesima bottiglia, entrambi gli avversari erano costretti a limitarsi alla minaccia, sapendo che all’attacco dell’uno sarebbe seguita la rappresaglia altrui e perciò la morte comune, il suicidio dell’umanità tutta. Essi hanno sfidato gli USA e il mondo a porre anch’essi sul piatto della bilancia la propria vita, e intanto a trovare e colpire il nuovo nemico senza volto e confini. Oltre quella soglia è andato anche George W. Bush quando, accettando la sfida lanciata dal terrorismo di terzo millennio, ha trascinato gli USA e il mondo in una guerra infinita. In essa, nell’epoca nuova così scoperchiata, si contempla financo l’uso della ‘Bomba’ nel first strike  preventivo e l’abbassamento della soglia nucleare tramite la messa in campo di mini-nuke atomiche. Oggi più che mai il globo sosta sull’orlo di un abisso attorno al quale una proliferazione senza più freni  addensa folla e follia di vecchi e nuovi attori. Di fronte alla volontà dei tradizionali detentori del potere nucleare di non disarmare più, dal Sud del mondo si è levato un grido altissimo proprio in quel 1998 che celebrava il 500° anniversario dell’impresa di Vasco da Gama e l’unificazione del mondo nel predominio occidentale[40]: India e Pakistan, con le loro detonazioni atomiche, hanno denunciato l’apartheid nucleare e notificato all’umanità e all’Occidente che non intendono più esser relegati nel ruolo di «eunuchi» del mondo globalizzato dall’atomica[41]. Da Corea e Libia sono venute poi via via rivelazioni sul fiorente mercato nero che maneggia una tecnologia nucleare di utilizzo sempre più comune, cosicché oggi la terra tutta può ben essere rappresentata dal Medioriente: strattonato brutalmente dagli USA contro la minaccia della futura  bomba iraniana, ma già tutto incatenato da Israele, novello Sansone, al presente di circa 400 testate nucleari puntate contro gli odierni Filistei[42].

Ci si sarebbe potuti accostare a questa sconvolgente cesura della storia con maggiore umiltà e consapevolezza. Per meglio capire come e quanto il terrorismo kamikaze sia figlio della globalizzazione e delle sue asimmetrie, si sarebbe potuto approfittare della lezione già lasciata in altra epoca e da vecchi maestri. Ad esempio da Carl Schmitt. In alcune pagine di uno dei suoi libri più noti, Il Nomos della Terra, il terrorismo viene indagato nel suo storico radicarsi nei caratteri della guerra moderna, come guerra devastante, di sterminio: «Se le armi sono in modo evidente impari, allora cade il concetto di guerra reciproca, le cui parti si situano sullo stesso piano. È infatti proprio di questo tipo di guerra il fatto che si dia una certa determinata chance, un minimo di possibilità di vittoria. Se questa viene meno, l'avversario diventa soltanto oggetto di coazione. Si acuisce allora in maniera corrispondente il contrasto tra le parti in lotta. Chi è in stato di inferiorità sposterà la distinzione tra potere e diritto negli spazi del bellum intestinum. Chi è superiore vedrà invece nella propria superiorità sul piano delle armi una prova della sua justa causa e dichiarerà il nemico criminale, dal momento che il concetto di justus hostis non è più realizzabile. La discriminazione del nemico come criminale e la contemporanea implicazione della giusta causa vanno di pari passo con il potenziamento dei mezzi di annientamento e con lo sradicamento spaziale del teatro di guerra. Il potenziamento dei mezzi tecnici di annientamento spalanca l'abisso di una discriminazione giuridica e morale altrettanto distruttiva»[43].

L’ammonimento è preciso: il terrorismo nasce nel seno della guerra asimmetrica, della sua capacità di aver ragione d’ogni limite e spazio, dei suoi disumani poteri di annientamento. A mano a mano che cresce una potenza disumana di morte, e ancor più quando essa è monopolio esclusivo di una qualche super o iper-potenza, parallela nasce la tentazione di colpire nelle parti più intime e molli, di praticare terreni sgombri da ogni misura giuridica e morale. Di pari grado corre altresì la criminalizzazione reciproca più assoluta e stringente. Guerra e terrorismo sono figli gemelli, nati da dismisura, dall’annichilimento d’ogni distanza e differenza.

Ma Carl Schmitt va oltre questo affondo analitico sulla genealogia del terrorismo moderno. Il suo bisturi scava nelle straordinarie asimmetrie del mondo contemporaneo, misurandosi con l’impossibile compito di contornare la figura del combattente irregolare - il partigiano - emersa dalla II guerra mondiale e popolarizzata come incarnazione vittoriosa delle varie lotte di liberazione anti-coloniale. Egli rileva che «con la lotta partigiana sorge un nuovo spazio di azione strutturato in maniera complessa, perché il partigiano combatte non in campo aperto e non sullo stesso piano della guerra combattuta al fronte. Egli costringe invece il suo avversario a entrare in uno spazio diverso. In questo modo alla superficie del tradizionale teatro di guerra regolare aggiunge un'altra, oscura dimensione, una dimensione della profondità. In analogia con la  raffigurazione della guerra sottomarina, egli si produce in un preveggente ammonimento sulle abissali ed oscure profondità cui può spingersi la contrapposizione tra fondamentalismi: «In un mondo nel quale gli interlocutori si spingono a vicenda nel baratro della totale svalutazione, prima che ci si annienti anche fisicamente devono nascere nuovi tipi di inimicizia assoluta. L'inimicizia diventa così terribile che forse non è più nemmeno lecito parlare di nemico e inimicizia; entrambi questi concetti sono addirittura condannati e banditi formalmente prima che possa cominciare l'opera di annientamento. L'annientamento diventa quindi del tutto astratto e assoluto. Non si rivolge più contro un nemico, ma è ormai al servizio solo di una presunta affermazione oggettiva dei valori più alti - per i quali, notoriamente, nessun prezzo è troppo alto»[44].

Sciaguratamente Bush II – dinastico continuatore di una schiatta adusa allo scatenamento di conflitti globali – ha pensato davvero che contro il terrorismo di terzo millennio la guerra potesse ancora essere la continuazione della politica con altri mezzi dell’epoca pre-Hiroshima.  E ha trascinato il mondo nella follia della guerra infinita al terrorismo. E’ stato come «dare un colpo di martello ad una boccia di mercurio»[45]. Adesso – specie dopo lo scatenamento della nuova «tempesta nel deserto» contro l’Iraq di Saddam, dopo la proclamazione di una guerra preventiva fondata sulla menzogna assoluta di armi di distruzione di massa inesistenti – siamo alle prese con un terrorismo mercuriale, con le saettanti traiettorie e le mutevoli configurazioni di un universo mobilissimo di gocce e rivoli, pronti, dopo ogni urto, a dissolversi o rilanciarsi per nuove avventure ed evoluzioni. Dall’altro lato, siamo costretti a constatare come e quanto la guerra moderna, condotta in assoluta preponderanza di risorse e tecnica, finisca inevitabilmente fuori bersaglio a far strame di civili che bisognerebbe proteggere o di libertà e diritti che si vorrebbe esportare.

Rispetto a queste spaventose declinazioni del nostro tempo, il resto del mondo poteva procedere con passo più meditato, più accorto. Cominciando dalla Nato, che  - prima ancora che si producesse qualsiasi atto del governo americano o che suonasse una qualche diana di guerra – già il 12 settembre si dichiarava sotto attacco nemico, pronta ai compiti dettati dall’art. 5 del Trattato atlantico, ovvero ad assistere l’alleato attaccato. Per la prima volta nella storia dell’Alleanza atlantica si dava corso all’applicazione di quella norma, ma a parti rovesciate – l’Europa in soccorso degli USA - e soprattutto contro un nemico ignoto, sconosciuto, tanto da subordinare l’allerta all’accertamento che «l’attacco sia di provenienza esterna».

Né cautele maggiori hanno mostrato l’Assemblea o il Consiglio di sicurezza dell’ONU. In verità fino al 12 settembre, con le rispettive deliberazioni, essi in realtà hanno provveduto esclusivamente alla pronta condanna dell’atto e alla più piena attivazione di tutti gli Stati nella lotta al terrorismo, considerato - nella risoluzione del Consiglio di sicurezza - «una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale», sulla scia di precedenti risoluzioni che individuavano nella «soppressione del terrorismo internazionale un atto essenziale per preservare la pace e la sicurezza internazionale»[46]. I problemi invece si fanno estremamente delicati dopo il 14 settembre, dopo la concessione al presidente Bush da parte del Congresso americano di amplissimi poteri di guerra: anche preventivi. In essa infatti si autorizza il presidente  «ad usare tutta la forza appropriata e necessaria contro quelle nazioni, organizzazioni o persone che, a suo giudizio, hanno pianificato, autorizzato, commesso o agevolato l’attacco terroristico dell’11 settembre o hanno ospitato simili organizzazioni o persone, anche per prevenire ogni futuro atto di terrorismo internazionale contro gli USA». Il 28 settembre il Consiglio di sicurezza – pungolato decisamente dal rappresentante americano John Negroponte – si avventura per una strada assai discutibile e perigliosa. Come già nella risoluzione del 12, «riafferma il diritto naturale di legittima difesa individuale o collettiva». Ma si tratta, come ben chiarisce l’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite, di un diritto naturale che si esplica «rispetto ad un attacco armato» e «fintantoché il Consiglio di sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale». Non sta al Consiglio di sicurezza o alle Nazioni Unite riconoscerlo o meno. Insistervi, senza assumere alcuna misura volta ad assorbire o sostituire l’autodifesa in atto da parte degli USA e di cui il Consiglio è pienamente edotto, significa solo legittimare - come a molti tocca chiarire[47] - le decisioni americane. Queste però, in base alla deliberazione congiunta da parte del Congresso, non sono affatto rivolte solo all’Afghanistan. Consegnano al presidente e alle forze armate americane un mandato e un raggio di azione planetari. E perciò quando il Consiglio di sicurezza il 28 settembre decide di chiedere a tutti gli Stati di prevenire e reprimere ogni atto terroristico, provvedendo all’interruzione e al prosciugamento di canali e fonti di finanziamento, scompaginando reti di reclutamento e addestramento, collaborando sul piano internazionale con lo scambio di informazioni e segnalazioni, mobilitandosi insomma ad ogni livello contro ogni forma di terrorismo internazionale, di fatto e formalmente chiede ad ogni Stato di disporsi a terminale e ganglio dell’azione globalmente proclamata dagli USA, ovvero di una guerra condotta e amministrata su scala mondiale dalla presidenza americana e dai suoi vari bracci esecutivi. Trionfa l’asimmetria a stelle e strisce. Agli USA – o, meglio, al loro presidente – tocca individuare il nemico, individuare il campo di battaglia e scegliere l’arma. E Bush II vi provvede ben volentieri.

Di lì a poco inizieranno i bombardamenti sull’Afghanistan. Ma diverrà subito chiaro, nella polemica contro l’axis of evil, «l’asse del male», che nel mirino c’è l’Iraq. Seguiranno le teorizzazioni su pre-emptive war – la guerra precauzionale, da condurre contro un pericolo imminente – e preventive war - la guerra preventiva, per parare incognite e rischi a più lungo termine - e le volute confusioni dei due piani, in cui si sono scientemente dilatati i confini della pre-emption fino ad inglobare ogni aspetto della prevention. In crescente divisione e polemica verso e all’interno del Consiglio di sicurezza, gli USA e i loro alleati finiscono con lo sdoganare del tutto la guerra preventiva contro l’Iraq.

Doveva essere illuminata e guidata dall’informazione più precisa su mosse e mezzi del nemico. E’ stato il trionfo della menzogna e dello spionaggio, financo in casa americana. Doveva segnare una nuova tappa nell’unificazione dell’umanità contro il male. Ha segnato il ritorno della tortura in Occidente e il culmine delle divisioni in ogni campo: dall’ONU alla Nato all’Unione europea. Doveva esportare democrazia e libertà e riconvertire a questo scopo la Nato e la guerra, ribattezzandola giusta o santa, addirittura. E’ finita nel pantano iracheno e afghano, con la marginalizzazione della Nato, considerata zavorra di cui liberarsi durante i bombardamenti o gli assalti, ma poi di nuovo osannata quando il fante è stato chiamato a calcare il terreno, a confrontarsi con la guerriglia. Quando si è scoperto che il popolo da liberare si sentiva occupato, malmenato, sfruttato. Quando la zero causalty war, la moderna cavalcata delle Valchirie, ha lasciato il passo allo stillicidio delle perdite, al lento ma inarrestabile accumularsi delle body bags, le casse da morto. Quando sono iniziate le operazioni di peace-keeping senza fine, indeterminate, e si sono scoperti la libanizzazione infinita del conflitto, la rifeudalizzazione post-moderna di nazioni un tempo moderne, il ritorno del potere a clan e tribù.

E’ su questi fondali che – sospinta soprattutto dagli USA e dalle loro iniziative in tema di Community of Democracies - ritorna in primo piano quella riforma dell’ONU, dei suoi organi e delle sue politiche, già abortita con Boutros Boutros-Ghali. Tocca a Kofi Annan tracciarne un possibile percorso. L’occasione è data dalla 58° Assemblea generale  dell’ONU e dall’insediamento di un Commissione di eminenti personalità politiche ed esperti in tema di sicurezza e sviluppo, incaricata di elaborare per conto dello stesso Segretario generale un rapporto sulle riforme da apportare alla struttura dell’ONU per permetterle di affrontare al meglio le sfide del prossimo secolo[48].

Indubbiamente al quadro che egli disegna non difettano nitidezza e realismo, a partire dalla domanda cardine che egli rivolge all’Assemblea delle Nazioni Unite e che gli sembra riassumere al meglio l’agenda di lavoro della istituenda Commissione di esperti: «Qual è il ruolo delle Nazioni Unite in un mondo divenuto unipolare?»  La mutazione auspicata circa un quindicennio prima da Krauthammer appare ormai compiuta agli occhi di Annan – e di fatto ne danno sofferta testimonianza le varie risoluzioni del Consiglio di sicurezza sulle vicende irachene, puntualmente acconciate a tentare di comporre una agenda di ricostruzione dietro le forze di occupazione. Ma la comunità internazionale appare clamorosamente divisa su fondamentali questioni politiche e di principio: come proteggersi dal terrorismo e dalla minaccia delle nuove armi di distruzione di massa? Quando è permesso l’uso della forza e chi lo decide? Ognuno deve far da sé, o sarà più sicuro cooperando con gli altri? La guerra preventiva è qualche volta giustificata o è sempre e soltanto guerra di aggressione? Solo passando per queste forche caudine forse si potrà approdare ad una riforma capace di restituire visibilità e centralità alle Nazioni Unite.

La risposta del Gruppo di saggi giungerà a distanza circa di un anno – e a prezzo di un ulteriore incancrenimento del quadro internazionale - accompagnata un insieme abbastanza organico di proposte, anche sulla questione più annosa e spinosa: l’allargamento del Consiglio di sicurezza[49]. Il fuoco però del documento è sul nodo più aggrovigliato e scottante, figlio dell’11 settembre: la rivisitazione di quell’assoluto «no alla guerra» costitutivo della stessa ONU, innervata addirittura sulla possibilità di uno sdogamento della guerra preventiva.

Attestato attorno alla formale conservazione delle formulazioni e degli articoli originari della Carta, il Gruppo dei Saggi sceglie una via molto prudente, rispettosa intanto delle varie prerogative istituzionali e dei loro domini sovrani. Si suggerisce la via di risoluzioni interpretative da parte dell’Assemblea e del Consiglio di sicurezza, nell’obiettivo di fornire indirizzi generali per il possibile uso preventivo della forza nelle nuove situazioni di crisi. Di fatto, è possibile intravedere nella linea di ragionamento seguita una fondamentale revisione di alcuni articoli-chiave della Carta delle Nazioni Unite. Su questo piano – ma già sulla stessa organizzazione dei quesiti posti al Panel di saggi - si apprezza, incombe il peso unipolare esercitato da anni di mobilitazione e di «guerra al terrorismo». Per quanto improntata a criteri di grande cautela – serietà della minaccia, scopi e mezzi appropriati e proporzionali, ricorso alla forza in ultima istanza, valutazione approfondita delle conseguenze – la proposta manca l’obiettivo fondamentale che le era assegnato in partenza: come intervenire a portare ordine, misura in un mondo segnato dall’asimmetria, dall’unipolarismo sfrenato degli USA e dai tratti naturalmente catastrofici della forza, financo quella del più debole, quando sagacemente mirata a leve e gangli vitali del mondo globalizzato. Per quanto ci si sforzi di porre l’enfasi sull’equilibrio e l’appropriatezza dei mezzi dell’intervento militare, quest’ultimo è ormai espressione di un mondo post-bipolare naturalmente asimmetrico e delle sue gerarchie, delle sue diseguaglianze. Ci si appella all’uso legittimo della forza. Ma in realtà si maneggia la potenza detenuta monopolitisticamente ai sui massimi livelli da uno solo. Il risultato inevitabile di una letittimazione preventiva e di una resa alle ragioni del più forte è già tutto nelle premesse. Sul piano dei principi, però, il Rapporto del Panel varca una soglia epocale. Sia pure con le cautele dell’ultima ratio e alla condizione obbligante dell’unanimità del Consiglio di sicurezza (assistita magari da provvidenziali astensioni mai considerate dalla dottrina, ma sapientemente sfruttate dalla tradizione),  si frantuma la barriera del «no alla guerra».

Di fatto, con la discussione attorno alla possibilità di guerre preventive autorizzate dal Consiglio di sicurezza si è imboccata una strada simile alla possibile revisione di quel faro di civiltà rappresentato dal «no alla pena di morte»: perché non affievolirlo o revocare del tutto laddove venga comminata come ultima ratio da una giuria all’unanimità dei voti? Il tutto aggravato però da un giudizio emesso in via preventiva. A esergo delle possibilità fatte intravedere da una discussione organizzata attorno a tali premesse, si potrebbe, a ragione, scolpire le parole del Philip K. Dick di Minority Report: «Lei ha probabilmente afferrato qual è il fondamentale difetto della metodologia precrimine dal punto di vista legale. Noi arrestiamo degli individui che non hanno infranto alcuna legge»[50]. Forte intanto è il rischio spalancato da questo tipo di proposte: che si imbocchi la via del male minore a spese di principi fondamentali, di argini invalicabili da far valere contro il ritorno della guerra, contro l’illusione perversa di ritrovare lì risposta ai conflitti del secolo nuovo. Su questo orizzonte, purtroppo, la più larga disattenzione con cui è stata seguita tutta la vicenda fa già intravedere posture più disinvolte e più ciniche. Già si orecchia l’invito ad una sorta di saggio e scontato realismo: meglio non esser fiscali, lasciar perdere il bilancino degli speziali d’altri tempi o il microscopio del cacadubbi di turno. L’essenziale è legare le mani di Bush e degli USA con procedure collettive, tosare l’unilateralismo, spegnerne i furori in un nuovo, più soffice multilateralismo.

In realtà l’unipolarismo, una volta evocato, difficilmente obbedisce al comando di ripiegare. Anzi, prova ad impadronirsi del campo di manovrà e a dettar legge. Così è stato quando tra luglio e settembre 2005 – sotto lo sprone dall’ennesimo rapporto di Kofi Annan centrato rooseveltianamente sul perseguimento della libertà dal bisogno e dalla paura[51] - si è provato a mettere in pratica alcune delle indicazioni di lavoro fornite dai Saggi quanto a riforma e ampliamento del Consiglio di sicurezza. Sul tavolo la formula dell’allargamento a 11 dei membri permanenti e a 14 di quelli a rotazione. In dirittura d’arrivo come membri permanenti Germania e Giappone, le potenze sconfitte della II guerra mondiale ma divenute giganti dell’economia mondiale sotto l’ombrello protettivo degli USA. Sarebbero state accompagnate nella corsa al Club più esclusivo del mondo da altri candidati, scelti in rappresentanza dei vari raggruppamenti continentali. Quasi sicura la promozione di India e Brasile; probabili promossi Egitto e Sudafrica.

A mettersi di traverso adesso sono proprio gli USA, che in passato avevano caldeggiato più volte l’ascesa dei due più fedeli alleati in Europa e Asia. Ora però l’imperatore cala decisamente il pollice al cospetto della Germania. Pesa il no alla guerra in Iraq. In compenso tira un respiro di sollievo l’Italia, timorosa di vedersi definitivamente declassata rispetto ai soci di ieri nel club del G7. Ancor più forte il sollievo per lo scampato pericolo a Bruxelles, negli uffici dell’Unione europea. L’ingresso di un ennesimo paese europeo avrebbe reso insormontabili gli scogli già rappresentati per la Politica estera e di sicurezza europea, PESC, dalla doppia presenza in Consiglio di sicurezza di Francia e Germania.

Il colpo è duro e di fatto la partita viene silenziosamente accantonata quando a settembre il Summit di capi di stato e di governo licenzia una ipotesi di riforma alquanto rattrappita, rispetto a quella proposta dal Segretario generale, ma riconoscibile nella sua direzione di marcia da quattro partite forti: definizione di una chiara strategia contro il terrorismo; creazione del Consiglio per i diritti umani sulle ceneri della vecchia e screditata Commissione per i diritti umani; costituzione di un Ufficio etico che assicuri sulla correttezza e trasparenza delle pratiche e del circuito istituzionale delle Nazioni Unite; creazione di una Commissione per il peace-building. Al di là della fondatezza di alcune di queste ipotesi di ristrutturazione e riforma, sta di fatto che con esse la campagna condotta dalla destra neocoservatrice americana contro l’ONU diviene agenda di lavoro del Palazzo di Vetro, conquistando di fatto una sorta di restringimento del campo di lavoro delle Nazioni Unite, invitate a specializzarsi in ambiti di lavoro precisi e circostanziati. 

Con quali risultati poi è facilmente ricavabile dalle polemiche che hanno accompagnato la definizione, prima, e la concreta elezione, dopo, del Consiglio dei diritti umani. Sono rimasti scontenti tanto quelli che avrebbero voluto apporre un crivello più fine ed esigente alla selezione dei suoi membri – provvedendo ad elevare, come volevano gli USA per bocca di Bolton, la soglia del voto – sia coloro che criticavano il possibile esclusivismo del nascente organismo. Il risultato è stata la contestata elezione di membri sicuramente avari quando a rispetto della dignità e dei diritti umani. Il tutto mentre proprio la guerra al terrorismo – agente principale della tentata ristrutturazione dell’ONU – si rivela ad ogni latitudine, ma soprattutto negli USA,  foriera di mutazioni che attentano a diritti e libertà fondamentali: tanto di chi è eletto a nemico dell’umanità e privato d’ogni diritto in prigioni dove si ritorna alla tortura e al Medioevo; tanto di milioni di cittadini difesi a parole ma spiati nei fatti, in barba ad ogni regolamentazione.

La riforma dell’ONU, stretta tra i privilegi oligarchici dei suoi storici Grandi e le più moderne asimmetrie di potenza, abortisce continuamente e finisce col rivelarsi puntualmente impossibile. In realtà la sua partita reale, anche nel ciclo aperto dall’11 settembre, è stata già tutta giocata nel maggio 2005 al tavolo della Conferenza di revisione del Trattato di non-proliferazione delle armi nucleari, NPT. Lì, per la prima volta nella storia del Trattato, non è stato possibile nemmeno accordarsi su una agenda di lavoro condivisa, seppur minima. Troppo grandi le distanze tra chi vanta lo status di potenza nucleare e chi sgomita per ottenerlo. A turbare i sogni di tutti quel genio uscito definitivamente fuori dalla lampada atomica e che già più di mezzo secolo fa Freda Kirchwey individuava come killer dell’organizzazione. Promuove ad un altro, più occulto Consiglio di sicurezza. Consegna nelle mani dell’oligarca di turno un potere di veto molto più stringente ed imperativo di quello formalmente riconosciuto ai Grandi dalla Carta del ‘45.

Per riguadagnare visibilità ed agibilità di un progetto di riforma e rafforzamento dell’ONU – ovvero per andare decisamente controcorrente in materia – vi è bisogno di uno straordinario mutamento culturale e politico. Non lo si conquista senza quei milioni di persone scesi nelle strade del mondo il 15 febbraio di un già lontano 2003, se non fa proseliti nella «seconda superpotenza» la battaglia per il disarmo, se lì non muove cuore e cervelli la lotta per la riforma delle Nazioni Unite. Magari attraverso un movimento che, piuttosto che rifuggire dall’impatto e dal rapporto con le istituzioni nazionali e sovranazionali, li sappia vantare, alimentandoli quotidianamente con la propria diversità; magari facendo propria la logica di una risoluzione quale quella, già citata, n. 377, Uniting for Peace; magari avanzando attraverso l’Assemblea delle Nazioni Unite proposte concrete di disarmo nucleare e di revisione dei poteri.

Magari …



[1] La definizione è di G. J. Ikenberry, Non sbagliarsi sull’egemonia, in P. Hassner – J. Vaïsse, Washington et le monde. Dilemmes d’une superpuissance, Paris, CERI-Autrement, 2003, tr. it. Washington e il mondo. I dilemmi di una superpotenza, Bologna, il Mulino, p. 91.

[2] Cfr. in particolare la sezione dedicata alla riforma dell’organizzazione sul sito dell’ONU - http://www.un.org/reform/ - per una panoramica dei vari rapporti presentati da Kofi Annan già nel 1997, A programme for Reform, nel 2002 con la Agenda for Further Change, e poi ancora nel 2006, Investing in the UN.

[3] Così significativamente autoproclamati fin dall’avvio della campagna elettorale presidenziale dell’allora governatore texano G. W. Bush. Un acuto e stimolante profilo del gruppo e dei suoi membri, delle loro radici e percorsi in J. Mann, Rise of the Vulcans. The History of Bush’s War Cabinet, New York, Viking, 2004.

[4] I vari sviluppi del progetto e dei suoi vari momenti costitutivi sul sito del Council for a Community of Democracy, http://www.ccd21.org,; uno dei suoi più lucidi manifesti è in J. Muravchik, The Future of the United Nations:Understanding the Past to Chart a Way Forward, AEI Press 2005. Tra i propalatori italiani più attivi del credo neocons il quotidiano «il Foglio», soprattutto con il suo inviato negli USA Christian Rocca, autore del pamphlet Contro l’ONU. Il fallimento delle Nazioni Unite e la formidabile idea di un’alleanza tra le democrazie, Roma, Lindau, 2005. Per una mappa aggiornata dell’influenza neoconservatrice in Italia, dei suoi cenacoli e laboratori, vedi il bel numero monografico de «Il Ponte» dedicato a Americanismo, in fondo a destra, curato da Luca Baldissara e Giovanni Ruocco.

[5] The Real World Order. Zones of Peace, Zone of Turmoil, Chatam, Chatam House Publishers, 1993.

[6] L’espressione è tratta dall’omonimo saggio di J. Muravchik, The Neoconservative Cabal, in «Commentary», september 2003, che comunque fornisce una esaustiva e stimolante panoramica delle varie critiche rivolte al fronte neoconservatore.

[7] Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, Frankfurt am Main, Fischer Verlag, 1969, tr. it. Dialettica dell’illuminismo, Torino, Einaudi, 1966, 1974, pp. 3, 5, 14, 17.

[8] Sulla struttura oligarchica dell’ONU e del Consiglio di sicurezza, vi è un letteratura sterminata, emblematicamente rappresentata dal classico H. J. Morghentau, Politics among Nations, The Struggle for Power and Peace, New York, McGraw Hill Inc., 1960, 1985, tr. it. Politica tra le nazioni. La lotta per il potere e la pace, Bologna, il Mulino, 1997, e dal più recente D. Zolo, Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, Milano, Feltrinelli, 1995.

[9] Così nello splendido editoriale scritto per «Tribune» il 19 ottobre 1945: You and the Atomic Bomb, ora tradotto come Noi e la bomba atomica, in Romanzi e saggi, Milano, Mondadori, 2000, pp. 1593-7, trasfuso poi in tante pagine del capolavoro 1984, ivi, pp. 1092-107.

[10] H. Bull, La rivolta contro l’Occidente, in H. Bull - A. Watson (eds.), The Expansion of International Society, Oxford University Press, 1984, tr. it.: L’espansione della società internazionale. L’Europa e il mondo dalla fine del Medioevo ai tempi nostri, Milano, Jaca Book, 1994, pp. 227-38.

[11] G. Barraclough, An Introduction to Contemporary History, London, C.A. Watts, 1964, tr. it.: Guida alla storia contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 1971, p. 157-8, 203.

[12] Art. 1, comma 2 della Carta delle Nazioni unite.

[13] Art. 28 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo adottata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948.

[14] Reso pubblico da Bertrand Russell a Londra il 9 luglio 1955 come Testamento spirituale di Albert Einstein, assieme alle firme di altri eminenti scienziati: cfr. in A. Einstein, Come io vedo il mondo, Roma, Newton Compton editori, 1976, 1999, pp. 103-10.

[15] Citato da Barraclough, op. cit., p. 40.

[16] Così a Ginevra il 15 giugno 1964 nella dichiarazione congiunta dei 77 paesi in via di sviluppo che chiudeva la prima sessione dell’UNCTAD, la Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo.

[17] M.J.Crozier-S. Huntington-J.Watanuki, The Crisis of Democracy. Report on the Governability of Democracies to the Trilateral Commission, New York, New York University Press, 1975, tr. it.: La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione trilaterale, Milano, Angeli, 1975.

[18] Il più famoso di tutti lanciato di P. Kennedy, The Rise and Decline of  the Great Powers: Economic Change and Military Conflict from 1500 to 2000, London, Unwin & Hyman, 1988, tr. it. Ascesa e declino delle grandi potenze, Milano, Garzanti, 1989.

[19] Per una affascinante ricostruzione delle radici dell’eccezionalismo americano, cfr. A. Stephanson, Manifest Destiny. American Expansion and the Empire of Right, New York, Farrar, Straus & Giroux, 1995, tr. it. Destino manifesto. L’espansionismo americano e l’Impero del Bene, Milano, Feltrinelli, 2004.

[20] La più convincente ricostruzione dell’ultimo Roosevelt e del suo lascito in C. R. Sunstein, The Second Bill of Rights. FDR’s Unfinished Revolution and Why We Need It More Than Ever, New York, Basic Books, 2004.

[21] Così in P. Beinart, The Rehabilitation of the Cold-War Liberal, in «The New York Times Magazine», 30 aprile 2006.

[22] Per una ricostruzione della parabola neoconservatrice cfr. lo studio precorritore di P. Steinfels, The Neoconservatives, New York, 1979, tr. it. I neoconservatori. Gli uomini che hanno cambiato la politica americana, Milano, Rizzoli, 1982. Per aggiornarla agli sviluppi più recenti cfr. M. Calvo-Platero e M. Calamandrei, Il modello americano. Egemonia e consenso nell’era della globalizzazione, Milano, Garzanti, 1996; I nuovi rivoluzionari. Il pensiero dei neoconservatori americani, a cura di Jim Lobe e Adele Olivieri, Milano, Feltrinelli, 2003; su un fronte di entusiastica adesione C. Rocca, Esportare l’America. La rivoluzione democratica dei neoconservatori, Milano, Il Foglio, 2003.

[23] Così nella sua analisi precorritrice G. Kepel, La revanche de Dieu. Chrétiens, juifs et musulmans à la reconquête du monde, Paris, Seuil, 1991, tr. it. La rivincita di Dio, Rizzoli, Milano, 1991.

[24] Così in un articolo – A quoi revent les Iraniens? – per «Le Nouvel Observateur», 16 ottobre 1978.

[25] Così il titolo del volume che raccoglie i reportages commissionatigli dal «Corriere della Sera», poi riproposti a cura di Renzo Guolo e Pierluigi Pansa, Milano, Guerini e associati, 1998.

[26] Così un saggio giustamente famoso sul movimento del ‘68: C. Donolo, La politica ridefinita. Saggio sul movimento studentesco, in «Quaderni piacentini», n. 35, 1968, ora in Il ’68 senza Lenin. Ovvero: la politica ridefinita. Testi e documenti, a cura di G. Fofi, Roma, Edizioni e/o, 1998.

[27] Così ha individuato la caratteristica essenziale del ’68 P. Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, Roma, Editori riuniti, 1988.

[28] Così veniva salutato il movimento sces in piazza il 15 febbraio 2003 nella sua giornata di mobilitazione mondiale contro la guerra di George W. Bush all’Iraq: Patrick E. Tyler, A New Power in the Streets, in «The New York Times», 17 febbraio 2003.

[29] S. P. Huntington, The Clash of Civilisations and the Remaking of World Order, New York, Simon & Schuster, 1996, tr. it. Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano, Garzanti, 1998.

[30] G. Bush, Address Before a Joint Session of the Congress on the Persian Gulf Crisis and the Federal Budget Deficit, rintracciabile presso il sito della George Bush Presidential Library and Museum,  http://bushlibrary.tamu.edu.

[31] Address Before the 45th Session of the United Nations General Assembly in New York, 1° ottobre 1990, ibid.

[32] Tradotto nell’antologia Pensare il mondo nuovo, con Introduzione di G. Vacca, Roma, l’Unità, 1989, pp. 23-40.

[33] Il verbale della riunione, tenuta a Londra il 17 luglio del 1991, è stato pubblicato da Giulietto Chiesa  sulla «Stampa» del 13 giugno 1993.

[34] The Unipolar Moment, in «Foreign Affairs, n. 1, 1989-1990.

[35] P. E. Tyler, U.S. Strategy Plan Calls for Insuring No Rivals Develop
A One-Superpower World e Excerpts from Pentagon's Plan: Prevent the Emergence of a New Rival.

[36] Per la nuova versione, Id., Pentagon Drops Goal of Blocking New Superpowers, in «The New Tork Times», 24 maggio 1992; B. Gellman, Pentagon Abandons Goal of Thwarting U. S. Rivals. 6-Year Plan Softens Earlier Tone on Allies, in «The Washington Post», 24 maggio 1992.

[37] In un articolo sul «New York Times», in risposta all’editorialista conservatore William Safire: It Takes Two to Make a Cold War, 8 dicembre 1987:

[38] [38] La frontiera tra ricchi e poveri, «la Repubblica», 11 dicembre 2001.

[39] Ci sia permesso il rinvio a I. D. Mortellaro, Del terrorismo di terzo millennio, in «Quale Stato», nn. 3-4, 2005, pp. 301-316.

[40] Su come le atomiche di India e Pakistan chiudano l’epoca aperta da Vasco da Gama ha attirato l’attenzione P. Bracken, Fire in the East, New York, Harper & Collins, 1999, tr. it. Fuochi ad Oriente. Il sorgere del potere militare asiatico e la seconda era nucleare, Corbaccio, 2001, pp. XI-XIII.

[41] Così nelle parole del leader fondamentalista hindu Balasaheb C. Thackeray, citato in V. Lal, Coming Out from Gandhi Shadow, in «Los Angeles Times», 19 maggio 1998.

[42] Sui nuovi sviluppi della proliferazione nucleare cfr. M. Dinucci, Il potere nucleare, Roma, Fazi editore, 2003 e A. Baracca, A volte ritornano: il nucleare, Milano, Jaca Book, 2005.

[43] C. Schmitt, Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Berlin, Duncker & Humblot, 1974,  tr. it. Il Nomos della terra, nel diritto internazionale dello jus publicum europaeum, Milano, Adelphi, 1991,  pp. 429-30.

[44] Id., Theorie des Partisanen. Zwischenbemerkung zum Begriff des Politischen, Berlin, Duncker & Humblot, 1963, 2002, tr. it. Teoria del partigiano. Integrazione al concetto del politico, Milano, Adelphi, 2005, pp. 97 e 130-1.

[45] L’immagine suggerita di recente – The Forever War, in «San Francisco Chronicle» del 9 gennaio 2005 - da John Arquilla, uno dei più fini analisti delle guerre di Terzo Millennio, delle netwar disposte asimmetricamente in rete, ripropone una considerazione su cui ci siamo interrogati più volte all’indomani dell’11 settembre: cfr., per tutte, I. D. Mortellaro, Guerre da globalizzazione, in Guerra  e conflitti, a cura di Antonio Cantaro, fascicolo di «Democrazia e diritto», Franco Angeli, Milano, 2002, pp. 27-40.

[46] Cfr. ad esempio la risoluzione del Consiglio di sicurezza 1.198 del 1998 o la risoluzione dell’Assemblea generale 2.625 dell’ottobre 1970. 

[47] Come a G. Ferrara sul numero di gennaio 2002 della «Rivista del Manifesto»: Il ritorno del Leviatano.

[48] Relazione del 23 settembre all’Assemblea generale, rinvenibile su www.un.org; In a unipolar world . Defining a new role for the United Nations, in «International Herald Tribune», 4 dicembre 2003.

[49] A More Secure World. Our Shared Responsability. Report of the High-level Panel on Threats, Challenges and Change, United Nations, 2004, licenziato il 2 dicembre 2004 e rinvenibile sul sito delle Nazioni Unite, www.un.org.

[50] P. K. Dick, The Minority Report, tr. it. Rapporto di minoranza, in Rapporto di minoranza e altri racconti, Milano, Fanucci editore, 2002, p. 29.

[51] In Larger Freedom. Towards Security , Development and Human Rights for All, rintracciabile alla sezione dedicata alla Riforma sul sito delle Nazioni Unite www.un.org.