Le ferriere tra gli ulivi

Storia delle Acciaierie e ferriere pugliesi di Giovinazzo

Saggi in volume
Isidoro Davide Mortellaro
22,00 €
9788867740895
2014

Scritto da Isidoro Davide Mortellaro

Prefazione a

 Antonella Pugliese

LE FERRIERE TRA GLI ULIVI

Storia delle Acciaierie e ferriere di Giovinazzo, Bruno Mondadori editore, Milano 2014

 

Complice la ruggine, una sorta di buco nero sembra essersi installato a Giovinazzo. Ha finora inghiottito lavoro, e non solo del paese, ma di un’intero circondario. Basti guardare alle trasformazioni di tutta l’area industriale di Bari, a quelli che oggi sono i caratteri dello sviluppo economico e sociale in Puglia e nel Mezzogiorno tutto. Ma assieme alla ‘bella’ crescita di un tempo, quella voragine, quel tarlo pare aver dissolto, corroso memoria e identità.

Fortunatamente, in un’altra età quasi - quando già i primi segni di crisi si manifestavano - si volle eleggere ad argomento di studio, di una tesi di laurea, la storia delle Acciaierie e Ferriere Pugliesi e delle organizzazioni sociali e politiche che a Giovinazzo, nella e attorno alla fabbrica, nacquero e si svilupparono. Quel lavoro, rieditato oggi, si rivela prezioso. Torna a riannodare storia, a far ridiventare figli, fratelli e padri cari, preziosi a noi e al paese, alla comunità. Torna a dare volto e identità a migliaia di persone scomparse, magari oggi il più delle volte ancor chine al lavoro o al servizio della famiglia, della società, ma disperse nei mille rivoli di una terra, di un paese sempre più disossati, rammolliti quasi dal cedimento improvviso della spina dorsale, delle strutture portanti di un tempo .

La via classica di ogni comunità nel riconoscere il proprio debito con i suoi figli più illustri e noti è quello di dedicare, intestare strade o sale o piazze. E quel tempo è venuto anche per le AFP, o almeno per chi, come Tommaso Sicolo, dai suoi capannoni è partito per diventare deputato della Repubblica, per inverare fino in fondo quel precetto costituzionale che vuole la Repubblica italiana fondata sul lavoro, sul protagonismo dei lavoratori e delle loro organizzazioni sociali e politiche. Ma quella è la via scelta per ricordare le figure illustri, chi ha lasciato orme e ricordi distinti, precisi: la testimonianza autobiografica di Tommaso Sicolo, qui posta in appendice, ne è prova ulteriore. Altra è la questione della storia, della memoria collettiva, di una comunità intera che sa riconoscersi in quelli che sono stati i suoi modi d’essere, di lavorare, di prender voce, di ritagliarsi anche un piccolo pezzo della cronaca più generale, quella che si disegna oltre le mura. Senza questa capacità di ricordare, di riappropriarsi di se stessa, non c’è possibilità di reinventarsi, di assegnarsi nuove mete.

Ed è questo potere oggi a rischio, snervato, assopito da una dipendenza crescente del paese tutto dai grandi centri della spesa pubblica, da un abbraccio con il capoluogo che progressivamente riduce a quartiere dormitorio o di turistiche e notturne scorribande e frivolezze. Assieme al rischio di annegare immemori in un indistinto presente, c’è però anche il pericolo di finire inghiottiti da una storia minore, una storia con la ‘s’ minuscola, che non sa essere memoria della comunità, costruzione di una soggettività più solida. Ed è quello che può accadere se ci si accoda ai tanti che da tempo, a proposito di vicende ben più grandi, hanno preso ad intonare il de profundis per il mondo del lavoro e per le idee che, partite dal suo seno, hanno segnato un secolo intero.

Sono in molti oggi a proclamare o a sussurrare che è stato centrale, sì importante, il ruolo della classe operaia in Italia e nel mondo, ma che ormai si tratta di storia appunto, di un’altra età. Bisognerebbe e al più presto provvedere questi soggetti di un Pantheon, più o meno piccolo, in cui eternarne magari il ricordo e da cui trarre ogni tanto, chissà, qualche buon proponimento. L’importante è però provvedere a illimpidire la scena, liberare il presente d’una presenza ingombrante. I milioni di Sicolo, le migliaia di AFP scomparse appartengono ormai ad un’altra epoca. Nella loro vicenda si misura il decorso di una grande illusione, si compone il ciclo di un soggetto storico. Sembrava destinato ad unificare il mondo. Pareva avere dalla sua il progresso, la storia. E invece come soggetto sociale è finito disperso nei flussi della produzione globalizzata, quando non assopito nei canali dell’assistenzialismo, o magari inseguito da qualche maledizione di stampo ambientalista, per le corresponsabilità nei tanti disastri e scempi ambientali: poco importa se la patente dell’inquinatore non sa distinguere tra chi rompeva e chi si è rotto la schiena, tra chi qualche volta ha pagato sborsando qualche indennizzo e chi invece lo ha fatto in prima persona, nelle mille eclatanti morti bianche o nelle più silenziose e spesso private rese a potenze che, solo dopo, tutti noi abbiamo imparato a chiamare asbesto, vinile, mercurio. Nel Mezzogiorno, poi, questa storia non ha fatto nemmeno a tempo ad impiantarsi - nei poli di sviluppo, con la giovane classe operaia delle nostre aree industriali, delle cattedrali nel deserto - che subito è stata come spiantata, assieme alla speranza o all’illusione che fosse finalmente venuto il momento di portare a soluzione la questione meridionale, di colmare le tare e i vuoti di una unificazione nazionale tardiva e zoppicante.

Sono in molti a dire che quell’epoca dello sviluppo industriale è finita e che assieme ad essa, con l’avvento della comunicazione interattiva, con la smaterializzazione del post-industriale, è tramontato il tempo di quei soggetti sociali coesi, forti, organizzati.

Questa piccola storia delle AFP e delle lotte sociali e sindacali che, per alcuni anni, animarono il paese tutto e il circondario è invece utile, perché aiuta a difendersi dalla pigra resa a queste lusinghe, a queste ricostruzioni a soggetto che malamente ricoprono vocazioni ideologiche e strumentali. Intanto, ci provvede di una storia più mossa, meno lineare. Giovinazzo, per tanti versi, è stata un’eccezione nella vicenda del Mezzogiorno nel secondo dopoguerra. Mentre per tanta parte delle regioni meridionali, le classi popolari celebravano il loro incontro con la politica moderna, con i partiti di massa, attraverso moti di ribellione e rinnovamento che scuotevano i vecchi assetti dell’agricoltura meridionale, che mutavano il volto delle campagne, questo paese, assieme a poche altre realtà meridionali, toccava questa tappa della costruzione dello Stato democratico inaugurando sedi e forme del moderno conflitto industriale, inventando un sindacato, sezioni di partito che facevano le loro prove, si tempravano rispetto a meccanismi e imperativi modernissimi: la fabbrica, i tempi della produzione industriale, il conflitto sindacale più generale, la partecipazione alla battaglia politica nazionale, il sentirsi parte di un mondo. E in quel conflitto si contribuiva ad incivilire - come ben si vedrà dai fatti qui raccontati - un padronato retrivo, poco disposto, niente affatto incline a riconoscere cittadinanza, soggettività alla controparte. Intanto si cresceva insieme, ci si rafforzava, si costruiva un altro modo di far politica, un altro rapporto tra società e istituzioni.

Ed è qui l’insegnamento più duraturo, quello da cui ancor oggi come comunità possiamo trarre lievito. Può considerare chiusa una storia solo chi crede di poter trattare il mondo del lavoro come un aggregato sociologico, l’espressione di un momento o di un segmento della società e del suo metabolismo produttivo. Ancora una volta se ne avrebbe o se ne vorrebbe così consegnare una visione distorta e limitata, intanto incapace di cogliere quell’universo nella sua mutevolezza, ma soprattutto nei tratti permanenti che ancor oggi lo dispongono sul campo come soggetto politico, chiamato ad inverare diritti universali, a precipitarli dal cielo delle norme nelle effettività della vita materiale, in cittadinanza quotidiana. Nella nostra Costituzione il lavoro non è solo un aggregato sociale, non è solo un universo preciso su cui la nostra Repubblica ha voluto radicarsi. L’art. 3 della nostra Carta  dice che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Questa storia delle AFP ci racconta di come migliaia di nostri concittadini presero sul serio questo impegno e provarono a forzare limiti storici, culturali e politici, provarono veramente ad edificare lo Stato democratico, fatto e vissuto non solo da élites, ma dai più, dai tanti, da chi dal basso provava a darsi visione e contezza del mondo.

Per troppo tempo, anche con rimpianto, abbiamo guardato alle AFP ma solo come ad un grande aggregato economico, di reddito che faceva ricca e moderna una città. È venuto il momento - anche per riconsiderare o rilanciare una modernità oggi sfidata e messa in scacco pesantemente da barbarie non meno moderne, spesso di luccicante perversione - di ripensare la storia di questo universo operaio e sociale nel suo tratto più profondo e duraturo: come patrimonio civile, non localistico, dell’intera comunità, dimostrazione che la politica, la democrazia si inverano quando vengono strappate ai pochi e conquistate dai molti.

 

 

                                                                                               Isidoro Davide Mortellaro