Introduzione. Sguardi da un altro mondo

Saggi in volume
Crescere sotto il fascismo in una piccola città dell'Italia meridionale
Comune di Giovinazzo
Giovinazzo
2012

Scritto da Isidoro Davide Mortellaro

Isidoro Davide Mortellaro

Introduzione. Sguardi da un altro mondo

al volume di

Nicholas La Bianca

Crescere sotto il fascismo in una piccola città dell'Italia meridionale

pubblicato a cura del Comune di Giovinazzo, 2012

 

Bisogna esser grati a Nicola La Bianca per questo dono.  Grazie all'Amministrazione Comunale oggi possiamo  leggere, in italiano, i ricordi di un nostro concittadino, il racconto della sua vita a Giovinazzo, durante il fascismo e la II guerra mondiale, fino alla decisione di emigrare negli USA, sulle orme del padre e dei tanti, troppi concittadini, amici e 'paesani', che lo avevano preceduto in quella scelta e per quelle vie. Il racconto di una vita perciò nel secolo scorso, della giovinezza in realtà, che diventa e si trasforma in storia del paese, della sua vita quotidiana nel ventennio fascista e alla sua fine, tra i tormenti e la tormenta della guerra.

Uno sguardo inconsueto, originalissimo, anima e guida queste pagine. E' lo sguardo di Nick,  il docente e nonno che prova a narrare e spiegare agli Americani e alle nipoti le sue giornate quand'era Colin,  in un altro mondo e un'altra età. Una doppia traduzione ci avvolge in questi fogli: quella dall'inglese e quella da un'altra epoca, un' altra vita. Si traduce tra culture e idiomi diversi e tra generazioni, spesso straniere l'una per l'altra.

A dare la misura del tempo e delle distanze che separano le due vite, i due mondi, una considerazione immediata, di cui il lettore si accorgerà ben presto. A dominare la veduta, gli spazi narrati e fotografati in queste righe è la pietra, la sua durezza e onnipresenza, la pietra di cui era fatta la Giovinazzo ereditata negli anni Trenta e che ancora oggi colpisce - e non solo nel centro antico - lo straniero, il visitatore, il turista che vi si accosta. E' un elemento comune ai racconti dei tanti emigranti che dal Mediterraneo sono approdati negli States: un dato, che fa la differenza tra la casa delle radici e quella degli approdi, tirata su velocemente, in un lampo, attorno al balloon frame, il guscio, quella armatura di travi che scheletra e sostiene la casa in legno tipica degli americani; una differenza abissale anche rispetto alle torri in acciaio e cristallo che dipingono e grattano i cieli delle loro metropoli.

E' una pietra, quella di Colin, immobile, ereditata dagli avi e messa lì per durare. Di essa e su di essa sono costruite cose e civiltà che mutano e deperiscono lentamente, a fatica e in tempi lunghissimi. Altre vedute e altri luoghi rispetto a quelli trovati da Nick oltre Atlantico, nel mondo schizzato fuori da rivoluzioni appena passate, poco più di due secoli. Un altro mondo, un'altra civiltà soprattutto, che non sa star ferma, che si conosce e si invera solo nella corsa, in quel mutamento ininterrotto e rapidissimo di innovazioni e rivoluzioni che da qualche tempo ha preso a mutare e sconvolgere anche la nostra vita e quella dei nostri figli e a renderla altra e straniera allo sguardo non solo dei nostri genitori, ma persino dei più vecchi di noi.

Memorabili le prime pagine con cui Nicola La Bianca inizia a portarci per mano nella Giovinazzo degli anni Trenta e guida il nostro sguardo lungo la quinta di Palazzi e la Chiesa e l'Orfanotrofio, e l'Istituto, che cingono e fanno Piazza Vittorio Emanuele. Scorrono pietre e con esse palazzi e caffè e circoli, ritratti poi nelle foto che punteggiano  e illuminano il racconto. Lungo il triangolo accentrato sulla fontana e sui suoi marciapiedi scorrono i Caffè, con i loro tavolini, le bevande tipiche e le Paste, i riti quotidiani e domenicali. Troviamo poi il Barbiere, dove però si curavano e cavavano anche denti, e il Tabacchino, luogo misterioso da spiegare ieri agli Americani ma, tra poco, anche ai più giovani, abituati magari a «Gratta e Vinci» e «Superenalotto» elettronico, ma da tempo estranei a ciò che un tempo era genere di Monopolio statale. Lì, nel «Sale e Tabacchi», ci si muniva allora e continuiamo a munirci oggi dell'onnipresente "marca da bollo", icona estranea all'American Way of Life, ma lascito perdurante nella nostra vita di uno Stato duro a morire, anche nella nuova età digitale. Soprattutto nei suoi riti più inutili.

E' lungo i lati della piazza che il racconto inanella e rammenta poi i circoli, con le loro varie denominazioni e radici: dei Marinai, dei Contadini, dei Signori e degli Impiegati Statali, e poi ancora il Dopolavoro fascista e il Circolo goliardico. Denominazioni e ragioni sociali estranee al vorticoso e mutevolissimo melting pot statunitense, alla mescolanza di razze e lingue e colori che lì si ritrovano nella terra comune - My Country -  ma che qui rivelano una vita chiusa e immobile, fatta come quelle pietre, come quei palazzi, di appartenenze e cerchie sociali antiche, ereditate magari dall' età medievale e appena mutate o toccate dalla Grande Storia, dalla Prima Guerra Mondiale o dalla vicenda lunga dell'emigrazione. Ed ecco allora il Circolo dei Combattenti o quello dell'American Legion, presenza sorprendente in età di nazionalismo fascista, ma rivelatore del peso esercitato in città dall'emigrazione negli USA.

Dietro quelle sigle si coglie il metabolismo antico di una società ancora tutta giocata nel rapporto e nell'interscambio con la natura: mare e terra, e perciò marinai e contadini, con pochissima o abbastanza terra. E poi i pochi: i «Signori», quelli con molta terra e palazzi, magari lontani, a Bari o Napoli e di ritorno solo per brevi e temporanei soggiorni. Gerarchie naturali di una società immobile, ancora feudale nei suoi assetti di fondo e in cui solo l'emigrazione portava movimento di uomini - ovvero maschi - e di risorse, poi trasformate in investimento, nuova proprietà e in qualche caso finalmente benessere, rare volte in ricchezza. La guerra, la Seconda, si incaricherà poi di portare scompiglio e movimento e quasi nulla - anche nella vita di Nicola - sarà come prima. Ma ci vorrà tempo, bisognerà quasi arrivare ai nostri giorni perché quel mondo, il Medioevo annidato in quelle pietre e quelle gerarchie, inizi davvero a sparire.

Gran parte di quei circoli, magari mutati in qualche insegna, ora al neon, o appena spostati di isolato o palazzo, sta ancora lì. Ci ricordano radici, appartenenze e stratificazioni dure a morire. Ancora a chi ora qui scrive è toccato, poco più che bambino, di apprendere, appena arrivato a Giovinazzo nel gennaio del 1961, le regole dello struscio domenicale: dal lato a settentrione borghesi e studenti; a Mezzogiorno, verso Chiesa e Istituto, il popolo minuto e di più rada frequentazione scolastica. Il tutto mischiato solo nella confusione della grande festa patronale. Ci son voluti  decenni per aver ragione di queste divisioni antiche, grazie soprattutto alla grande livellazione prodotta dall'automobile. Le quattro ruote hanno allargato e sconvolto gli orizzonti, hanno vinto la piazza e permesso di celebrare altrove e in forme affatto nuove serate e riti domenicali. Hanno liberato soprattutto tanto tempo libero: vera cifra o condanna, secondo i punti di vista, dei nostri giorni.

Altra la frequentazione del tempo e degli spazi narrata da Nicola. Allora c'era spazio solo per i carretti o il Breck, qualche Balilla o Topolino. S'andava a piedi, in realtà. Passi lenti, esitanti, azzardati in cerchie ristrette, in giornate di bambino e poi ragazzo - figlio di padre emigrato - sotto l'occhio e l'amorevolissimo, ma quanto stretto, controllo di mamma Maria. Giornate brevi, a malapena allungate in serate e notti appena rischiarate dalla luce artificiale. Più spesso dal braciere che rosseggiava e a malapena riscaldava - poco e vicino - circoli incantati nell'ascolto di ciarle e racconti. La rada magia dell'elettricità era utilizzata, quando possibile, con straordinaria parsimonia. Più in là finirà negata anche dalle prescrizioni  belliche, dal timore di divenire bersaglio. Un altro mondo davvero, rispetto alla bulimica e consumistica aggressione della notte perpetrata dalla  luce e dalla giornata utile del giovane di XXI secolo. Ci vorrà tempo perché la lenta e guidata esplorazione del paese da parte di Colin si appropri di altri spazi, si allunghi in campagna, nei fondi di famiglia, o al mare. Dovrà attendere il ginnasio e le fine della guerra per avventurarsi fuori di Giovinazzo: magari, alle Grotte di Castellana o al Santuario di San Michele o,  ancora, alla favolosa Reggia di Caserta. Memorabile il viaggio a Napoli e al Porto ad abbracciare un padre quasi sconosciuto al ritorno dagli States.

 Scorrono lente le giornate raccontate in queste pagine. Punteggiate da abitudini e riti antichi, spesso sopravvissuti o poco trasformati: la pasta al forno domenicale continuiamo a mangiarla, cucinata però non più al forno di quartiere sotto casa. Anguille e baccalà, torrone e mustaccioli, il presepe, magari mischiato all'Albero, sottolineano ancora Paqua e Natale. Scomparsi fortunatamente sono l'olio di fegato di merluzzo e, soprattutto, quello di ricino, così come anche lo scaldaletto, il rito dello spidocchiamento sul marciapiede di fronte al basso o la fasciatura del neonato, piccola mummia del tempo che fu.  Le bande dei ragazzi di quartiere non animano più le strade, oggi dominio assoluto delle auto. Resistono processioni e fiera d'agosto: animata ora dai mille colori portati dagli immigrati. E così anche, per tante famiglie, la salsa di pomodoro, la raccolta delle olive o la dote delle ragazze, magari un po' più consumistica.

Altre le abitudini, altri i consumi nella famiglia di Nicola. Lì persino le descrizioni sono parche, minimali. L'abbigliamento è sempre essenziale, appena accennato: magari solo per citare la promozione al «pantalone lungo» dell'adolescenza, quando l'accenno di peluria sulla gamba costringeva o permetteva di abbandonare i calzoncini dell'infanzia. Lo sguardo non indugia quasi sui corpi, memore di proibizioni antiche e profonde, quasi timoroso di violare la pudicizia imposta per precetto da un sistema di controllo continuo, che dalla famiglia al padre confessore, al maestro e poi al preside scorre continuo ed ossessivo. Pochi i libri. Epocale l'ingresso della scrivania per il fratello grande, il futuro avvocato. E così quello del grammofono, forse il primo del paese, portato dal padre: Made in USA.

La disciplina, il controllo innanzitutto familiare e poi sociale sono occasione per sobri ed essenziali richiami al regime, al fascismo, ripensato soprattutto nelle sue manifestazioni più quotidiane, ultima espressione di una soggezione antica, di una storia da sempre matrigna soprattutto per il popolo meridionale, per quella gente che, come Nicola osserva, «era stata sotto ogni sorta di governo ed era abituata ad obbedire senza discutere». Del regime vero e proprio Labianca ci parla poco: radi i cenni alle adunate, all'irregimentazione scolastica, all'olio di ricino, alla divisa da Balilla o al velocissimo passaggio per Giovinazzo, quasi meteora, del «Duce». Più solido e consistente il ricordo del «Fascio» stampigliato su edifici pubblici, fontane e tombini di acqua e fogna, su tutte le manifestazioni della modernizzazione contraddittoriamente perseguita da un regime di massa: tutti simboli non a caso sopravvissuti al ventennio e durati fino a poco tempo fa. Diversi si fanno toni e insistenze di Colin quando il racconto si inoltra nella tragedia della guerra e il baratro in cui il regime aveva precipitato il paese diviene odissea quotidiana di un popolo, lotta per la sopravvivenza.  Indelebile il ricordo della mamma «durante gli anni della guerra», quando «era solita darmi parte del suo pane, dicendo che era sazia».

A guardar bene, però, il tratto più appariscente e consistente del regime e delle sue forme di controllo è in una particolarità del racconto di Labianca, in una sua clamorosa omissione. Tanto è preciso, meticoloso nel narrarci di Giovinazzo - nelle sue chiese e piazze, nei suoi dintorni fino al Cimitero e al Convento dei Frati cappuccini, nelle sue campagne e spiagge, dal Ponte alla Colonia marina, fino a Lido dei Monaci e alla Trincea - quanto è lacunoso in un punto decisivo. In queste pagine, in nessuna delle sue righe, vi è una qualche menzione per la «Ferriera Pugliese», quella che poi diverrà nell'Italia repubblicana le «Acciaierie e Ferriere Pugliesi - AFP». Il termine acciaio ricorre in questo libro, ma solo per parlare di un temperino o di come erano fatti i tubi del lungomare o le fontane del paese, o magari per lamentare in particolare la manzanza di industria nel Mezzogiorno. E così per il termine ferro, ricordato solo per descrivere le rotelle dei monopattini, qualche recinzione o, più diffusamente, per accennare alla ferrovia. Eppure quella Ferriera era una particolarità incredibile in un comune meridionale: preesistente già alla nascita di Colin, cresce e si ingrandisce fino a raggiungere il massimo dei 1200 dipendenti sotto l'occupazione degli Inglesi e nell'epoca successiva. Quella fabbrica - l'impresa privata più grande del Mezzogiorno per la metallurgia - farà di Giovinazzo e della sua storia un unicum nella storia meridionale. Ma il nostro storico non la menziona, se non di sfuggita, chiamandola ad un certo punto «piccola fonderia». Nei suoi racconti dell'adolescenza ci gira molto intorno: va spesso, soprattutto da grandicello, nei campi di famiglia, a Tricarico, dalle parti della Misericordia, la chiesetta posta lungo l'attuale strada per Bitonto. Si ricorda anche del Ponte e della Colonia Marina, posti dall'altro lato della Ferriera, a mare. Ma della fabbrica e dei suoi addetti, delle sue produzioni non parla quasi mai, tranne in un punto in cui accenna alla trasformazione di «pezzi di metallo» in «pale e picconi».

Non si tratta di un caso, né di una manchevolezza del racconto. In questo buco vi è la clamorosa conferma piuttosto del controllo rigido e dell'immobilismo prodotto dal regime, dalle sue forme di governo e irregimentazione sociale. Era lì il risultato più sottile e duraturo, il frutto più perverso del fascismo. Il corporativismo era qualcosa di più di una semplice formula organizzativa: unito alla propaganda e al rigido indottrinamento scolastico ti plasmava e instradava in forme durature. Nascevi e ti muovevi solo nel tuo proprio ambiente. Mancava ogni forma di libertà e dialettica sociale per cui ti poteva capitare di interessarti delle vicende e della vita altrui, di 'impicciarti' nei fatti di un altro. Nascevi contadino e lì rimanevi, con i tuoi, lontano dall'operaio o dal marinaio. Non v'era interscambio, confronto. Da altre testimonianze oggi sappiamo che soprattutto alla fine degli anni Trenta vi fu a Giovinazzo, in fabbrica,  qualche episodio di ribellione, quasi di sciopero: paga e condizioni di lavoro terribili spingevano alla fine a sollevare, sia pure per poco, la testa[1]. Subito dopo la guerra, durante l'adolescenza del nostro autore, Giovinazzo e le ferriere conosceranno lotte sociali durissime, che bloccheranno il paese per giorni e giorni. Ma nelle pagine di questo racconto non ve ne è traccia. Come non ve ne è neppure nel racconto dei bombardamenti bellici - la fabbrica era un possibile bersaglio - o, più in generale, per la vita e l'attività dei pescatori.

L'occhio di Colin è fisso sul suo ambiente: la famiglia tipica di piccola proprietà contadina guadagnata con la scelta e i proventi dell'emigrazione. Lo sguardo e le menzioni sono solo per i contadini, per quanta terra essi hanno e per come questo dato produce e segmenta, colloca nella scala sociale, divide nel modo di soddisfare i bisogni, di godere o subire la vita. Con i suoi stenti, le lotte quotidiane terribili, gli interrogativi angosciosi: memorabili le pagine in cui lentamente ci fa vivere la scelta dolorosa, maturata lentamente nella cerchia familiare, di intraprendere, sia pure in forme diverse, il percorso già compiuto varie volte dal padre negli USA.

Anche qui una lezione ed un ponte attualissimi tra due mondi: l'emigrazione di ieri e quella di oggi. Soprattutto l'immigrazione di oggi, quella che invade e rimescola le nostre terre ritornate di nuovo inospitali e matrigne per tanti nostri giovani.

Difficoltà e cimenti nuovi che la testimonianza, la lingua, lo sguardo raccolti in queste pagine ci aiutano ad affrontare con maggiore consapevolezza per il cammino fin qui percorso dai padri e dai figli e dai loro nipoti, ormai. Essi ci fanno scoprire tesori preziosissimi raccolti nelle nostre pietre e soprattutto in una memoria bisognosa d'essere rinfrescata, rivisitata, rivissuta. Diversamente, cesserebbe di esser legame tra generazioni, ponte per il futuro e tra i mondi che sempre più si intrecciano nei nostri giorni e in questo nuovo secolo.


[1] A. Pugliese, Le ferriere tra gli ulivi. Storia delle Acciaierie e Ferriere Pugliesi di Giovinazzo, Terlizzi, Centro Stampa Litografica 1998, pp. 32-35.