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Colpi di Stato?

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Pubblicato su «Sbilanciamoci» con il titolo Unione Europea, colpo di stato? il 25 febbraio 2014 (http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/Unione-europea-colpo-di-stato-22609)

 

 

 

 

 

Una bella novità

«L’acqua che non ha fatto in cielo sta». Con questa levantina versione del “tutti i nodi vengono al pettine”, da tempo ci si dispone al diluvio che da destra s’addensa sulle urne europee. Larga fa presa una rassegnata e fatalistica aspettativa: il voto certificherà un divorzio profondo tra Unione europea, istituzioni e grandi settori della società europea.

Ci fu un tempo in cui la collera dei più s’apriva alla speranza e la nutriva, alimentava ricerca di verità, provava a marchiare il futuro. Anche in giorni a noi più vicini, però, si è potuto salutare movimenti vogliosi di riplasmare la globalizzazione, contrastare, come «seconda superpotenza», l’unilateralismo della folle guerra al terrorismo e magari riaffermare regolazioni condivise dell’umano consorzio e dei suoi beni. Da tempo, invece, viviamo un mondo sfrangiato da folate di collera e rancore sociale: generazioni precarie s’accalcano in sequenza, frammiste a ceti medi smagriti, denudati dei paramenti abituali, del welfare che fu. Come mercurio scosso schizzano e s’aggrovigliano senza sosta. Sul web o in raduni selvaggi, su piazze punteggiate da forconi, Bonnetts Rouges o svastiche dalle fogge più varie. A dar tono una comune intonazione passatista: si impugna e reinventa un passato immaginario come balsamo e colla per i cocci di vita e lavoro. Per tutt’Europa un nuovo nazionalismo, dalle forti venature populiste, riorienta a destra tanto le nostalgie dell’«età dell’Oro» occidentale, quanto a Est la ricerca di ripari dal nuovo protagonismo russo. Per fortuna, a sinistra la percezione realistica dei pericoli s’accompagna questa volta a un elemento di novità. Di fatto, prevale una volontà larga a non esitare più dubbiosi di fronte all’Europa, a riconoscerla finalmente come il campo su cui, senza più indugi, si è chiamati ad una prova senza appello: in uno, conquistare la ridefinizione di una sinistra moderna e il riorientamento dell’Unione europea, una sua radicale correzione di rotta. Questo il valore della convergenza attorno alla candidatura di Alexis Tsipras di settori e movimenti magari uniti occasionalmente rispetto a battaglie come il No al trattato costituzionale, ma finora profondamente divisi quanto agli orientamenti di fondo: politica sovranazionale o ritorno allo Stato nazione, eurobond o uscita dall’euro, denuncia unilaterale del debito, fronte dei paesi mediterranei versus Europa germania ecc. Inquieta però che questa discontinuità sia segnata da un dato culturale molto insistito: la diffusione, l’uso di chiavi, categorie analitiche della più recente vicenda europea dal taglio cupo e radicale, quali “colpo di stato”, “manomissione”, “rottura” della legalità costituzionale, “morte” o “fine della democrazia” ecc. Il tutto entro orizzonti cospiratori e paracomplottistici, teatro di oligarchie e troike aduse al segreto, in stile Gruppo Bilderberg o Trilateral Commission (soliti in verità a esternare, come soft power, ogni minimo pensiero).

 

Cupi orizzonti

Basta allineare in sequenza – limitandosi ai soli libri, più o meno recenti – titoli e autori: il «colpo di Stato di Gallino si rispecchia nella «dittatura» della Magli. Con meno enfasi i maestri più blasonati della cultura europea – da Beck a Bauman a Habermas – insistono sulla «crisi» epocale. Altri, come Enrico Letta, si chiedono se non sia finita «l’avventura europea», mentre Heisbourg decreta «la fine del sogno». Alcuni più radicali indicano rendez-vous fatali: «collasso» per Bifo, «fallimento» per Amoroso. Bellofiore scorge la «barbarie che avanza», Bini Smaghi vede l’Europa «morire d’austerità». Altri pronosticano approdi definitivi: Klotta e Jamet l’«ultima chance», Bagnai un «tramonto», Giacché il «Titanic». Su fondali più cupi, Pisani- Ferry parla di «risveglio dei demoni». Lapidario Erzensberger addita il «mostro di Bruxelles», sia pure «buono».

Tutti temi e titoli adeguati all’ «inverno del nostro scontento»: un’età in cui l’umanità e il mondo sono tornati a spaccarsi per diseguaglianze così radicali da mettere in discussione ormai – non solo di fatto, ma in linea di principio – esistenza e funzionamento della democrazia. Val la pena, en passant, di evidenziare il radicale mutamento di clima rispetto all’alba dell’Unione Europea. Quando Maastricht diveniva un termine d’uso comune, altri erano i titoli dedicati all’Europa e all’UE in fasce. Derrida annunciava il debutto sulla scena del nuovo soggetto: «Oggi l’Europa»; Dastoli e Vilella didascalici spiegavano «la nuova Europa». Morin e altri un generale mutamento d’epoca e spazi con «L’Europa nell’era planetaria». Gadamer si raccoglieva, per meglio delinearne il futuro, sull’«eredità dell’Europa», mentre Dahrendorf, Furet e Geremek si soffermavano sul suo DNA: «la democrazia in Europa». Non v’erano dubbi allora sulla giostra della storia e sul suo senso di marcia.

Qualche interrogativo sorge invece sull’apparato analitico che oggi sorregge il dibattito sulle sorti dell’Europa e della sinistra. Giorni fa, su «Sbilanciamoci», per rappresentare alcuni tratti dell’integrazione europea e l’egemonia del neoliberalismo, si è evocato un «nuovo totalitarismo» (Valentino Parlato), mentre uno studioso attentissimo e acuto come Ferrajoli, riecheggiando altri suoi scritti e le indicazioni di un costituzionalista insigne quale Giuseppe Guarino, ha parlato -in merito a «fiscal compact» e «pareggio di bilancio» come nuovo principio costituzionale -di diritto comunitario «violato nei suoi fondamenti sia sul piano delle forme che su quello dei contenuti». Le parole – come si dice? – sono pietre, anche in tempi in cui il loro uso comune quando non corrivo (dalle parti di Grillo & Co. o di forconi), rischia di ingenerare confusioni o di portare altra legna ai roghi del rancore. Termini come «colpo di Stato», «totalitarismo» o «mostro» non lasciano dubbi sul modo per combatterli: il costituzionalismo dei moderni impone di ‘resistere’ e ‘rovesciarli’. Come si fa a individuare in una UE siffatta il nuovo terreno su cui promuovere aggregazione e nascita di una moderna sinistra europea?

Intanto, val la pena di chiedersi se questi termini descrivano in modo adeguato gli sviluppi del mondo, a partire almeno dal 1989: in particolare, quelli intervenuti sul Vecchio Continente nell’ultimo ventennio con la nascita dell’UE. Per restare all’Europa, siamo in presenza di un corpo sovranazionale di regole – i trattati di Maastricht, in parte ereditati dalla CEE -riscritto fruttuosamente da ben tre conferenze intergovernative, una Carta dei diritti, una Costituzione mancata, qualche turno di elezioni europee, svariati referendum popolari e infiniti processi statuali di ratifica, per gran parte promossi e gestiti da governi di centro-sinistra, divenuti a metà del ventennio ampiamente maggioritari in Europa. Luciano Gallino li riassume tutti, fin dalla nascita dell’UE ma soprattutto rispetto alle risposte alla crisi della finanza globale ultima, con l’espressione «colpo di Stato di banche e governi». In verità, nel suo mirino è l’irresistibile ascesa dell’egemonia neoliberale. Egli ne ritraccia la genesi – con qualche ragione – nel 1971. Di capitale importanza, vera e propria pietra miliare, sarebbe stato il Powell Memorandum, dal cognome del suo estensore, un consulente della Camera di Commercio USA, divenuto poi giudice della Corte suprema. Lì in nuce erano già i principi sviluppati poi dalle schiere di think tank neoliberali nella promozione universale di una egemonia che avrebbe permesso la successione di colpi di stato e/o di mano delle oligarchie bancarie e di governo. Forse un filo analitico troppo esile per allineare gli sconvolgimenti del mondo dal 1971 in poi: dal Vietnam alla crisi dell’impero americano, dalle scelte di Nixon sugli obblighi di Bretton Woods all’«arricchitevi tutti» di Deng, caduta del Muro e dell’URSS, nascita dell’UE, crisi del debito, crisi finanziaria ecc. Magari la storia del nostro neoliberalismo è anche più complessa e antica. Basti pensare alle proposte che già nel 1938 una imponente schiera di studiosi dibatteva a Parigi con il «colloquio Walter Lippman». O magari alla successiva iniziativa di Mont Pelerin e ai fasti dell’ordoliberalismo e dell’economia sociale di mercato tedesca.

 

«Una scelta fraudolenta»?

Se vedute così vaste scontano una eccessiva semplificazione, converrà magari esaminare il crivello con cui un costituzionalista acutissimo, quale Giuseppe Gaurino, ha sottoposto trattati e regolamenti ad un esame serrato e fortunato, condiviso poi da tanti e divenuto, nel novembre 2013 su giornali come “Il Foglio”, una vera e propria campagna: «Un golpe chiamato euro». La sua tesi -articolata, diffusa in più scritti ma soprattutto nel volume «Salvare l’Europa, salvare l’euro», Passigli 2013 -ha un cuore preciso. A danno dell’Europa si è perpetrato un «colpo di Stato», precisando che questa espressione viene usata «quando si modifica in aspetti fondamentali il sistema costituzionale di uno stato con violazione delle norme costituzionali vigenti». Il bisturi affonda sicuro: «un oscuro colpo di stato ... realizzato non con la forza ma con fraudolenta astuzia: attraverso la fraudolenta adozione da parte del Consiglio europeo di un regolamento, il 1466 del 7 luglio 1997, che ha sottratto agli stati la funzione esclusiva da esercitarsi singolarmente e come gruppo di promuovere lo sviluppo dell’UE e della zona con le proprie politiche economiche». In generale, egli osserva che «all’obiettivo dello sviluppo è sostituito un risultato consistente nella parità del bilancio a medio termine», un mantra divenuto poi ossessivo con decisioni e regolamenti quali il fiscal compact o la règle d’or del «pareggio di bilancio»: vere e proprie tagliole anche per i margini di movimento permessi dai trattati, per la stessa soglia di deficit pubblico al 3% del PIL. Ad aggiungere suspence vi è poi l’affermazione che «le persone fisiche, alle quali far risalire l’attuazione del golpe e dei mezzi fraudolenti per realizzarlo sono ignote. Non si conosce né chi ne sia stato l’ideatore, né il nome dell’estensore materiale del testo del regolamento». In realtà, in altra sede (risposta all’on. Morganti del 22-2-2013), il professor Guarino ha ben rappresentato la lunga catena decisionale allora intervenuta, tipica della procedura cosiddetta di codecisione: «Il lungo percorso della procedura (vi avevano partecipato la Commissione, il Consiglio, il Parlamento europeo, di nuovo il Consiglio) si era protratto per circa otto mesi». La precisazione chiarisce molto. Il regolamento in questione in realtà attuava una risoluzione adottata dal Consiglio europeo pochi giorni prima, ovvero il 16 e 17 giugno 1997. Non un Consiglio qualsiasi. Riunito ad Amsterdam aveva varato la revisione di Maastricht nota come Trattati di Amsterdam, accompagnata dalla risoluzione relativa al cosiddetto «Patto di stabilità e di crescita». Una decisione oscura e fraudolenta? Se ne discute per iniziativa dei tedeschi da oltre due anni. Kohl e Waigel, il ministro delle Finanze, avevano fatto notare che a Maastricht erano nate le regole per far nascere l’euro e definire i paesi rispettosi dei parametri su debito, deficit ecc. degni di partecipare all’impresa. Ma, partito l’euro e definiti i partecipanti, quale linea si sarebbe seguita? Si sarebbe tornati al lassismo di bilancio? Di qui il bisogno di un patto per sorvegliare e coordinare le politiche economiche.

La proposta è sul tavolo in accese discussioni da due anni. In Francia è al centro della campagna elettorale vinta dai socialisti. Jospin prova subito a proporre al Partito del socialismo europeo, riunito a Malmö il 5-7 giugno di farsi protagonista al Consiglio di Amsterdam, previsto per la settimana successiva, di una moratoria sul patto di stabilità. E’ bene ricordare che in quella primavera sinistra e centro-sinistra hanno conquistato 12 paesi dei 15 allora membri dell’UE. Ma il PSE con mille distinguo lascia soli i socialisti francesi (paradossale risultato della prima ed unica volta in cui un partito politico europeo si è riunito a congresso attorno ad un tema specifico e stringente di vita dell’UE: altro che atto oscuro e fraudolento). Jospin conquisterà nelle conclusioni di Amsterdam che la risoluzione, riscritta come «patto di stabilità e crescita» e di fatto composta di divieti imperativi, sia accompagnata da un’altra risoluzione su «occupazione, competitività e crescita», piena sola di ottativi e auspici. Di lì a poco anche Schröder arricchirà il palmares socialdemocratico europeo. Come sia andata a finire con le riforme del Welfare tedesco in omaggio alla stabilità è scritto nel DNA di Angela Merkel e della nuova Grosse Koalition.

Perché etichettare con la sigla di «colpo di Stato» un processo simile, concluso poi da ratifiche puntuali dei trattati, con risoluzioni e protocolli allegati, ad opera di tutti i parlamenti (nel caso specifico, Amsterdam sarà ratificato in Italia anche dal PRC in genere attestato sul diniego a trattati e costituzioni europee)? Vale la pena di notare nel merito che la procedura del patto di stabilità è di fatto attuativa degli articoli dei Trattati relativi al coordinamento delle politiche economiche. Insomma, un primo passo per delineare una politica economica comune, una tegola di quel tetto politico che ancora manca all’UE in forme compiutamente democratiche. Sicuramente non piace l’ intonazione ancor più rigorista delle prescrizioni sul limite del deficit al 3%, ma su questo punto ha avuto facilmente partita vinta Barroso nella sua risposta a Guarino quando ha evidenziato che si tratta di una garanzia preventiva rispetto al limite del 3% (e sicuramente pensava alla decisione informale di Germania e Francia del 2005, entrambe colte in fallo sui criteri di stabilità, che sospesero temporaneamente validità e sanzioni del «patto» con una discrezionalità ad altri negata). Schierarsi contro l’austerità è sacrosanto. Che lo si faccia in controtendenza rispetto al bisogno di conquistare una reale sovranità condivisa e sovranazionale non porta in alcun luogo.

 

Un vizio d’ origine

Più in generale, se il punto reale in discussione riguarda il fatto che si sarebbe «sottratta agli stati la funzione esclusiva da esercitarsi singolarmente e come gruppo di promuovere lo sviluppo dell’UE e della zona con le proprie politiche economiche», bisogna allora convenire che non si tratta di un fraudolento trabocchetto o incidente di percorso del 1997. Questo vulnus è congenito, istitutivo dell’UE. Unica al mondo su scala sovranazionale, ha scelto il comandamento esclusivo di vincolarsi -come è scritto nei «principi» di Maastricht -«ad una politica economica condotta conformemente al principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza» e ad «una politica monetaria e di cambio ... con l’obiettivo principale di mantenere la stabilità dei prezzi». Lungo questo dettato i trattati europei – qui ancora unici al mondo -da allora fanno esplicita proibizione di tutta una serie di strumenti di politica economica – facilitazioni creditizie o accesso privilegiato al credito per qualsiasi soggetto pubblico ecc. – fondativi non del lassismo di stato, ma di quell’ embedded liberalism, il liberalismo regolato di ispirazione keynesiana, colonna portante dei Trente Glorieuses, l’età aurea dello sviluppo occidentale. Come coesistono questi divieti – da Maastricht in poi riproposti in ogni carta e per ogni dove – e i principi del costituzionalismo antifascista, propri di fatto di ogni costituzione europea e limpidamente squadernati dall’art. 3 della nostra Costituzione repubblicana: «la Repubblica rimuove gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della vita umana»? Come si fa a «rimuovere», quando il nuovo costituente europeo impone di usare solo e soltanto i mezzi e le logiche del mercato? Di un mercato che, con i suoi imperativi, in genere produce gli «ostacoli di ordine economico e sociale» in questione?

I risultati di questo dualismo costituzionale – risolto il più delle volte e per principio a favore della regolazione sovranazionale, come rivela anche la sentenza ultima di Karlsruhe – sono gli acidi ovunque corrosivi di welfare e democrazia, l’ottusità di una austerità che punta a ridurre i numeratori dei rapporti relativi a deficit e debito con politiche volte invece a schiacciare i denominatori. Il «patto di stabilità» e i suoi derivati – six plus, fiscal compact, pareggio di bilancio – non sono un parto di stupidità, come già disse Prodi, né il colpo di Stato (o di sonno) del dibattito odierno. Sono figli legittimi – aspidi allevati in seno -di una Unione che funzionalisticamente ha provato a fare della moneta e dei suoi imperativi neoliberali il motore immobile di una «integrazione sempre più stretta» Quei serpenti, nutriti dall’eurocrazia con le sue regole, avvelenano oggi l’Europa col loro morso e un livoroso antieuropeismo di massa. Da quella moneta così concepita è partito un immenso processo decostituente che, nello smontaggio dello Stato sociale, stravolge le democrazie europee. In nessun luogo più limpidamente che in Europa la postdemocrazia si rivela portato non di un semplice assalto delle multinazionali alla politica e alla democrazia, ma nuova, oligarchica regolazione della società, decostruzione elitaria della modernità a più livelli, negli equilibri segnati da nuove abissali diseguaglianze. Il neoliberismo, ancor più rispetto al passato, non ha a suo tratto distintivo il rifiuto dello Stato e della politica, ma la loro domesticazione a elemento di regolazione e ottimizzazione del mercato, di ulteriore mercificazione della vita. Perciò, soprattutto in Europa, non basta solo un cambio di politica economica (che pur permette di respirare) dal momento che quest’ultima significa anche istituzioni, regolazioni sovranazionali ordinate giuridicamente in vincoli mutualistici, ma pur sempre soggetti a diseguaglianze strutturali. Non c’è Palazzo di Inverno da conquistare né una unica stanza dei bottoni. Altro che casematte di gramsciana memoria. Nella nostra Europa l’azione più che mai si afferma per piani multipli e interconnessi. Per praticare e riscrivere le regole del gioco la sinistra non può attestarsi su letture crolliste e strumentali del politico – i comitati d’affari di Bruxelles e Strasburgo ecc. – o su consolatorie visioni della moltitudine, naturalmente disposta a rete nell’Unione, portatrice naturale con i suoi sussulti di nuove regolazioni del comune.

Il mondo e l’Europa riplasmati in quasi mezzo secolo dal neoliberismo sono ad una impasse che produce ormai mostri. La sinistra, i soggetti sopravvissuti alla rottura del 1989 o nati con essa non sono riusciti finora a prendere nemmeno le misure – soprattutto in Europa -di questa mutazione, Di qui spiazzamento e marginalità. Riconquisteranno un regolo utile solo liberandosi – e per davvero -dalla giacobina tentazione di scorciatoie e capri espiatori, balsamo d’ogni impotenza. Più che mai ne va della propria salute e sopravvivenza.

Isidoro Davide Mortellaro