Sulle rivolte arabe. Ripensando il 900

Saggi in volume
Maria Eleonora Guasconi
Declino europeo e rivolte mediterranee
9788834829943
Giappichelli editore
Torino
2012

Scritto da Isidoro Davide Mortellaro

Isidoro Davide Mortellaro*

Sulle rivolte arabe. Ripensando il 900

Urbino 26 ottobre 2011

 

I rivolgimenti che al tramonto del 2010 hanno cominciato a investire la vita e gli assetti del Mediterraneo meridionale hanno sicuramente sconvolto le nostre abituali coordinate geopolitiche.  Ve ne è larga traccia nelle discussioni con cui - intanto, a distanza di sicurezza - abbiamo provato a contornare natura e profondità dei mutamenti che investivano le varie realtà del mondo arabo. Il più delle volte siamo finiti come sospesi, indecisi, fondamentalmente impotenti, nel limbo di furiose, ma astratte e solitarie divagazioni. Strattonati, insomma, per opposte direzioni: ora vittime delle fascinazioni per una comunicazione onnipotente, nuovo motore di un mondo risplasmato dal soft-power[1]; ora critici fuori sincrono di un imperialismo di ritorno sulla scena del mondo.

Fatto sta che il Mediterraneo ha preso a ribollire su braci non più attizzate solo da ricchezza e potenza, dai motori primi della geopolitica novecentesca. Adesso per capire mappe e tempi delle rivolte che dalla Tunisia all'Egitto alla Libia stanno mutando il volto del Maghreb e scuotendo il Mashreq, c'è bisogno di una termodinamica affatto nuova, capace di penetrare nei fluidi, nelle interazioni complesse che in questo primo scorcio del XXI secolo si sono istituite tra un sistema, il mondo arabo, e l'ambiente, l'universo mondo, scatenando energie e masse di inusitata potenza. Per tracciare però i tratti di questa scienza nova è necessario penetrare nei caratteri costitutivi della nostra inedita condizione umana.

 

 

Tra informazione e comunicazione

 

Oggi più che mai il mondo unificato dalla comunicazione appare irreversibilmente mutato dal fatto che ognuno di noi, ancor più che per il recente passato, lo abita - come aveva lucidamente pronosticato Marshall McLuhan - avendo «come pelle l'intera umanità»[2]. Indagando però in  questa nuova forma della traspirazione umana, sbaglieremmo a presupporre ideologicamente che essa sia esercitata in condizioni di assoluta e sostanziale eguaglianza. Dobbiamo invece con realismo prendere atto che spadroneggiano processi e forme di profondissima asimmetria. Pesano diseguaglianze originarie di individui e classi, o depositate nei rapporti storici istituiti tra popoli e culture, o ancor più quelle abissali divaricazioni lasciate dal XX secolo in gravosa eredità al mondo sciolto dallo storica stretta del bipolarismo e riavviato per pagine inedite di una storia come mai inesausta e bulimica. Ricchezza e potenza scavano solchi profondissimi. Amplificano infine capacità e attitudini di oligarchie più o meno ristrette, di pochi ed eletti, a disporsi in ascolto, a captare lingue e messaggi del mondo, o all'incontrario a far giungere lontano e in profondità la propria voce, a imporla come fascinazione, farla divenire moda o sogno di vita e consumi non già solo opulenti, ma quotidiani e prosaici, tessere di un soft-power dilagante e invasivo.

Con ancor più decisione e fermezza dovremmo poi abbandonare ogni residua, ideologica illusione nelle virtù taumaturgiche della comunicazione, naturale veicolo di eguaglianza e affratellamento, laddove  dovessimo approfondire l'analisi e passare dall'esame delle condizioni storiche, in cui essa si cala e viene esercitata, alla disamina delle sue forme costitutive, delle sue modalità d'esercizio. In realtà dobbiamo sempre rammentare - come ci ricorda Dominique Wolton - che il sogno del villaggio globale si accompagna strutturalmente all'ammonimento, all'incubo della torre di Babele[3]. Informare non significa sempre comunicare: può accadere piuttosto che, a causa delle distanze abissali e delle radicali differenze che spesso esistono tra emissione e ricezione dei messaggi, il lancio di una informazione si tramuti in schiaffo sul volto dell'altro. Nel mondo che ci circonda, inoltre, il più delle volta l'abbondanza della informazione può tramutarsi nella rarefazione della comunicazione o nella patologia dell'incomunicabilità. In virtù dei paradossi alimentati, nel recinto delle pareti domestiche, dalla solitudine dell'individuo interattivo, il suo bulimico consumo di informazione può mutarsi facilmente in info-obesità o in mania, follia accuratamente coltivata e amplificata dalle claustrofobie di appartamenti iperaccessoriati.

La storia e la realtà del mondo contemporaneo hanno avuto ragione di ogni ideologica, fanciullesca illusione nell'affratellamento connaturato all'espandersi delle forme della comunicazione. Un tempo l'Occidente aveva conoscenza dell'altro, dell'Oriente, ma amministrando la distanza, grazie magari all'ausilio o allo schermo fornito da categorie quali l'esotico, il favoloso. Oggi la compresenza, l'incombenza dell'altro nella vita quotidiana, nel quartiere e spesso nel condominio, non facilitano il dialogo se non accompagnate da una adeguata opera di traduzione, dalla fattiva promozione della coabitazione. Viviamo invece la crisi radicale di ogni forma e luogo della traduzione, della coabitazione moderne: scuola, sindacato, partito, lo stesso luogo di lavoro, la fabbrica - culle storiche del legame sociale moderno, sedimenti della sua socialità - sono a soqquadro, sminuzzati nei flussi della produzione o sommersi dal sussurro o dalle seduzioni di network straripanti di chiacchiere e merci. La disintermediazione radicale che la vita subisce, dissolvendosi nei circuiti infiniti e molteplici di bit, ci schiaccia gli uni sugli altri in un indistinto sociale, in poltiglia a sua volta sempre più segmentata e squarciata da fratture che spazzano via le certezze e gli status del tempo che fu. L'incombenza dell'altro può finire così col nutrire e nutrirsi di rancore sociale e inimicizia.

Tutti presi a scoprire, teorizzare la cancellazione di ogni distanza fisica, la compressione assoluta nell'informazione di ogni determinazione di tempo e di spazio, scopriamo di colpo e con dolore la durata e la profondità delle distanze culturali. Per poterle amministrare e governare dovremmo ritornare a tradurre, reimparare a farlo nelle nuove condizioni dettate dalla comunicazione moderna. Inventarci allora nuovi contenitori, per lanciare, condividere nuovi progetti di coabitazione. Ricorrere perciò alla politica. Ma è qui la disillusione più radicale. Solo in rarissime occasioni - magari costituenti - la politica riesce a mantenere il passo o a sopravanzare la tecnica. Il più delle volte arranca e a distanze siderali, quando non precipita in crisi di sistema e d'epoca. L'illusione o la boria tecnocratica di aver ragione della società, della cultura, di poterle sciogliere naturalmente con l'ausilio di un qualche fluido o marchingegno, ha vissuto con il passaggio di secolo una delle sue pagine più sconvolgenti. Il XXI secolo lanciato alla conquista del villaggio globale si è svegliato all'improvviso nell'incubo dell'11 settembre, terrorizzato, ferito dal crollo delle Twin Towers.

 

 

Durata del Novecento

 

Squarci così netti  nel mondo circostante mostrano tutta l'illusorietà di vedute tese a segnare discontinuità radicali rispetto al secolo, più o meno breve, appena passato o ancor più a congelare la storia nell'eterno neoliberale. Per quanto epocale, la cesura del biennio 1989-1991 non ha resettato il tempo. Non ci ha consegnato pagine bianche tutte da scrivere. Il Novecento grava ancora sulle nostre vite, in forme e con lasciti di grande durata. Ce ne si accorge se si scosta occhio e cure dalla gabbia del bipolarismo che per decenni ha catturato - e anche durevolmente distorto - la nostra spasmodica attenzione. Ci accorgiamo allora di altre realtà e fratture e in particolare del fatto che siamo ancora immersi in quell'età avviata a metà del secolo scorso dalla vittoria contro il nazifascismo. Iniziò allora quella che Hedley Bull con felice intuizione ha battezzato «la rivolta contro l'Occidente»[4]. Il mondo unificato secoli prima dalla corsa e dal primato del Vecchio Continente prese a liberarsi - sotto la spinta di quella vittoria - dal carapace costruito nei secoli da colonialismo e imperialismo.

Geoffrey Barraclough sottolineerà l'imponenza di quel mutamento, ricordando come tra «il 1945 e il 1960 si rivoltarono al colonialismo e conquistarono l'indipendenza non meno di quaranta paesi, con una popolazione di 800 milioni, più di un quarto della popolazione mondiale. Non era successo mai, durante tutta la storia dell’umanità, un rovesciamento così rivoluzionario in un tempo così breve». Anch'egli, a ragione, ricorderà sulle orme di Bull che, quando si sarà in grado di scrivere la storia «in una più ampia prospettiva, è difficile che un solo tema si riveli più importante della rivolta contro l'Occidente»[5].

Aveva inizio allora l'età della decolonizzazione, un processo durato a lungo e per alcuni aspetti giunto ancora non domo, non sazio fino ai giorni nostri, fin sulla soglia del Terzo Millennio. Intanto, fino a quel 30 giugno del 1997 che, con la restituzione di Hong Kong alla Cina, ha finito con lo scollare quasi da ogni granello di Terra l'etichetta di colonia. Lo smantellamento dei grandi imperi europei stravolge la struttura profonda del globo, dando vita ad una ondata di mutamenti che finiranno con l'investire anche le conquiste più avanzare e durature della II guerra mondiale. Quando nel 1955 a Bandung i rappresentanti del considdetto Terzo Mondo  impugneranno le Carte delle Nazioni Unite e dei Diritti universali, rivolgendole contro le nazioni e le potenze ancora arroccate a difesa delle  ultime vestigia imperiali e di più moderne e resistenti forme di sfruttamento, a finire nel mirino è l'ONU stessa. Sotto l'urto delle nazioni che si liberano dalla morsa coloniale, essa diviene a mano a mano assemblea dominata a stragrande maggioranza da ex possedimenti coloniali. A finirne stravolta è la sua struttura oligarchica, affidata essenzialmente all'equilibrio delle grandi potenze, già distorto dall'inesausto tiro alla fune del bipolarismo.

Con straordinaria efficacia Eric Hobsbawm ha riassunto questo complessivo, epocale mutamento sottolineando come sia divenuto «sempre più chiaro nella seconda metà del secolo breve che il Primo Mondo può vincere battaglie, ma non guerre contro il Terzo Mondo». È questo il dato che il Terzo Millennio eredita durabilmente. Il globo si riassesta su nuove posizioni e su un tendenziale riequilibrio dei rapporti continentali. Il ritorno dell'Asia e soprattutto di Cina e India sconvolge la geografia novecentesca e ritesse i rapporti allora fissati tra le potenze occidentali e il resto del mondo. E' questo processo travolgente a dare la cifra al secolo avveniente e a marchiarlo con sigle di nuovo conio, quali BRIC, G-20. E' alla sua luce che - con buona pace di Michael Hardt e Toni Negri[6] - appaiono azzardati l'uso e l'abuso della categoria di imperialismo non solo per il XXI secolo ma già per il tempo e gli spazi del secondo Novecento. Ancor più per il Vecchio Continente e le sue vecchie potenze, rispetto alle quali  già Arnold Toynbee aveva per tempo tratteggiato la nuova collocazione dopo il ciclo delle due guerre mondiali: adesso è il turno dell'Europa, è essa ora «a subire la lezione che attorno al 1500 ha iniziato a impartire al mondo» e soprattutto a «trovarsi minimizzata in confronto al mondo d'oltremare da essa stessa chiamato alla esistenza nella storia[7].

Allungando lo sguardo su queste vedute, si potrà allora essere più avvertiti rispetto  al vanto - politicamente assati pesante e malizioso - menato dalla vulgata neoliberale sulla fine della guerra fredda e sulla scomparsa dell'Unione Sovietica. Oggi appare sempre più insostenibile, quando non platealmente falsa, quella visione in bianco e nero di «un mondo libero» lanciato dal reaganismo in corsa vittoriosa contro l'«impero del male», l'URSS. Nascondeva troppi dati: lo stress stesso cui gli USA erano sottoposti in quel tiro alla fune che intanto costringeva il mondo ad un passo insostenibile su vari piani, da quello finanziario a quello ecologico. Occultava sistematicamente le crepe del sistema sovietico, magnificandone invece strumentalmente la pericolosità e distorcendo così la stessa vita democratica, a favore di agenzie governative parasegrete e livelli duali di potere. Finiva soprattutto con l'annullare il ruolo assegnato o conquistato da altri soggetti nell'assedio e nel logoramento del sistema sovietico: in primis, il mondo islamico.

In realtà, l'URSS cade e muore sotto l'assedio portato dall'alleanza tra l'iperliberismo reaganiano e il medioevo islamico capeggiato dalla monarchia saudita. Esistono ricostruzioni minuziose dei vari terreni e frangenti su cui alla fine degli anni Settanta maturano e si stringono patti innominabili tra quanti a vario titolo - secondo angoli visuali magari d'opposta ispirazione - vantano e promuovono una propria missione nella lotta senza quartiere all'«impero del male». Per tutte, in questa sede, basterà ricordare come documento eclatante l'insospettabile confessione di Zbignew Brzezinski a Vincent Jauvert su «Le Nouvel Observateur»: gli USA in Afghanistan non hanno giocato di rimessa. Tutt'altro. Ben prima che i sovietici invadessero quelle terre, il Presidente Carter, consigliato dallo stesso Brzezinski, aveva deciso di fornire aiuto alle forze anti-sovietiche, ai fondamentalisti talebani. L'intento dichiarato era quello di «servire all'URSS la sua guerra del Vietnam». Traguardando l'obiettivo storico di determinare la «caduta dell'impero sovietico», come si fa a soppesare sulla stessa bilancia - per usare le parole di Brzezinski - le «gesta dei talebani», di «qualche islamista ecccitato», e la fine della guerra fredda, la «liberazione dell'Europa orientale»[8]?

Con troppa faciloneria si è pensato poi di derubricare a mero accidente storico il peso conquistato sullo scacchiere afghano dalle forze islamiche. Non si sono fatti compiutamente i conti con quella forma di assoluto risentimento alimentata, più ancora che dall'umiliazione degli umili e degli oppressi, dall'esser messi da parte, dall'esser negati come soggetti della storia. Il mondo cosiddetto libero ha pensato in realtà di non pagar pegno, promuovendo e ingaggiando le nuove Jihad alla stregua di faide mercenarie. Apparecchiata la tavola sui resti dell'impero sovietico, si è provato a congedare mujaheddin e talebani, come famigli di scarso peso e valore. Salvo scoprire che, lungi dal rassegnarsi al dimenticatoio della storia, ambivano allo status e al posto di commensali. E' stato allora che la fascinazione della guerra appena vinta ha preso a serrare entrambi i protagonisti - l'unipolarismo americano e il fondamentalismo islamista - in un identico gioco perverso: manipolare la propria e l'altrui ombra sulla terra, esportare con la guerra il proprio credo. Democrazia e Islam sono finiti impugnati come bandiere di mondi in conflitto, perversa incarnazione della profezia di Huntington ovvero astorico prolungamento e stravolgimento di quella guerra fredda appena conclusa.

Nel solco di queste derive e in dissennata amplificazione di questo determinato terreno di scontro, si è corso il rischio di finire abbacinati dalle immagini contrapposte che le vedute a tutto tondo dell'Occidentalismo o dell'Orientalismo hanno provato a veicolare e cucire sulle membra dell'altro. Si pensi al tema della cosiddetta «infelicità araba» indagato da Samir Kassir[9]. Declinato fideisticamente esso ha finito con l'alimentare sulle opposte sponde politiche e culturali - e spesso anche del Mediterraneo - visioni distorte di paesi e popoli arabi schiacciati in universi informi: ora accomunati agli occhi dell'estraneo dall'arretratezza del cosiddetto «mondo arabo»;  ora preda di un vittimismo, vissuto dagli arabi stessi come «impotenza ad essere dopo essere stati»[10] o come sacrificio, vantato magari dal fondamentalismo in parentesi rispetto al riscatto futuro.

La compressione di soggetti e spazi diversi nella poltiglia di un universo comune non poteva non mutarsi nella proposizione di un Novecento indistinto, asciugato di età e stagioni, e perciò rinsecchito nella rappresentazione di un lungo e infelice congedo degli Arabi dalla modernità. Con riferimento alla seconda parte del Novecento,  può accadere così che finisca indistinto e misconosciuto il lungo e impegnato moto di partecipazione degli Arabi al movimento di liberazione dal neocolonialismo. Su molte delle sponde meridionali del Mediterraneo i termini di 'classe', 'masse', 'nazionalizzazione', 'rivoluzione' hanno conosciuto una declinazione originale, contribuendo ad arricchire i colori del socialismo, ad allargare le fila del Terzo Mondo, ad imprimere torsioni e timbri inediti all'universalismo. In quel torno di tempo lo stesso capitolo della modernizzazione proprio in Egitto - culla per eccellenza del primo artifizio scientifico, dell'incontro virtuoso tra l'uomo e l'acqua, tra l'uomo e gli astri - s'avvia per un percorso in cui l'imitazione stessa dell'Occidente, l'assunzione di un passo più spedito e sicuro richiedono, impongono rotture esemplari. Geoffrey Barraclough ha rappresentato magistralmente - per una intera età - questo punto di rottura: per potersi compiutamente definire come «noi» rispetto a «gli altri» v'è bisogno di passare ad un nuovo «noialtri»[11]. E' quello che Nasser fa all'indomani di Bandung e rispetto alla Francia e all'Inghilterra dimentiche degli impegni contratti con la Carta delle Nazioni Unite e del giuramento consegnato nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Nazionalizzazione del Canale di Suez e diga di Assuan rideterminano il rapporto tra l'Egitto e la modernità, quella terra e le acque che la bagnano. Per poterle conquistate, però, per realizzarle, v'è bisogno di ridisegnare il Mediterraneo e le Nazioni Unite ben al di là della decolonizzazione e dei suoi processi. Come ricorderà Jean Monnet nelle sue Memorie negli ambienti della CEE nascente vi era chi, andando con la memoria al fatale 1956, «suggeriva di dedicare una statua a Nasser, come federatore dell'Europa»[12]: è lì, nell'atto creativo che chiama a vita nuova le colonie di un tempo e costringe gli imperi europei a prender atto della propria finitezza, l'atto di nascita di nuove realtà continentali e nuove forme globali, l'alba di un nuovo «noialtri».

 

 

Sismologie

 

La storia successiva degli Arabi, la corsa tumultuosa nei decenni finali del secolo breve, rischia anch'essa di non esser compresa, se interpretata magari con le chiavi analitiche di una vulgata a forte impronta neoliberale che imputa allo statalismo delle élites anticoloniali - egiziane o tunisine, algerine o irachene - un vizio d'origine capace, in anticipo sui tempi, di infettare e distorcere il nazionalismo e l'arabismo del nuovo inizio. Insomma, l'avvento di una notte in cui tutte le vacche divengono nere, in cui anche soggetti e movimenti - nati col farsi azione di grandi masse e di processi o promesse di democratizzazione - finiscono per confondersi in una storia più ampia e più lunga durata, segnata dal trionfo dell'oligarchia, monarchica che fosse o repubblicana, laica o religiosa. Vi sarebbe bisogno però, per indagare adeguatamente nelle differenziazioni prodotte nel mondo arabo dai processi di liberazione dal neocolonialismo, di uno scavo molto particolareggiato. Capace, ad esempio, di comprendere le forme specifiche di impatto della guerra fredda e del tiro alla fine bipolare su quest'area e i processi particolari con cui le sue varie realtà hanno partecipato al confronto dei due campi. Si potrebbe allora capire come - nel ciclo delle guerre arabo-israeliane, tra il 1967 e 1973 - l'URSS abbia visto in quest'area messo in crisi anzitempo, con quasi un ventennio di anticipo, il suo ruolo di superpotenza e come una specifica, per quanto imperfetta, anticipazione di unipolarismo  a stelle e strisce abbia fatto allora il suo esordio proprio in Medioriente. Continuando in una analisi differenziata si potrebbe poi analizzare motivazioni e mosse di alcuni paesi arabi nella proclamazione del primo embargo petrolifero. Indubbiamente, una decisione chiave, un punto di non ritorno. Si determinarono allora nuovi rapporti tra Nord e Sud del mondo. Nulla fu poi come prima soprattutto in materia di crescita e sviluppo. Quell'atto però si rovesciò ben presto in una frammentazione proprio di quel fronte dei non allineati cementato da poco dalla nascita del "Gruppo dei 77" e dalla richiesta in sede UNCTAD di un «nuovo modello di sviluppo»[13]. Rendita petrolifera e accumulazione vertiginosa di petrodollari attivarono piuttosto altri canali. Al loro interno e in volenterosa associazione coi circoli più esclusivi ed elitari del mondo sviluppato, alcuni paesi arabi chiave - a smentita di ogni fondamentalistico arroccamento e anzitempo rispetto agli stessi sviluppi del capitalismo globalizzato - diedero vita a nuove tecnocrazie e enclaves finanziarie. Prima ancora di poter fiorire, le promesse di liberazione e sviluppo appassirono anzitempo rendendo ancora più amari i risvegli e più dolorosi i tradimenti di élites divenute di colpo oligarchie.

Su altri fronti ancora, il mondo arabo ha rivelato di non aver vissuto l'ultimo torno del XX secolo con i riflessi appannati di una inevitabile senescenza. Mentre gli schermi di tutto il globo documentavano la sconvolgente perversione dell'universalismo antifascista e anticoloniale nell'inferno in mare dei boat-people vietnamiti, l'Iran trovava in Khomeini e nel suo fondamentalismo la risposta alla tortura modernizzatrice di Mohammed Reza Pahlavi. L'«utopia retrospettiva» dello Stato islamico faceva il suo ingresso nella storia, precipitando gli Arabi nella rivisitazione di antichi conflitti e aggiungendo fascine ai fuochi già ardenti del Medioriente. Ai conflitti mai spenti indotti dall'imperativo di modernizzare l'Islam si aggiungevano ora le fratture  causate dal disegno di islamizzare il moderno. In uno con gli sviluppi che ovunque vedono il protagonismo di nuovi movimenti e fermenti religiosi - segnato dalla nuova vitalità delle sette evangeliche o dell'ortodossia ebraica o ancora dall'astro nascente di Karol Wojtyla - anche gli Arabi, in contestazione dell'anomia di tardo Novecento, celebrano la loro «rivincita di Dio»[14].  Come sismografo sensibilissimo, incastonato all'incrocio di mari e continenti, popoli e civiltà, il Medioriente registra in anticipo, proprio in forza delle sue fragili impalcature, i movimenti che di lì a poco scuoteranno le formazioni di più moderna e robusta costituzione, avviandole ad un alleggerimento - quando non liquefazione - delle impalcature non solo industriali, ma financo sociali e democratiche.

 

 

Sotto la pelle

 

A mano a mano che s'avvicinava e poi si compiva il torno di secolo e millennio, la rappresentazione del mondo arabo trasmessa dall'orientalismo - un universo compatto, magari increspato nella favolistica metropolitana buona a far copertina, da vizi e follie di satrapi e rentier - si rivelava molto più che falsa. Soprattutto pericolosa. Mentre il mondo tutto era costretto, per usare le parole di Kofi Annan, ad entrare nel XXI secolo «per la porta di fuoco dell'11 settembre»[15], quei disegni a tutto tondo hanno rischiato il sequestro del globo nella fascinazione mortale dello scontro dei mondi, del «conflitto di civiltà»[16].

Fortunatamente a indirizzare o influenzare il disegno e il racconto del tempo non v'è stato solo il tiro alla fune inscenato dai contrapposti proclami, dai tentativi di esportare il proprio credo per le vie di guerre e crociate.  Occidente e Islam non sono riusciti a riproporre e resuscitare un nuovo bipolarismo. A impedire la riproposizione della vecchia gabbia con nuovi imperativi e divieti vi sono stati soprattutto pacifismo e comunicazione, sia pure fuori dalle maschere e dai ruoli imposti da astrazioni o illusioni ideologiche. L'uno, per quanto imponente e determinante nell'impedire l'arruolamento del mondo nelle opposte fazioni della «guerra al terrorismo», non ha retto gli oneri e le responsabilità di fatto assunte come «seconda superpotenza»[17].  Non è riuscito, in particolare, ad impedire i guasti e i veleni disseminati da imprese, quali quelle in Iraq o Afghanistan durate ben più della Seconda Guerra Mondiale. Né ha saputo far leva come movimento nonviolento sul rifiuto della guerra maturato sotto la pelle del mondo e rivelato dalla sua mutazione in «guerra celeste». Interrogando opportunamente le metamorfosi dei conflitti post-Vietnam - condotti quasi sempre con mercenari in sostituzione degli eserciti di leva, con armi 'intelligenti' capaci di centrare a distanza il nemico sino alla perversione dell'omicidio mirato - avrebbe potuto far leva su questo imponente e civile, per quanto egoistico e utilitaristico, sottrarsi alla guerra della società contemporanea, per continuare in quella radicale riscrittura delle regole della convivenza tentata all'ombra di Auschwitz e Hiroshima e contraddittoriamente mantenuta dalla guerra fredda, per quanto nei giochi obbligati della deterrenza nucleare.  Più di recente, il pacifismo, come movimento globale, non ha saputo o potuto raccogliere e amplificare il grido prolungato venuto dalle sponde arabe, mancando qui una prova decisiva. Al massimo ne ha raccolto in alcuni paesi la lezione facendo propria e riproponendo soprattutto la critica alle oligarchie politiche e finanziarie, alla pietrificazione della politica.

La comunicazione per parte sua, per quanto trasformata ab imis da tecnologie che veicolano naturalmente, assieme al messaggio, informazioni sui suoi attori e percorsi, ha smentito con secchezza  tutte le più cupe profezie sull'avvento di universi orwelliani. La guerra al terrorismo, per quanto ossessiva e totalizzante, non è sfociata nel Grande Fratello. A dispetto del lavorio di decenni, dello spazio ossessivo conquistato sugli schermi e nelle consolles del pianeta, negli immaginari di grandi e piccini, dai vari Rambo e Commandos, la guerra non ha saputo varcare le soglie dell'hard power, tramutarsi in soft power, farsi fascinazione, sedurre o stravolgere Hearts and Minds del pianeta. Nemmeno nell'altro campo è riuscito il miracolo, a dispetto di quella dimensione «santa» e vindice di «torti millenari» rivendicata alla propria battaglia contro «americani, ebrei e miscredenti». Fede e militanza avrebbero dovuto compensare l'asimmetria, lo squilibrio provocati dall'addensarsi di ricchezza, scienza e potere su un piatto solo della bilancia globale. In realtà, per entrambi i contendenti lo scontro si è  risolto in una gigantesca  caduta di egemonia e controllo. Su ambo le sponde la predicazione guerresca ha disseminato piuttosto anticorpi che con il loro movimento hanno contribuito potentemente a dissolvere vecchie stratificazioni. gerarchie e alleanze. Più in ombra sono rimaste le nuove aggregazioni determinate dai nuovi canali di comunicazione, assieme alla loro qualità e durata.

Intanto, soprattutto in rapporto alla comunicazione e all'universo arabo, si è fatta strada in grandi fasce di opinione pubblica, ben oltre le usuali cerchie di addetti ai lavori, la percezione di un mondo molto più articolato. A popolarlo e differenziarlo stanno non solo il brulichio e il brusio caotici del Baazar e dell'Arab Street, o le divise dei militari frammischiate alle tuniche degli ulema. A segnalarne il perimetro ma anche sconfinamenti e smottamenti nella diaspora dell'emigrazione stanno radi minareti, annegati magari in foreste di antenne satellitari. Il maneggio dell'informazione e non del solo petrolio contraddistingue ormai da tempo l'iniziativa delle oligarchie arabe, le loro guerre intestine, così come anche la commistione opportunistica di affarismo e jihad, l'indugio nella pratica del doppio binario nei confronti dell'Occidente.

Dopo l'11 settembre, nell'età della guerra al terrorismo, la comunicazione in arabo si è venuta affollando di nuovi protagonisti: la predicazione si frammischia all'informazione e alla fiction, alle preoccupazioni dei governi così come alla ricerca del profitto. Si moltiplicano le iniziative esplicitamente rivolte alla promozione del considdetto dialogo interculturale, in genere di marca statunitense o europea[18]. A tratti la corsa si è fatta affannosa e tutte le reti, tutti i vari broadcaster si sono affannati ad offrire canali in lingua araba. A dare il tono però è soprattutto il protagonismo dei nuovi attori globali arabi, capaci di ingaggiare e sostenere la sfida dei grandi network transnazionali nel settore vitale delle All News. Al-Jazeera e Al-Arabiya, soprattutto, al tornante del secolo hanno mutato e per sempre il mondo arabo. E' la loro iniziativa - molto serrata, molto unidirezionale - che colora e dà soggettività a quell'universo, che fa vivere ora popoli e nazioni nel battito, nel respiro condiviso di uno spirito a tratti unitario. Il racconto quotidiano del mondo ora si colora di accenti che in diretta gli imprimono segni forti, a volte anche discordanti e in reciproca competizione. Basti vedere la  differenziazione con cui le due emittenti, durante la lunga guerra irachena, presentavano gli insorti: l'una come «combattenti della resistenza» e l'altra come «combattenti armati»; o magari come i caduti negli scontri con gli americani erano presentati su Al-Jazeera come «martiri» e  dagli schermi di Al-Araiya nominati come «civili uccisi in guerra». Ancor più significativa la differenza generale di approcci o nella copertura alle «primavere arabe» offerta dalle due reti: Al-Jazeera, con un flusso continuo di 24 ore su 24, ha parlato di «rivoluzioni»; Al-Arabiya, scadenzando le news nei vari appuntamenti quotidiani, ha presentato gli eventi come «crisi»[19].

Articolazione e differenza di giudizio, però, si producono ora non più solo per effetto della competizione tra emittenti, canali. La differenza fondamentale  adesso interviene nel racconto, nella sua articolazione, nella presentazione spesso di opinioni divergenti. Nascendo spesso dalla costola delle trasmissioni in lingua araba dei canali occidentali e dovendosi misurare anche con la loro concorrenza per acquisire professionalità e news, hanno dovuto mutuare e adattare format basati sul confronto dialettico e lo scambio di opinioni, sulla presentazione e il protagonismo di soggetti diversi. La legge dell'audience popola ora video e notiziari non più solo con maschi, mezzibusti di regime o predicatori in solitaria filippica. E può accadere che lo sfruttamento del monopolio conquistato nella gestione dei video-tape di Osama Bin Laden, dopo l'11 settembre, debba essere controbilanciato da servizi critici magari di eventi e personaggi della casa reale saudita, pena la caduta di credibilità o il 'buco' di notizie, o la loro mancata tempestività e completezza. La creazione e l'«unificazione» di uno «spazio mediatico arabo» si producono ora per gran parte sotto l'influsso o l'azione di soggetti, a volte extraterritoriali, in grado di agire ed esprimersi al di fuori del controllo  fin lì esercitato dal regime o del clero[20]. Nella fase di acutissima destrutturazione del mondo arabo provocata, al passaggio di secolo, da due guerre globali, le nuove soggettività dell'Islam e degli Arabi vengono ora attivate per canali e da attori altri da quelli tradizionali, di stampo politico-religioso. Nuove forme di radicalismo si abbeverano ora al senso di frustrazione alimentato dalla percezione di un declino inarrestabile, di una messa fuori gioco umiliante per il proprio mondo. Ad alimentarle sta ora l'attivismo di oligarchie semi-apolidi e di élites intellettuali sparse nei vari circuiti della diaspora e influenzate dai più vari milieux politico-culturali.

E' in  questo composito universo che esplode la rivoluzione di Internet nelle sue due ondate: la prima di impianto e la seconda sospinta dal Web 2.0, dal caos organizzato dei social network. Le rilevazioni di settore registrano a fine 2010 tassi di accesso a Internet e di partecipazione ai social network che oscillano tra il 16% della popolazione in Egitto e oltre il 30% in Marocco o Tunisia o ancora il 25% di Libano o Giordania[21]. Raccolto e rilanciato individualmente da milioni di PC e cellulari, un immane flusso di comunicazione inverte la sua marcia, rompendola e moltiplicando esponenzialmente messaggi e soggetti. Un'audience fino allora passiva comincia a prender voce, a stabilire legami. Si inventano parole d'ordine, ci si dà appuntamento, si chiedono e impongono incontri. Ci «si organizza senza organizzazione»[22]. La comunicazione e l'incontro virtuale ritrova e convoca la piazza, prova a reinventare l'agorà. Intanto impone la reinvenzione della TV. L'assedia, ne condiziona il palinsesto, propone con l'uso creativo della fotocamera o del semplice telefonino il citizen journalism, impone «un'informazione con il battito dei giovani»[23]. A sua volta la televisione è costretta a rinnovarsi e magari ad aprire un sito in Internet, con licenza creative commons, in modo da consentire di intervenire sulle immagini, per usarle, magari condividerle, ritrasmetterle.

In questo mondo, sotto quest'onda d'urto permanente, quotidiana, la diaspora, alimentata da tassi di natalità e flussi migratori straordinari, si ritrova e raccoglie in nuova, sia pur fragile soggettività, intanto nella misurazione quotidiana di una distanza tra popoli e palazzi che s'amplia a dismisura. Nell'atto stesso di sottolinearla, nominarla la si trasforma in frattura, scissione, delegittimazione del politico-statuale: ancor più bruciante quando esercitata rispetto non ad una escrescenza feudale, ma ad un potere figliato dalla liberazione dal colonialismo, rivendicato in nome di masse esposte a crisi rovinose. La rabbia e la contestazione aperta si fanno perciò catena e piazza e protesta, quando le cifre della disoccupazione incrociano i prezzi dei cereali in rialzo, l'impossibilità ad affrontare la giornata. Il 17 dicembre 2010, nella Tunisia in cui «il tasso di disoccupazione delle persone con un diploma di scuola superiore è del 44,9%; il tasso di disoccupazione delle persone comprese tra i 18 e i 20 anni ha una media del 29,8%; più di 1 milione e 300 mila ragazzi ha abbandonato la scuola fra il 2004 e il 2009 e il 70% dei giovani confessa di voler emigrare, in qualsiasi modo»[24], Mohamed Bouazizi si accende in miccia.

 

 

Stupori e silenzi

 

A sbigottire è il silente stupore del mondo rispetto all'incendio che esplode in Tunisia e si propaga all'Egitto alla Libia allo Yemen alla Siria, e ancora più in là. Eppure proprio il mondo ha soffiato e in ogni sua parte sulle braci lì ardenti e da tempo scrutate, analizzate da una miriade di osservatori. Non v'è mai stata area della terra fatta oggetto di tanto amorevoli cure o presa a mira da così accurati e strombazzati disegni strategici. Qui si è concentrata al passaggio tra XX e XXI secolo la battaglia per la conquista di Minds and Hearts, delle menti e dei cuori arabi e del pianeta. Ma qui ogni bilancio è fallimentare, in rosso mortificante. Ogni consuntivo deve arrendersi ad un' abissale asimmetria tra semina e raccolta, investimenti e profitti.

Aveva cominciato l'Unione europea nel 1995 con la Conferenza euromediterranea di Barcellona. Dopo l'11 settembre è stata la volta degli USA che, all'ombra di guerra al terrorismo e esportazione della democrazia, hanno provato nel 2004 ad innovare ragioni e stili  di una propria, già massiccia, presenza con l'iniziativa per un Grande Medioriente: Broader Middle East and North Africa Initiative. Né si può tacere dell'appello di Al Qaeda a sollevarsi contro il Satana americano e la miscredenza prezzolata delle oligarchie arabe[25]. Appelli ed appuntamenti divenuti, anche nei tempi in cui la cappa della guerra al terrorismo si è fatta più tetra, tran tran per affollare news e convegni e nutrire nuove catene transnazionali più o meno elitarie, traffici più o meno innominabili. Buoni soprattutto ad accatastare fascine sotto il fuoco in ebollizione. Élites e  vertici arabi hanno preferito focalizzare altrove la propria attenzione. Alla fine il pentolone in lunga ed esasperata ebollizione è esploso. Nel lasso di poco più di un ventennio cade un altro Muro. Un mondo intero torna a scuotersi e vibrare fin dalle fondamenta. Ai più non sarà subito chiaro ma un'intera epoca volge al tramonto. Intanto, ben in anticipo rispetto alle raffiche che a Abbottabat il 1° maggio 2011 salderanno con Osama bin Laden il conto dell'11 settembre, si chiude la lunga parentesi della guerra al terrore, durata ben più della Seconda Guerra Mondiale. Prima ancora che nel compound pakistano, nelle strade di Tunisia e poi d'Egitto muore l'illusione di fare dell'islamismo la leva di una rivolta contro l'Occidente e i suoi lacché mediorientali. A muovere la folla che si raduna in piazza «non v'è l'odio per l'Occidente, "per crociati ed ebrei", l'odio per l'America, grido di battaglia abituale di bin Laden, ma un desiderio di libertà e democrazia, due "valori" aborriti dal capo jihadista»[26]. A motivarla v'è la voglia di farla finita con le satrapie di conio più vario con cui l'oligarchia globale  ha pensato di poter assicurare il precario equilibrio del mondo e dell'area mediorientale. I manifestanti chiedono la fine della «doppiezza americana, evidente nel forte supporto prestato ai regimi» simili a quelli di Ben Alì o di Mubarak, assunti come antemurali rispetto al possibile contagio terroristico. Agli osservatori più attenti, di lì a poco apparirà evidente che «l'antidoto più efficace all'11 settembre è l'11 febbraio, giorno dell'uscita di scena di Mubarak»: «la via della riconciliazione non passa per Baghdad o Kabul», capitali di quel pantano, di quella guerra al terrorismo in cui Obama è ancora invischiato, «ma per piazza Tahrir»[27].

I giovani che si ritrovano nelle piazze di Tunisia e d'Egitto si lasciano alle spalle le scomuniche contrapposte di crociata e jihad. Come i loro coetanei del 1989 si affidano, scendendo per le strade, ai piedi e alla voce. Come nelle Montagsdemonstrationen - le settimanali dimostrazioni del lunedì a Dresda o Lipsia eredi del movimento pacifista sceso in campo contro gli euromissili - i giovani arabi chiedono e scelgono, in continuità con le speranze migliori del XX secolo, la nonviolenza[28].  Ecco, questo è il primo dato che accomuna la «primavera araba» alla caduta del Muro e che continua a nutrire il sogno di un mondo migliore. Il secondo è nei suoi protagonisti: in prima file stanno le città e la loro gioventù. Come già è stato rilevato per alcuni tratti dei rivolgimenti ad Est[29], in subbuglio sono soprattutto i luoghi e i soggetti, messi in movimento, scossi più massicciamente dai processi di modernizzazione attivati dall'alto. Su di essi l'impatto della crisi economica, del prezzo impazzito del grano, di disoccupazione e diseguaglianze in allargamento inarrestabile è devastante. La crisi esplode là dove la gioventù è più fitta e istruita, ma dove è anche divenuto massimo lo scarto tra le promesse di avanzamento e riscatto, l'apertura al mondo e all'Occidente, ad un universo francofono magari pieno di lusinghe, e il ripiego forzato nelle strettoie mortificanti di oligarchie e familismi corrotti, la compressione in un cunicolo senza luce[30]. Lì si intuisce solo che il mondo è altrove, che il futuro passa per altre strade.

A sottolineare altri parallelismi e somiglianze con la caduta della Cortina di Ferro stanno anche le percezioni assai nette di faide interne ai gruppi dirigenti e del ruolo, spesso assai ambiguo, giocato dall'esercito rispetto a questi scontri e nella gestione delle crisi, per lo meno nei momenti più acuti[31]. In Egitto, ad esempio, è l'armata che vibra il colpo decisivo. Di fronte allo scollamento del sistema, si pronuncia contro Mubarak e, giurando fedeltà alla sicurezza del paese, sceglie l'abbraccio con la piazza. In realtà in questo modo perpetua innanzitutto la centralità da tempo conquistata nella vita egiziana. E' sotto il suo controllo più di metà dell'economia nazionale. Se e come questa onnipresenza saprà esser messa se non al servizio, in dialogo con i soggetti del rinnovamento, come risorsa della democratizzazione, è  interrogativo cui solo il futuro potrà rispondere.

In netta soluzione di continuità con i moti che allora rivoluzionarono l'assetto del campo sovietico, sta innanzitutto il rapporto tra i soggetti del rinnovamento e la comunicazione, e i media. E' qui la novità. Tanto allora quello era unidirezionale, quanto nelle rivolte arabe è stato mosso, biunivoco. Allora un mondo occupò il video, ma per essere scrutato, narrato, lodato. La gioventù araba del nuovo secolo ha conquistato la comunicazione in forme molto articolate:  vi irrompe con la propria scrittura, con slogan, cartelli e striscioni, portati in piazza e scritti in inglese per essere trasmessi, rilanciati e ripresi in tutto il mondo, da amplificare magari e rafforzare con il tam tam di social network e blog. E' un flusso di comunicazione che influenza le stesse organizzazioni islamiche, confuse tra i manifestanti ma senza bandiere, senza vantare presenza. Pesano le ambiguità intrattenute, ad esempio in Egitto, dalla Fratellanza Islamica e dalla sue varie organizzazioni caritatevoli e di volontariato con la burocrazia del regime e soprattutto con la «borghesia pia» figlia dei processi di privatizzazione e modernizzazione attuati dal regime[32]. Più in generale, è qui, nel particolare tipo di richiamo all'Islam il segno più profondo del tempo passato rispetto all'esordio sulla scena mondiale dell'islamismo militante. Là dove un tempo dominava un netto richiamo fondamentalista,  ora prevale, per lo meno nelle correnti maggioritarie, una disposizione al compromesso, alla conciliazione con le altre forze, in un universo culturale che, soprattutto tra i giovani, vede avanzare in primo piano parole d'ordine politiche quali 'rispetto', 'dignità' e, d'altro canto, vantare una pratica religiosa individualizzata, più laicamente disposta se non alla separazione, al distanziamento tra religione e politica[33]. Altri, piuttosto che mutazioni post-islamiste, vedono all'opera - soprattutto per l'influsso della nuova comunicazione, dei reticoli che riplasmano il dialogo e l'interscambio  sociali - forme di «islamismo light»[34], non dissimili da quelle dominanti da tempo in Turchia.

In piazza non vi sono segni evidenti di Islam o islamismo. La rivoluzione è guidata dai laici. Non è detto che riescano a mantenere un ruolo e un peso identici quando la parola passerà al paese, a tutte le sue componenti.  E qui il paragone con il 1989 segnala differenze ed interrogativi di non poco momento. Quel movimento ebbe come faro le parole d'ordine e la pratica di resistenza di una generazione tutta di intellettuali in fiero dissenso dai vari regimi e dal potere sovietico. Nelle rivolte del 2011 non v'è traccia dell'ossessione anti-sionista, anti-israeliana, con cui per decenni gli Arabi - sia pure tra mille distinguo, contraddizioni e voltafaccia sulla questione palestinese - hanno corazzato la propria identità, il proprio comune sentire. Possono trovarsi invece i segni di una critica acuminata alla crisi in atto della democrazia  su scala mondiale, alla sua debolezza nei confronti del capitalismo e della finanza globali. A questi processi complessivi e alla loro cogenza globale i manifestanti fanno ascendere di fatto la morsa e la tenuta delle autocrazie indigene, tanto più scandalose quando rapportate alla clamorosa crisi di legittimità che le attanaglia come eredi della battaglia anticoloniale.

Perciò è ancor più impressionante l'assenza di una qualche forma di attiva solidarietà internazionale. Per la seconda volta, nel giro di due decenni nella storia del mondo contemporaneo un possente movimento popolare scuote gli assetti di un'area e gli equilibri del globo, in nome di libertà, partecipazione e eguaglianza, e quella parte del mondo che da due secoli e passa si è venuta formando a sinistra in nome di quegli stessi ideali rimane spettatrice silente. Non v'è cenno alcuno di qualche iniziativa d'accompagno ed appoggio, di comunione con le rivolte, magari a contrasto di quella contabilità degli sbarchi e di quel clima emergenziale per invasioni di migranti o profughi con cui in Europa destre e conservatori provano immediatamente ad ergere barriere, a distanziarsi da un altrove su cui stampigliare la condanna e l'abbandono dell' "Hic Sunt Leones". Ci si illude di poter distanziare da sé gli effetti di processi che, se di là del Mediterraneo causano macerie, fanno sentire ben forti gli scossoni al precario equilibrio europeo[35]. Più in generale, si tarda a prendere atto della necessità di un generale mutamento di passo imposto dalla chiusura della guerra al terrorismo. Fino a che punto si sono allentati i rapporti con vecchie e nuove oligarchie? Fino a che punto è ancora proponibile un assetto storico ereditato dal bipolarismo e dai suoi comandamenti, con i suoi contrafforti, i suoi equilibri? In quell'area, come in tutta l'Africa, da tempo la Cina ha fatto il suo ingresso, tesse la sua tela, fa sentire il suo peso. Adesso anch'essa si ritrae, rimpatria a forza, timorosa dell'incendio, di poterne importare qualche scintilla.

Un maremoto si annuncia. Intanto ancora una volta, come già nell'89, è la sinistra che rischia di ritrovarsi sotto le macerie del mondo vecchio che cade, travolto dalla voglia di libertà, dall'abbattimento di dispotismi più o meno sopportabili. E' la destra sospinta dal rancore sociale, incattivita dallo sciovinismo per un benessere che scivola via dalle mani, a dar voce e volto all'Europa.

Nè la situazione muta di molto nelle file del pacifismo, cresciuto con la critica all'avventura in Iraq, ma poi giunto alla fine del decennio in grande affanno. Ed è qui che le deliberazioni dell'ONU e le decisioni Nato, con la successiva campagna di bombardamenti, suscitano ben più che imbarazzo e silenzi di fronte all'iniziativa di governi che proclamano l'intervento umanitario, rifiutando persino l'ospitalità. Un trentennio di indefessa iniziativa e campagne, da quelle iniziali contro gli euromissili a quelle sulle guerre del Golfo e del Kosovo, non è bastato per l'elaborazione di una reale piattaforma programmatica di intervento nelle situazioni di crisi più acuta.  Con il risultato, nel caso libico, di esitazioni e balbettii sui due fronti in guerra e rispetto alla stessa avventura della Nato: accreditata magari sopra le righe di valenza e portata imperiali[36]. Un occhio più attento e sorvegliato, politicamente più reattivo, non avrebbe magari trascurato nel giudizio di considerare il troppo rapido mutamento di passo tra l'avventura francese ed europea nell'UMED, l' Union pour la Méditerranée, copresieduta da Sarkozy e Mubarak ancora nel 2008, e il via libera ai bombardieri in sostegno degli insorti minacciati da Gheddafi d'ogni martirio. Più che su di un risorgente imperialismo varrebbe forse la pena di indagare sulla netta mancanza di fiato e tenuta  rivelata intanto dai governi di Francia e Inghilterra, e più in generale da tutta l'Unione Europea. Altro il giudizio sugli USA e sulla presidenza di Barack Obama, alle prese ancora, sia pure con incertezze e ritardi, con l'inventario della disastrosa eredità lasciata da Bush II e dalla sua «guerra al terrore».

Una sinistra più accorta e più vigile, più aperta soprattutto, potrebbe cogliere nella sollevazione, nel tumulto dell'Arab Street un ammonimento, un "De te fabula ..." da cui provare magari - tentando di portare aiuto e solidarietà - a mettere a frutto la lezione. Lì nel vitro di una condizione resa incandescente dai tratti unici di demografie giovanissime, collocate all'incontro di faglie geopolitiche e culturali in cozzo permanente, si agita limpidissima la miscela dei conflitti di terzo millennio. A disegnarne con grande incisività i contorni provvedono da tempo, con regolare cadenza, i «Rapporti sullo sviluppo umano nei paesi arabi», elaborati a partire dal 2002 da una specifica iniziativa promossa dall'UNDP, la divisione dell'ONU nata attorno all'elaborazione e allo studio dell'indice sullo sviluppo umano[37].

Lì in quelle terre il futuro si approssima con un accumulo di contraddizioni spaventoso. Intanto sotto la spinta di una demografia non ancora domata da modernizzazioni di sorta. Si prevede che i vari paesi arabi che, dalle coste dell'Atlantico a quelle del Golfo Persico, contornano il Mediterraneo saranno nel 2015 casa per circa 395 milioni di persone: una crescita esponenziale rispetto ai 150 milioni che li popolavano nel 1980 o ai 317 del 2007. Mezzo secolo fa quest'area rappresentava il 2,5% della popolazione mondiale. Oggi essa pesa sul globo per poco più del 5%. Da tempo è in moto permanente, in fuga dai luoghi di nascita: verso il Mediterraneo settentrionale e l'Occidente - il 50% e passa dei giovani arabi dichiara di voler emigrare in Europa - e verso le città, le metropoli arabe. Già nel 2005 si addensava nelle città il 55% degli abitanti. Per il 2020 si prevede di superare l'asticella del 60%.

Sono qui il cuore e il cervello più giovani del pianeta: il 60% ha meno di 25 anni, con una età media di 22 rispetto alla media mondiale di 28. Un universo giovanile sottoposto a torsioni culturali e di genere clamorose. Illuminanti i dati dell'Unicef sul matrimonio forzato delle giovani donne e sulle dinamiche innestate dai processi di urbanizzazione e modernizzazione: tra il 1987 e il 2006 la proporzione di donne tra i 20 e i 24 anni sposate prima ancor di compiere 18 anni è del 45% in Somalia, 37% in Mauritania e Yemen. 30% alle Comoros e 27% in Sudan. Solo il 10% in Tunisia o il 2% in Algeria.

E' sulle loro vite che si scarica il peso di uno scambio sempre più ineguale. Considerando la realtà complessiva del Mediterraneo e dei paesi, europei ed africani, che vi si affacciano, un' analisi appena approfondita delle dinamiche intrattenute dalle opposte sponde introduce subito al dramma. Ora quelle rive sono popolate da poco più di 450 milioni di persone, rispetto ai 300 che le animavano nel 1970. A fare la differenza sta ora la senescenza della sponda Nord: 40 anni fa, essa pesava in termini di popolazione per circa la metà, ovvero il 49,3%. Ora gli europei del sud a malapena arrivano al 38% della popolazione complessiva. A declinare però è solo l'età, non l'appetito. Quando l'occhio si appunta sul maneggio delle risorse, sui traffici commerciali, un dato appare con nettezza: a dispetto di rivoluzioni dei mercati ed embarghi petroliferi, stabili si sono rivelati la presa e il controllo settentrionali sull'80% circa delle produzioni di tutta l'area. Se poi lo sguardo si allarga alle quote di ricchezza prodotte globalmente, allora si comprende meglio che tipo di tempesta sta investendo tutto questo mondo. Secondo la World Bank le produzioni di tutta l'area mediterranea nel 1980 rappresentavano il 15,3% del PIL mondiale. Vent'anni dopo erano ridotte al 12%.

Sui paesi arabi e sui loro giovani si scaricano l'egoismo e l'incapacità di un mondo più largo di reggere le sfide di un globo sempre più interconnesso da produzione e comunicazione globali. Ma soprattutto il tradimento di élites e oligarchie arabe. La presa sul petrolio, la distorsione causata dall'insistenza maniacale nella monocoltura hanno fatto sì che il grado di industrializzazione e terziarizzazione di questi paesi sia divenuto più leggero ed evanescente di quello vantato nel 1970. Allora la produttività procapite dei paesi arabi era più alta di quella media vantata dalle nascenti tigri asiatiche. All'alba del XXI secolo si è a meno della metà di quella coreana. Nel 2005, prima dello scoppio della crisi globale, la disoccupazione nel mondo era al 6,6%. Sulle coste meridionali del Mediterraneo era già schizzata al 14,4%.

Né si possono coltivare molte speranze per i tempi a venire, quando si volge lo sguardo sul modo in cui i gruppi dirigenti indigeni si sforzano  di incrudelire, con l'apporto di divisioni e odi atavici, il carico di tensioni che il mondo scarica su queste terre. Nel 2008 vi si addensava il 46,8% di tutti i rifugiati censiti dall'ONU sulla terra.  A rivelare però nella maniera più plastica ed evidente quali e quante tensioni si siano accumulate e continuino a crescere tra le genti arabe stanno i numeri sulle opere e i libri tradotti in arabo. Secondo il rapporto dell'UNDP del 2002, a quella data eravamo ad una media annuale di 330 libri. Ovvero un quinto delle opere tradotte in un anno dalla sola Grecia. Negli ultimi mille anni, dal IX secolo del califfo Al Mamoun, sono state tradotte circa 100 mila opere: il tutto ad un passo medio annuale pari a quello osservato dalla sola Spagna[38].

 

 

Un nuovo Noialtri

 

Le condizioni di prostrazione e deprivazione cui è costretta l'Arab Street sono figlie di una chiusura rigidamente amministrata da gran parte delle élites politiche e religiose. Non è difficile immaginare cosa questo comporti quando la sua gioventù - in quotidiana traspirazione col mondo, con il bombardamento di idee e stimoli che in rete ne accelera i pensieri e accende i desideri - è costretta a prender atto persino della pressione insopportabile esercitata sulla propria vita dal rialzo di prezzo del grano.

Fortunatamente, tra i giovani non hanno pesato le esitazioni che hanno a lungo attardato, soprattutto in Europa, la percezione dei mutamenti in atto nel mondo arabo. Esitazioni che hanno consegnato il mondo politico e culturale continentale dapprima al silenzio e poi a balletti e giravolte attorno alle etichette più disinvolte per nominare i rivolgimenti in atto in quelle terre e i loro sviluppi: primavere, rivolte, controrivoluzioni. Difficoltà e balbettii che in realtà evocano e interpellano altri impacci, altre impotenze: l'incapacità manifesta, cioè, a contrastare la lenta e inesorabile riscrittura in atto della tanto magnificata democrazia occidentale, la manomissione dei suoi equilibri e delle sue regole ad opera di esecutivi e tecnocrazie. Nell'afasia che la sinistra europea, in particolare, ha rivelato rispetto alla sconvolgente discesa in campo delle donne, dei giovani e di grandi parti del mondo arabo, viene a nodo più in generale la sua impotenza rispetto alla crisi che sul Vecchio Continente tormenta l'Unione europea e distorce la vita di gran parte dei suoi paesi entro l'inusitata dilatazione delle diseguaglianze sociali. Quel silenzio nasce dall'incapacità di indirizzare il decorso della crisi europea e globale verso una strada alternativa all'eutanasia organizzata di welfare e socialità, agli imperativi su cui è stata costruita la governance europea e si continua ad instradarne la riforma.

Più pronti sono stati invece in Europa i giovani nel percepire la portata delle rivolte arabe, i loro tratti post-islamici. Hanno compreso subito che di là del Mediterraneo si facevano i conti con strette autoritarie insopportabili, ma anche con tante promesse non mantenute della  democrazia occidentale e con nuove minacce: con divieti e comandamenti di nuovo conio, ora laicamente scolpiti in codici di borsa e rapine di copyright e DNA. La rivolta è così deflagrata per tutto il Mediterraneo, nell' Israele colpita dal carovita, ma poi tra gli indignados spagnoli e su in Inghilterra, o di là dell'Atlantico, nelle università cilene. Nell'«infelicità araba» i giovani d'Europa hanno visto il riflesso di una propria insopportabile infelicità: moderna o postmoderna che fosse. Nell'abisso scavato tra la gioventù e le oligarchie arabe, i figli dell'Erasmus - di quei programmi di scambio culturale e formazione universitaria che stanno attivando e mettendo in circolo gli embrioni di un vero popolo europeo - hanno scoperto amplificato il fossato che nella vita di ogni giorno li divide da un'Europa matrigna, incapace di raccogliere e riconoscere, far proprie le loro speranze. Persino negli USA, Occupy Wall Street è deflagrata nel corso del 2011 con ben più di una eco agli sconvolgimenti delle terre arabe. Anzi, esplicito e continuo è suonato il richiamo, assunto come stimolo e incitamento.

A fare da trait-d'union fra tutti questi movimenti un filo sottile, ma persistente e resistentissimo che dal cuore del Novecento, dei suoi assalti al cielo, giunge inquieto e non domo fino a nostri giorni. E' un noi collettivo che avanza dal profondo degli anni Sessanta, dalla contestazione globale  degli equilibri catastrofici allora imposti alla terra. Già tante, troppe volte è finito disilluso, piegato ma mai sconfitto. A segnarlarne la ricorrente emersione una miriade di appuntamenti e rotture che ci hanno accompagnato nell'ingresso nel XXI secolo e nei suoi primi gironi: dalla Parigi del grande sciopero del dicembre 1995 alla Seattle del 1999, con l'assedio al Millennium Round della WTO, per andare ai grandi raduni del World Social Forum o alle mobilitazioni pacifiste contro le guerre del Kosovo e in Iraq. A unificarlo e sospingerlo, sia pure per tratti generalissimi, il richiamo condiviso ai «beni comuni», a quell'insieme di risorse che permettono la sussistenza e la riproduzione degli uomini, nel loro farsi società, a livello locale e globale. Oggi essi, intesi come insieme di risorse naturali o di artifizi, convenzioni tecnologiche, sociali e giuridiche, sono sottoposti alle riforme strutturali progettate dal neoliberalismo. L'intento -  si dice -  è di liberarli dalle incrostazioni corporative, dagli egoismi generazionali che, sedimentati dalla lunga stagione dello stato sociale, oggi ne impediscono la più libera fruizione soprattutto da parte dei new comers, dei più giovani. Più in generale, si sostiene la necessità oggi di normare le nuove forme o i nuovi composti cui i «beni comuni» danno vita, quando vengono dissolti e riaggregati in combinazioni e assetti di tipo nuovo dalla terza rivoluzione industriale, quel cataclisma individuato tempo fa dagli osservatori più smaliziati con la simbologia più o meno esoterica di varie lettere: le due M di mercato e multimedia o le due C di cyberspazio e capitalismo[39].

Utilizzata come manifesto e richiamo condiviso ad una dimensione comunitaria sottoposta a prove durissime, la nozione di beni comuni ben si presta a mobilitazioni efficaci e all'evocazione di un sentire partecipato. E questo spiega la sua larghissima fortuna, anche a prezzo di qualche eccesso organicistico. Perché essa possa dispiegare appieno il suo potere costituente - ad un tempo di un ordine e di una soggettività capace di dettarlo o quanto meno di orientarne l'adozione - v'è bisogno di affermare vedute ricche di una nuova alleanza tra scienza e potere, di una riarticolazione del legame sociale in grado di determinare un nuovo equilibrio tra accumulazione e legittimazione o almeno di arrestare la loro devastante divaricazione.

Spira nelle vele dei «beni comuni» il vento migliore delle Costituzioni edificate nel secondo Novecento: una forza buona non solo per affollare le Corti di giustizia o sospingere l'ambizione aristocratica dei migliori. Come lievito essa può tornare ad aiutare le mani che si sforzano di reimpastare il pane di percorsi comuni, di avvitare i cardini condivisi di un nuovo ordine. Nel lungo sussulto con cui un noi collettivo ha punteggiato anche il decennio della guerra al terrorismo e accompagnato il suo tramonto, la gioventù araba - nel laboratorio più precario e fragile del mondo - ha saputo imporre in molti di quei paesi un cambio di regime e di passo, in nome di un interesse generale di quelle società e in anticipo su altre parti del mondo. Nel suo solco, altri si sono aggiunti a quel noi corale,  provando a dargli un'intonazione sempre più larga: «noi, il 99 per cento» dell'umanità. Siamo forse ai primi passi di un nuovo Noialtri,  capace finalmente di durare e lasciare un segno incisivo sul tempo che ci corre incontro. 



* Docente di Storia delle relazioni internazionali, Università di Bari

[1] Così Joseph S. Nye jr. traduce la categoria di 'egemonia' proposta da Gramsci offrendola come chiave interpretativa del primato USA nel XX secolo: rispetto ad una bibliografia ricchissima, valga il riferimento al fondamentale Bound to Lead. The Changing Nature of American Power, New York, Basic Books, 1990.

[2] M. McLuhan, Understanding Media, 1964, tr. it.: Gli strumenti del comunicare, Milano, Il Saggiatore, 1967, p. 57.

[3] D. Wolton, Informer n'est pas communiquer, Paris, CNRS 2009, p. 17.

[4] H. Bull, La rivolta contro l’Occidente,  in H. Bull - A. Watson (eds.), The Expansion of International Society, Oxford University Press, 1984, tr. it.: L’espansione della società internazionale. L’Europa e il mondo dalla fine del Medioevo ai tempi nostri, Milano, Jaca Book, 1994

[5] G. Barraclough, An Introduction to Contemporary History, A. C. Watts & Co., London 1964, tr. It. Introduzione  alla storia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1971, pp. 157-8.

[6] Per citare solo i più noti, valga il richiamo a M. Hardt – A. Negri, Empire, Cambridge – London, Cambridge University Press, 2000, tr. it. Impero, Milano, Rizzoli, 2002.

[7] A. J. Toynbee, Civilizaton on Trial, tr. it.: Civiltà al paragone, Milano, Bompiani 1949 e 1983, p. 168.

[8] Z. Brzezinski, Oui, la CIA est entrèe en Afghanistan avant les Russes... Les révélations d'un ancien conseiller de Carter, à Vincent Jauvert, in «Le Nouvel Observateur», 15 janvier  1998.

[9] Considérations sur le malheur arabe, Arles, Actes Sud 2004, tr. it.: L'infelicità araba, Torino, Einaudi 2006.

[10] Ivi, p. 5.

[11] Op. cit., p. 267.

[12] Mémoires, Paris, Fayard, 1976, p. 495.

[13] Per una puntuale descrizione, cfr. H. Van Der Wee, Prosperity and Upheaval: The World Economy 1945-1980, Deutscher Taschenbuch Verlag, Monaco 1983, tr. it. L'economia mondiale tra crisi e benessere 1945-1980, Hoepli, Milano 1989, pp. 33740.

[14] Così nel libro omonimo sull'emersione dei fondamentalismi religiosi Gilles Kepel, La revanche de Dieu. Chrétiens, juifs et musulmans à la reconquète du monde, Éditions du Seuil,  Paris 1991, tr. it. La rivincita di Dio, Rizzoli, Milano 1991.

[15] K. Annan, La frontiera tra ricchi e poveri, in «la Repubblica», 11 dicembre 2011.

[16] L'ovvio richiamo è al libro più citato e commentato nell'ultimo quindicennio: S. P. Huntington, The Clash of the Civilizations and the Remaking of World Order, New York, Simon & Scuster, 1996 tr. it. Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano, Garzanti, 1997.

[17] Così P. E. Tyler, A New Power in the Street, in «The New York Times», 17 febbraio 2003.

[18] Cfr. D. Della Ratta, La cooperazione audiovisiva lungo le sponde del Mediterraneo, in F. Cassano - D. Zolo, L'alternativa mediterranea, Feltrinelli, Milano 2007, pp. 179-92.

[19] S. Sibilio, La rivoluzione dei (nuovi) media arabi, in Le rivoluzioni arabe. La transizione mediterranea, a cura di Francesca Maria Corrao, Mondadori, Milano 2011, p. 96-7.

[20] Cfr. O. Saghi, Oussama ben Laden, une icône tribunitienne, in Al-Qaeda dans le texte, PUF, Paris, 2005, tr. it. Al Qaeda. I testi, presentati da Gilles Kepel, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 18.

[21] Sibilio, op. cit., p. 98.

[22] A. Merrifield, Crowd Politics. Or, 'Here Comes Everybuddy', in «New Left Review», n. 71, september-october 2011, p. 103.

[23] Sibilio, op. cit., p. 106.

[24] Tahar Ben Jelloun, La rivoluzione dei gelsomini. Il risveglio della dignità araba, Bompiani, Milano 2011, p. 41.

[25] Per un bilancio complessivo di queste iniziative cfr. F. Cassano - D. Zolo, L'alternativa mediterranea, Milano, Feltrinelli 2007, in particolare il saggio introduttivo di Zolo. Il volume meritoriamente ricco di analisi e documentazione sul campo prova una ambiziosa ricostruzione, in termini di longue durée braudeliana, del Mediterraneo come «pluriverso» da contrapporre in «alternativa culturale e politica alle derive 'oceaniche' della globalizzazione», ma finisce per larghi tratti con l' eternare nelle maschere di Islam ed Occidente costruite dalla stagione della «guerra al terrorismo» un rapporto che in realtà è stato più ricco e vario, soprattutto per il segno che vi hanno lasciato gli Arabi.

[26] La deuxième mort du fondateur d'Al-Qaida, editoriale di «Le Monde», 3 maggio 2011.

[27] R. Cohen, From 9/11 to 2/11, in «The New York Times», 13 febbraio 2011.

[28] U. Beck, Il crollo del muro arabo, in «la Repubblica», 20 febbraio 2011.

[29] A. Graziosi, L'URSS dal trionfo al degrado. Storia dell'Unione Sovietica. 1945-1991, Bologna, il Mulino 2008, pp. 596 e ss.

[30] L. Annunziata, Il cigno nero d'Egitto, in «La Stampa», 30 gennaio 2011.

[31] Per una ricostruzione del biennio 1989-1991, ricca di informazioni e suggestioni analitiche sullo scontro interno alle élites sovietiche e dei vari paesi socialisti, cfr. P. D. Zelikow, The Suicide of the East? 1989 and the Fall of Communism, in «Foreign Affairs», november-december 2009.

[32] G. Gervasio, Egitto: una rivoluzione annunciata?, in Le rivoluzioni arabe cit., . 153.

[33] O. Roy, Révolutions post-islamistes, in «Le Monde», 13 febbraio 2011.

[34] Così Patrick Haenni, citato da Tahar Ben Jelloun, op. cit., pp. 56-7.

[35] G. Sapelli, L'onda del Sud sui nostri equilibri e Quel patto mancante tra UE e Africa, in «Corriere della Sera», 19 febbraio e 11 aprile 2011.

[36] Cfr. soprattuto la discussione nata in Italia dalle note di R. Rossanda, Illusioni progressiste e Libia: parlare chiaro, in «il manifesto», 24 febbraio e 9 marzo 2011.

[37] E' possibile consultarli all'apposito sito http://arabstates.undp.org/. I dati seguenti sono tutti tratti da quelle pubblicazioni, in particolar modo dal confronto dei due rapporti del 2002 e del 2009.

[38] Dati citati da S. Galal, La traduction dans le monde arabe : réalités et défis, Conseil supérieur de la culture, Le Caire 1999:

[39] Così, E. Izraelewicz, Ce monde qui nous attend. Les peurs françaises et l'economie, Paris, Grasset, 1997, p. 20-1; più in generale sulla «terza ondata» A. Toffler, The Third Wave, 1980, tr. it.: La terza ondata, Milano, Sperling & Kupfer 1987.