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Il referendum greco ridà voce ai popoli

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pubblicato su «il Manifesto» del 27-9-2011 

Ben scavato, vecchia talpa. A bomba scoppia l'annuncio di Papandreou. Nel 2012 i greci andranno a referendum sul piano di aiuti dell'Unione europea. Nella culla della democrazia, della civiltà occidentale, dovranno decidere - una testa, un voto - se rinnovare il rito sacrificale di Procuste nel morso della nuova governance europea. Insomma, se e come divenire europei rimodellando politica, finanze e welfare nel corsetto del patto di stabilità rafforzato, secondo il diktat di Bce, Commissione e direttorio franco-europeo.

Scandalizzato non si dà pace Sarkozy, presidente di quei francesi che per referendum già due volte hanno atterrato l'Europa: ai tempi dello Sme e dell'Ue uscita da Maastricht gravida del nuovo euro; e dopo la Convenzione presieduta da Giscard d'Estaing, con tanto di Costituzione e Carta dei diritti. Alti lamenti leva la Merkel, cancelliera di quella Germania che, su rigidissimo mandato della Corte di Karlsruhe, pretende che ogni decisione europea conquisti il crisma della democraticità solo passando per il vaglio preventivo del Bundestag o dei suoi organi. Indignati strepitano traders e banchieri abituati ad esercitare quel «plebiscito permanente dei mercati» su cui, per un ventennio, ci hanno ammonito Hans Tietmeyer, Guido Carli o Tommaso Padoa-Schioppa. Temono di perdere il monopolio con cui ogni giorno dagli spalti di borse o agenzie di rating fanno il tiro a segno su governi e democrazie. Terrorizzati infine stanno i reggitori d'ogni landa europea, in particolare quanti a latitudini latine avvertono sempre più nitido il sordo ammonimento del coro greco: de te fabula narratur. 

Certo, nel mirino è l'annuncio avventuroso. Destinato magari a causare il suicidio politico di Papandreou. Si poteva far prima e meglio. Evitare che tutto degenerasse. A far danno però non è la chiarezza della decisione, quanto l'asimmetria incomponibile cui si è giunti tra vocio del mercato e mutismo della democrazia. Folle è stato pensare - come scritto dal Fondo Monetario Internazionale in Lifting Euro Area Growth del 22-11-2010 - che «le pressioni del mercato possono riuscire là dove hanno fallito altri approcci». Che venga del bene dal torcere un braccio. 

Il referendum riconsegna decisioni e processi all'unica possibile misura: alla politica. Solo così critici e tifosi dell'euro e dei suoi comandamenti saranno costretti a dare il meglio di sè, a magnificare vantaggi o baratri, prospettare alternative concrete. Intanto, a discutere da europei, dismettendo virtù e vizi più o meno congeniti, pigrizie e svolazzi. Solo così l'Europa potrà smettere d'esser solo matrigna. Dovrà industriarsi a riconoscere dubbi e paure di figli che, se perduti, la trascineranno in mutua rovina. Dall'alto e dal basso bisognerà affinare la propria ragionevolezza su ragioni e speranze altrui. 

È un momento di verità anche per noi italiani, costituzionalmente impediti a dir la nostra per referendum su trattati internazionali, su un'Europa divenuta chance o morso quotidiani della nostra vita. Su questo crinale potremmo stanare una politica adusa nella seconda repubblica al gioco delle tre carte sul tavolo europeo, a velarsi più che altrove dietro lo schermo del vincolo esterno. Stanare magari i tanti, troppi Tremonti: pronti, sotto elezioni, ad addossare al «mercatismo» - maschera orripilante del socialismo che fu - l'invenzione dell'Europa e ad impugnarla magari, in tempi di stretta, come principio primo di nuove, ragionieristiche Costituzioni. 

Il referendum greco, dopo le piazze del 15 ottobre, aiuta a ridare ai più quella parola sequestrata per i pochi da euro, mercati e finanze. Non pareggia i conti, prova solo a riassestare la bilancia. Per tornare a reggere l'urto di quelle potenze bisognerà salire in tanti sull'altro piatto.